25
La palazzina numero quattro era grigia e anonima. Situata nell’ala ovest, era la più decentrata del dipartimento di polizia.
Al piano interrato c’era il Limbo.
Era così che solitamente gli sbirri si riferivano all’ufficio persone scomparse. Bruno Genko se n’era sempre chiesto il motivo, ma lo comprese non appena varcò la soglia. L’impatto con la prima stanza fu emotivamente raggelante.
Migliaia di piccoli occhi lo puntarono simultaneamente. Le alte pareti, prive di finestre, erano interamente ricoperte da fotografie di volti.
Bruno notò subito che non erano immagini asettiche, come le foto segnaletiche dei criminali. C’erano persone allegre, ritratte il più delle volte in una circostanza festosa – un compleanno, una gita oppure a Natale. Chissà perché erano state scelte proprio quelle, si domandò. Sarebbe stato più logico mettere la foto di un documento, per esempio. O comunque uno scatto in cui il viso non fosse deformato da un sorriso.
Ogni immagine era corredata da una didascalia. Nome, luogo dell’ultimo avvistamento, data di scomparsa. C’erano donne, uomini, vecchi. Ma erano soprattutto i bambini a risaltare. Non esisteva distinzione di sesso, religione o colore della pelle: nel Limbo vigeva un’assoluta democrazia del silenzio.
L’investigatore privato mosse qualche passo all’interno della sala e gli occhi che lo osservavano dai muri lo seguirono. Bruno sentiva che, nonostante la gioia stampata sui loro volti, lo invidiavano. Anche lui, di lì a poco, sarebbe passato nel mondo delle ombre. Ma, a differenza di tutti loro, avrebbe saputo di essere morto.
Gli abitanti del Limbo, invece, non sanno cosa sono. Vivono e muoiono ogni istante nell’immaginario di chi ancora li sta aspettando. E per questo non trovano mai pace.
Mentre formulava quel pensiero, nell’eco della grande stanza cominciò a montare un suono in avvicinamento. Indietreggiò timoroso. Poco dopo, dalla porta in fondo vide apparire un essere galoppante che si muoveva velocemente verso di lui. Genko stava per essere assalito. Poi si sentì una voce.
«Hitchcock, a cuccia.»
Al comando, il grosso cane peloso si bloccò e si sedette subito davanti a Genko. Trascorse qualche secondo e, dalla stessa porta da cui era uscito l’animale, sbucò un’alta figura in controluce.
«Posso aiutarla?» domandò una voce maschile.
Genko riconobbe l’agente speciale con cui aveva parlato al telefono quando aveva chiamato il Limbo per chiedere del fascicolo di Robin Sullivan. «Agente Berish?» chiese.
L’altro avanzò. Teneva in mano una bottiglietta d’acqua, perché là dentro c’era un caldo asfissiante. Ancora una volta, era di un’insolita eleganza: indossava un completo blu e una cravatta in tinta.
Non sembrava affatto uno sbirro, considerò Bruno. «Mi chiamo Genko, sono un investigatore privato.»
«Sì, sono Simon Berish» si presentò. Poi lo squadrò meglio. «Si sente bene?»
Per niente, avrebbe voluto dire. «Ho avuto giorni migliori.»
Berish sembrò accontentarsi della risposta. «Venga, si accomodi.» Insieme al cane, lo scortò negli uffici.
«Non avete molto personale» commentò Bruno, passando davanti a due scrivanie vuote. Non c’era da stupirsi: il Limbo non era un posto ambito, vista la percentuale di casi destinati a rimanere irrisolti.
«Io non lavoro qui» specificò Berish. «Ultimamente vengo per dare una mano e sbrigare la corrispondenza» spiegò, indirizzandolo subito verso una terza stanza.
Genko, però, si rese conto che il poliziotto cercava di distrarlo da qualcosa. Prima di entrare, si fermò davanti a una lavagna su cui erano riportate le risultanze di un caso recente.
Una spirale di cartine stradali, appunti vari e immagini di luoghi che non aveva mai visto. Il fulcro era il rudere di un mulino abbandonato dopo un incendio. Sull’immagine era annotato con un pennarello rosso: «Luogo dell’ultimo avvistamento».
Mentre osservava quella strana composizione, si accorse che Berish era fermo alle sue spalle. «Chi è la persona scomparsa?»
«Non è ancora sicuro che si tratti di un caso di scomparsa» rispose il poliziotto. «La responsabile del Limbo sta seguendo una pista sotto copertura.»
Bruno si voltò a guardarlo, stupito. «María Elena Vasquez» rammentò.
«Mila» lo corresse l’altro.
Il caso del Suggeritore, le bambine rapite e mutilate – ecco dove aveva già sentito quel nome. Era accaduto qualche anno prima e Mila Vasquez era coinvolta nell’indagine. Per Genko fu improvvisamente tutto chiaro: le liti di Berish con Bauer e Delacroix a cui aveva assistito, la rissa sfiorata al posto di polizia, le parole dell’agente speciale che contenevano anche un atto di accusa nei confronti dei colleghi. «Quando comincerete a cercarla?» aveva domandato loro, senza ottenere risposta. A quanto pareva, Berish si stava occupando da solo della questione.
«Mi ha detto di essere un investigatore privato» tagliò corto il poliziotto, passando nell’altra stanza.
Genko lo seguì e andò a sedersi di fronte alla scrivania, mentre l’altro aveva già preso posto. Il cagnone andò ad accucciarsi accanto a lui.
«Non voglio farle perdere tempo, agente Berish» affermò subito Bruno, anche perché non credeva di averne molto a disposizione. «Di solito sono abituato a inscenare una recita quando devo avere a che fare coi poliziotti.» Il trucco era fargli credere che non avevi bisogno di loro, e che anzi erano loro ad aver bisogno di te. «Ma non ho niente da offrirle per la richiesta che sto per formularle.»
«Apprezzo la sincerità.»
«E io la cordialità con cui mi ha accolto.»
«Qui non facciamo gli schizzinosi» gli assicurò Berish, sorridendo. «La filosofia dell’agente Vasquez è di collaborare sempre con chiunque. A differenza di altre divisioni del dipartimento, i casi rischiano di languire nel Limbo per anni senza che si registri il minimo progresso. Mancano i mezzi, le risorse e la volontà politica di occuparsi di scomparsi. Perché il più delle volte è una lotta persa in partenza. E a nessuno piace perdere.»
Genko ne sapeva qualcosa. Quindici anni prima aveva accettato il caso di Samantha Andretti, anche se la credeva già morta. «Mi sto occupando di una scomparsa risalente alla metà degli anni Ottanta: un ragazzino di dieci anni, di nome Robin Sullivan.»
Berish stava staccando un foglio da un taccuino sul tavolo per prendere nota, ma si bloccò. «’R.S.’» rammentò. «Allora era lei al telefono l’altra notte...» Il poliziotto, però, non sembrava così sorpreso.
«Mi spiace essermi fatto passare per l’agente Bauer» ammise Genko. «Lei invece l’aveva capito subito, vero? Però mi ha aiutato lo stesso...»
Berish lo fissò per un lungo istante, poi si mise a ridere. «Bauer è uno stronzo» affermò. «E poi, so cosa significa avere a che fare con l’ottusità di certi colleghi.»
Probabilmente lo stava sperimentando con il caso di Mila Vasquez, pensò Genko. Al campo base nella palude si era lamentato con Delacroix: «Ormai nessuno risponde più alle mie telefonate» aveva detto. Forse per questo Berish era stato tanto disponibile con lui. «Allora, mi aiuterà di nuovo?»
Il poliziotto annuì. «Mi pare che la scorsa volta al telefono abbiamo appurato che il mistero della scomparsa si è risolto dopo tre giorni, quando il ragazzino è tornato a casa spontaneamente. Cos’altro c’è da sapere?»
«Dopo la riapparizione, Robin non era più lo stesso» iniziò a raccontare Bruno. «I genitori si sono visti restituire un bambino problematico, con strane turbe e pulsioni, talmente cambiato da non riconoscerlo più. Alla fine, hanno deciso di allontanarlo e di affidarlo alle cure di una casa famiglia.» I figli del buio, rammentò a se stesso. Secondo le parole di Tamitria Wilson, il padre e la madre di Robin erano due poco di buono. «Nessuno ha compreso che il mostro era penetrato segretamente dentro di lui.» Il buio l’ha infettato, aveva detto la vecchia alla fattoria. «Negli anni dell’infanzia, Robin Sullivan ha nutrito l’ombra che si portava dentro: l’abbandono, l’indifferenza e la violenza sono stati una pericolosa incubatrice per ciò che sarebbe diventato in seguito.»
«E cosa è diventato?» domandò Berish.
«Il rapitore di Samantha Andretti» rispose Genko, suscitando la meraviglia dell’interlocutore. Improvvisamente, forse per la prima volta nella vita, sentì di potersi fidare di qualcuno. Che si trattasse addirittura di un poliziotto era sorprendente. Così gli raccontò nei dettagli da dove era partita la sua indagine privata e ciò che era accaduto fino ad allora.
Bunny, l’uomo-coniglio. Il misterioso fumetto apocrifo i cui disegni, riflessi in uno specchio, si tramutavano in scene pornografiche. Il «sadico consolatore» capace di trasformare un comune dentista nello spietato assassino di Linda. Peter Forman che aveva riconosciuto nel proprio giardiniere l’uomo che aveva preso in ostaggio la sua famiglia. Infine, la signora Forman che gli aveva riferito il messaggio del mostro.
«Bauer e Delacroix erano convinti che Robin Sullivan fosse deceduto in un incidente stradale, più di vent’anni fa. Invece è probabile che sia riuscito a inscenare la propria morte. Adesso la polizia gli sta dando la caccia: hanno l’identikit di un volto con una grossa voglia scura che ricopre la guancia destra fino al sopracciglio.»
«E lei conduce un’indagine parallela all’insaputa di tutti» concluse Berish, con lungimiranza.
«Diciamo che io e i suoi colleghi abbiamo un approccio differente alla faccenda» provò a giustificarsi. «Lascio volentieri a loro la caccia all’uomo, ma io ho bisogno di capire.» Più che una motivazione, sembrava una disperata richiesta d’aiuto.
«Perché? Cosa c’è da capire?»
«Un paio d’ore fa stavo per mollare l’indagine e non so ancora fino a che punto arriverò.» Il disegno della piccola Meg Forman – il mare, il sole, la barca. È lì che sto andando. «Ma se all’inizio mi ero messo in testa di catturare il rapitore di Samantha Andretti, adesso so soltanto che vorrei andare da lei in ospedale e provare almeno a spiegarle chi è veramente l’uomo che le ha rubato quindici anni di vita.» Fece una pausa. «Che sia pure la polizia a catturare Sullivan, non mi importa: il futuro non mi riguarda più. Ormai faccio parte del passato, agente Berish. E voglio scoprire cosa è accaduto a Robin nei tre giorni in cui è sparito all’età di dieci anni.»
Berish lo guardò, forse intuì che non gli rimaneva molto tempo. «Qual è la sua richiesta, signor Genko?»
Bruno ripensò alla sala con le pareti tappezzate di fotografie. «Vorrei vedere il volto di quel bambino.»
Scesero in un angusto sotterraneo pieno di casellari, scarsamente illuminato.
Mentre il cagnolone di nome Hitchcock si mise subito a perlustrare il posto, il suo padrone si piazzò davanti a un vecchio pc che occupava una piccola scrivania. Dopo una breve ricerca sul terminale, Berish si inoltrò in un cunicolo di scaffali e sparì alla vista di Genko.
«Non sarà facile, glielo anticipo» si sentì dire poco dopo dalle profondità dell’archivio. «C’è una gran confusione, specie fra i casi risalenti agli anni Ottanta.»
Passavano i minuti e a Genko tornò in mente Mila Vasquez. Dopo aver risolto brillantemente il caso del Suggeritore, avrebbe potuto scegliere qualsiasi destinazione all’interno del dipartimento, invece era andata a seppellirsi al Limbo. «È da molto che non sente la sua collega?» chiese nell’attesa.
La voce del poliziotto arrivò ovattata, come se stesse parlando in un barattolo. «A volte Mila sparisce per settimane per seguire un caso» lo rassicurò. «È già capitato in passato.» Ma non sembrava del tutto sincero, e Bruno capì che era in pena per lei.
«Di cosa si stava occupando esattamente quando ha perso i contatti?»
Berish non rispose. Poco dopo, però, lo vide tornare indietro con un fascicolo aperto fra le mani.
«Ha detto che Robin Sullivan ha una voglia sul viso, giusto?» Il poliziotto staccò una foto dalla prima pagina e la porse a Genko.
C’erano due ragazzini sui dieci anni che posavano l’uno accanto all’altro. Indossavano la divisa di una squadra di calcio. Uno aveva un pallone sotto al braccio, ma fu il secondo ad attirare l’attenzione dell’investigatore.
Una macchia scura gli copriva quasi metà del volto. Era malinconico.
Tamitria Wilson aveva descritto Robin Sullivan come un bambino fragile, estremamente bisognoso d’affetto, compassionevole. Bruno ripensò alla scelta dell’ultimo vocabolo. Perché poi la vecchia aveva concluso dicendo che Robin era la preda perfetta per qualsiasi malintenzionato.
Il buio l’ha infettato.
La «compassione» di cui parlava la Wilson era stata il varco, la lesione da cui era passato qualcosa di malvagio che poi gli aveva contaminato il cuore. «È strano» commentò l’investigatore privato.
«Cosa?» chiese Berish.
«Vedere il mostro con le sembianze di un bambino...»
«Non lo chiami così, sarebbe un grave errore» lo ammonì l’altro. «La mia amica Mila lo ripete sempre... Loro non sanno di essere mostri, pensano di essere persone normali. Se cerca un mostro, non lo troverà mai. Se invece pensa a lui come a un uomo comune, come me o come lei, allora ha qualche speranza.»
Loro non sanno di essere mostri, Bruno memorizzò il consiglio. Poi spostò lo sguardo sul secondo bambino della foto, un tipino coi capelli ricci a cui mancava un incisivo – l’amichetto sorridente, con un braccio intorno al pallone e l’altro che cingeva le spalle di Robin. «Perché ci sono due bambini?»
«Avrà notato la grande stanza all’ingresso: la chiamano ’la sala dei passi perduti’. È la raccolta dell’ultima immagine degli scomparsi prima di essere ingoiati dal nulla.»
Ecco il perché dei volti sorridenti, si disse. «La gente si scatta le foto nei momenti felici, non certo immaginando che finiranno su quelle pareti.»
Berish annuì. «Perciò capita di frequente che nello scatto sia presente anche un parente o un amico, oppure un estraneo.»
Genko osservò ancora l’immagine coi due amichetti che aveva fra le mani. Uno triste, l’altro allegro. Due bambini, due destini. «Suppongo che nel fascicolo non ci sia altro.»
Berish sfogliò le poche pagine. «Un’altra cosa c’è: pare che Robin Sullivan sia cresciuto nello stesso quartiere di Samantha Andretti.»