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Era stato quasi catartico parlare del caso con Simon Berish.
L’avergli riferito i dettagli dell’indagine aveva permesso a Bruno di condividere anche l’angoscia che derivava dalla storia di Robin Sullivan. Ora che si era sbarazzato di parte dell’energia negativa accumulata, si sentiva in grado di ricominciare.
Loro non sanno di essere mostri.
Genko continuava a ripetersi le parole di Mila Vasquez che gli aveva riferito Berish, mentre si aggirava a bordo della Saab per le strade di quello che una volta era un quartiere di operai, con le palazzine in mattoni e i viali alberati. Un posto in cui tutti si conoscono, dove vivere in armonia, crescere i figli e immaginare un futuro tranquillo. Poi la prima recessione della fine degli anni Settanta aveva incrinato i sogni e i buoni propositi. Le successive congiunture economiche e, soprattutto, la crisi dell’industria manifatturiera avevano spazzato via ogni illusione e quel luogo era cambiato, trasformandosi rapidamente in ciò che l’investigatore aveva davanti agli occhi in quel momento.
Un altro ghetto di periferia.
A Genko quei luoghi sembravano familiari. Pur non avendoci mai messo piede, li aveva già visti nei disegni che accompagnavano la perizia psichiatrica di «R.S.».
È cominciato tutto qui, si disse. Ed era anche probabile che tutto vi trovasse fine.
Verso mezzogiorno, sotto la cappa di afa che soffocava la città, Genko teneva il finestrino aperto e si guardava intorno, ma il panorama era desolante. Esercizi commerciali falliti, rifiuti ovunque, scritte che imbrattavano i muri. I condomini erano diventati dormitori e, nonostante il caldo, troppi uomini bighellonavano in giro. Segno che non c’era lavoro e l’unico modo per andare avanti era dedicarsi a traffici illeciti o attaccarsi a una bottiglia.
Il quartiere era già messo male ai tempi dell’infanzia di Robin Sullivan, figurarsi quando ci viveva Samantha Andretti. Infatti, dopo la scomparsa, suo padre era andato altrove per cercare un’occupazione. Bruno non si era stupito di scoprire che rapita e rapitore provenissero dallo stesso ambiente. Tutti i predatori scelgono luoghi familiari per andare a caccia. In fondo, era una legge di natura.
Da investigatore, Genko conosceva bene l’attitudine delle persone a tornare alle proprie origini. Pericolosi criminali, latitanti ricercati dalle polizie di mezzo mondo, truffatori così scaltri da mettere sotto scacco potenti società, avevano tutti una cosa in comune.
Nessuno era capace di resistere al richiamo di casa.
Molti avevano avuto infanzie terribili, entrando e uscendo dai riformatori. Oppure venivano da esperienze familiari drammatiche e violente. Tuttavia, anche se odiavano i posti in cui erano nati, c’era sempre qualcosa che li riportava indietro. Era come un rito di riconciliazione, come se avessero paura di dimenticare chi erano veramente e da dove venivano.
Una volta Genko stava cercando un tizio che aveva ideato un’articolata frode ai danni di una potente multinazionale, e che, alla fine, gli aveva fruttato un bottino di svariati milioni. Per recuperare il maltolto, la società si era rivolta subito a tre diversi investigatori. Avevano meno di ventiquattro ore per catturare il truffatore prima che facesse perdere per sempre le proprie tracce. Come per ogni professionista dell’inganno, certamente il suo piano prevedeva anche una sicura via di fuga, con cambi d’identità e depistaggi.
Mentre i colleghi si dedicavano a inseguire il fuggitivo, ipotizzando ogni possibile scenario per anticipare le sue mosse, Genko s’informò sul suo passato, quando non era ancora un abile furfante ma solo un piccolo ladro di quartiere. Da una vecchia foto scoprì che era cresciuto con la nonna paterna, morta già da anni. Si recò nel cimitero in cui era sepolta e attese. Dopo parecchie ore, quando stava già per imbrunire, notò un uomo con impermeabile, cappello e occhiali da sole. Si aggirava tutto solo fra le lapidi. Però, prima di andarsene, lo sconosciuto passò accanto alla tomba che stava sorvegliando Genko e fece cadere distrattamente un fiore. Bruno si accorse del gesto e smascherò il truffatore.
Era proprio vero: puoi abbandonare il luogo in cui sei nato, ma il luogo in cui sei nato non ti abbandona mai.
Ecco perché, quando doveva rintracciare qualcuno, per prima cosa Bruno Genko contattava amici e parenti del ricercato e si faceva mostrare album di famiglia e annuari scolastici. In quelle immagini trovava sempre un dettaglio che nessun travestimento o chirurgia plastica potevano cancellare. Ed ecco anche perché era andato fino al Limbo per procurarsi una foto d’infanzia di Robin Sullivan. Gli sbirri davano la caccia a un giardiniere che guidava un furgone Ford azzurro e che aveva una voglia scura sulla faccia. Lui era venuto a cercare un bambino a cui piaceva giocare a pallone.
È ancora qui, si disse.
Se quindici anni prima Robin aveva scelto il proprio quartiere d’origine per procurarsi la sua giovane prigioniera, a maggior ragione adesso era il posto più adatto per trovare rifugio e complicità.
Conosce il territorio, qui sa come nascondersi.
Bruno aveva assicurato a Bauer e Delacroix che non avrebbe dato la caccia al mostro. Ma dopo la visita al Limbo, era cambiato qualcosa. Qualcosa che non aveva messo in conto, che teneva lontano lo spettro della fine e lo faceva sentire ancora vivo. Un antico istinto predatorio.
L’animale più difficile da cacciare è l’uomo. E lui, come Robin Sullivan, era un cacciatore.
Qualcosa gli diceva che l’ultima verità sul conto di Bunny non era lontana da quelle case fatiscenti e da quella puzza d’immondizia. Forse mi ha mandato i suoi saluti tramite la signora Forman per farmi sapere che è vicino, si disse. Forse mi sta osservando anche adesso, e aspetta solo il momento giusto per comparirmi davanti.
Loro non sanno di essere mostri.
Mentre immaginava come sarebbe stato trovarsi faccia a faccia col suo avversario, intravide un campetto di calcio che sembrava proprio quello della fotografia di Robin insieme all’amichetto con i capelli ricci e l’incisivo rotto.
Si trovava nel retro di una chiesa che, stando a quanto scritto su una targa apposta su una cancellata, era dedicata alla Santissima Misericordia.
Accanto alla canonica c’era anche un giardino con due altalene e uno scivolo su cui vegliava un grande tiglio. Genko scorse un giovane prete con le maniche della tonaca arrotolate fino ai gomiti che cercava di aggiustare un tubo esterno con una chiave inglese. Accostò e scese dall’auto per parlargli.
«Così lei è cresciuto qui» disse il sacerdote mentre, chino sul tubo, continuava la riparazione.
«È passato tanto tempo, coi miei siamo andati via che avevo quattordici anni» affermò Genko, per avvalorare la bugia che gli aveva raccontato presentandosi. «Mi trovo in città per una questione di affari e mi è venuta voglia di tornare a dare un’occhiata.»
«Io sono sempre vissuto a nord, mi hanno trasferito qui appena due anni fa.»
«Infatti, ricordo che negli anni Ottanta c’era un altro prete» mentì.
«Padre Edward» precisò l’altro mentre, con fatica, cercava di stringere una valvola. «È venuto a mancare nel 2007.»
«Già, padre Edward» confermò Genko, mostrandosi anche dispiaciuto. «Lei ha avuto modo di conoscerlo?»
«No, purtroppo. Ma il vescovo, quando mi ha assegnato qui, me ne ha molto parlato: padre Edward è stato parroco così a lungo che tutti lo ricordano nel quartiere.» Lasciò cadere la chiave inglese in una cassetta degli attrezzi, si tirò su e iniziò a risistemarsi le maniche arrotolate della tonaca.
«Padre Edward era un’istituzione da queste parti» concordò Genko. «Se è morto nel 2007, immagino che fosse ancora in servizio quando è scomparsa quella ragazza di cui parlano in tv... Samantha Andretti» affermò, gettando un’esca.
Il prete si rabbuiò. «A padre Edward avrebbe fatto sicuramente piacere sapere che è ancora viva. I parrocchiani mi hanno raccontato che lui non ha mai smesso di crederci e, per questo, molti lo prendevano per matto. Pensi che ogni anno, nel giorno della scomparsa, diceva una messa per lei e invitava tutti a pregare perché tornasse a casa.» Poi si mise a raccogliere lattine e cartacce dal prato del giardino. «Ha sperato fino all’ultimo che qualcuno gli rivelasse qualcosa nel segreto del confessionale... Magari anche un familiare del rapitore che nutriva solo un sospetto, oppure un complice.»
«Ho sentito dire che in Vaticano c’è un archivio segreto in cui vengono raccolti i peccati che i malvagi rivelano in confessione» disse Genko, per non mostrarsi troppo interessato all’argomento.
L’altro scosse il capo, divertito. «Ogni volta che sento una nuova storia sui misteri vaticani, penso sempre che la gente dimentica troppo facilmente la missione di carità che Cristo ha assegnato alla sua Chiesa.»
«Ha ragione» si scusò Genko, simulando anche imbarazzo.
Il giovane prete finì di ripulire il giardinetto e andò a depositare i rifiuti raccolti in un bidone di plastica nero. Poi si terse la fronte sudata col dorso della mano e si voltò verso Bruno. «Posso fare qualcos’altro per lei, signor Genko?»
«Be’, sa... Mi piacerebbe rivedere gli amici di un tempo, sempre se sono ancora qua.»
«Non so se posso esserle d’aiuto: come le ho detto, sono arrivato da poco.»
«Aspetti» disse Bruno mentre si frugava in tasca. «Ho portato una vecchia foto, ci sono due compagni della mia squadra di calcio. Giocavamo sempre nel campetto qua dietro.» Estrasse lo scatto che aveva preso al Limbo e lo mostrò al sacerdote.
Il prete prese la foto e la studiò attentamente. «Quello con la voglia me lo ricorderei se l’avessi già visto» affermò, scettico.
Genko era deluso. Ma pensò che poteva ancora rintracciare l’amico di Robin, quello riccio con l’incisivo rotto. «E dell’altro che mi dice?»
Il sacerdote scosse il capo. «Mi dispiace» e gli rese la fotografia.
Genko se la rimise in tasca. «Va bene, grazie lo stesso» e si voltò per andarsene.
«Magari le va di rivedere l’oratorio» affermò il prete, forse per consolarlo dalla delusione. «C’è una vetrinetta coi trofei della squadra di calcio, e lì ci sono altre foto.»
Attraversarono una sala con un tavolo da ping-pong, aleggiava un odore pungente di chiuso e di scarpe da ginnastica. C’erano i poster di alcuni calciatori, campioni moderni oppure del passato, che condividevano quei muri con le immagini di Gesù.
«Ormai ci vengono solo i più piccoli» disse il prete, sconsolato. «Appena raggiungono gli undici o dodici anni, sono già per strada a combinare guai. E quel che è peggio è che l’età degli adolescenti che hanno problemi con la giustizia si abbassa ogni anno.»
Mentre il prete parlava, Genko puntò la vetrinetta con i trofei.
Era situata in un corridoio di passaggio, di fronte a una porta scorrevole con un cartello che recitava: «Biblioteca padre Edward Johnston».
Bruno si piazzò davanti al mobile e si chinò per osservare meglio le foto di squadra incorniciate in mezzo a coppe e medaglie. Andò alla ricerca delle immagini risalenti agli anni Ottanta. Sperava che il prete riconoscesse in qualche vecchio compagno di Robin le sembianze di un adulto in grado di dargli una dritta.
L’investigatore individuò l’amico riccioluto di Bunny, ritratto in un’epoca in cui aveva ancora entrambi gli incisivi. Ma poi, con grande stupore, fra gli altri giocatori in posa non riconobbe il futuro rapitore di Samantha Andretti.
«Quest’anno siamo arrivati ultimi in campionato» si lamentò il prete alle sue spalle. «L’anno prossimo non so nemmeno se saremo in grado di schierare una squadra.»
«Capisco» commentò Genko distratto, rendendosi conto di aver fallito ancora.
«Padre Edward, invece, era straordinario nel coinvolgere i ragazzi» proseguì l’altro. «Il suo punto di forza era la biblioteca.»
A Bruno l’ultima frase suonò subito strana. Come poteva essere che padre Edward riuscisse a convincere dei ragazzini a leggere? In quel momento, sentì che il prete alle sue spalle stava già aprendo la porta scorrevole della sala intitolata all’illustre predecessore. Incuriosito, Genko si voltò a guardare. Ciò che vide nella stanza lo paralizzò.
Nella biblioteca di padre Edward c’erano solo fumetti.
Interi scaffali che ricoprivano le pareti fino al soffitto. Ammutolito, Bruno iniziò a passarli in rassegna. Ce n’erano per tutte le età. Si andava dai personaggi adatti ai più piccini fino ai supereroi.
«Immagino che anche lei da piccolo abbia trascorso molto tempo qua dentro» commentò il prete.
Bruno si limitò ad annuire, perché intanto la sua mente tentava di far combaciare i vari indizi in cerca di una soluzione.
Un prete che gode della fiducia incondizionata dei bambini. Una biblioteca di fumetti. Bunny il coniglio. Un albo con immagini pornografiche. E, infine, i tre giorni in cui Robin Sullivan era sparito da casa.
Nessuno aveva mai scoperto dove fosse stato, né lui aveva mai raccontato cosa gli fosse accaduto in quel breve lasso di tempo. Il buio l’ha infettato. Ma chi crederebbe mai a un bambino che accusa un prete? Per questo Robin aveva taciuto.
Padre Edward, si ripeté provando a immaginare quali nefandezze potesse aver commesso ai danni di innocenti ragazzini grazie alla copertura della tonaca. Un insospettabile, un benefattore. Un santo. In fondo, anche lui era un mostro con una maschera.
Bruno cominciò a odiarlo per ciò che aveva fatto a un bambino di soli dieci anni, molto tempo prima. Ora ne aveva la conferma: Robin non era nato mostro, lo era diventato. Per cui, anche ciò che aveva subito Samantha Andretti era colpa di padre Edward.
«Che lei sappia, c’è qualcun altro a cui potrei chiedere informazioni sui miei due amici nella fotografia?» domandò Genko. Il suo tono era cambiato, non era più gentile ma deciso. L’investigatore era determinato a trovare almeno il compagno di Robin.
«Mi faccia pensare» disse il giovane sacerdote. «L’unico che può saperne qualcosa è Bunny.»
Quel nome lo raggelò. Si voltò lentamente a guardare il prete. «Chi?»
«Il vecchio custode» specificò l’altro. «Si occupava lui della manutenzione. In verità si chiama William, il soprannome devono averglielo dato i ragazzi tanto tempo fa. Sta qui da una vita. Non se lo ricorda?»
«Certo, è vero. L’avevo dimenticato» disse Genko con calma, mentre cercava di assimilare la cosa. «Bunny.»
«Da quando l’hanno ricoverato sono costretto ad aggiustare tutto da solo.» Il prete sorrise. «Per questo poco fa mi ha visto lavorare in giardino.»
«Ricoverato?» domandò Genko per essere sicuro di aver capito.
«Ha un brutto male» rispose l’altro, di nuovo serio. Forse aveva letto un turbamento nell’espressione del visitatore.
Genko lo fissò. «E dove sta di solito Bunny?»
Il sacerdote indicò in basso. «Qui sotto, in una stanza accanto al locale caldaie.»