21

La porta d’ingresso era solo accostata.

Genko la osservò per qualche secondo, fermo sul pianerottolo. Poteva essere una trappola, ne era consapevole. Bunny poteva aver escogitato un modo per attirarlo lì e ucciderlo.

Se è così che deve finire, allora mi sta bene.

Spinse cauto il battente con la mano sinistra, mentre con l’altra puntava la pistola davanti a sé. L’interno della casa era buio, l’unico bagliore proveniva dalle insegne dei negozi sulla strada. Bruno aveva una piccola torcia, ma al momento la teneva nella tasca della giacca.

Superò la soglia e controllò subito gli angoli ciechi del primo ambiente, per prevenire un agguato del suo avversario. Poi, a piccoli passi, si mosse verso il soggiorno.

Non c’erano suoni, né rumori in casa. Anche l’impianto di condizionamento era spento e c’era uno sgradevole calore. Tutto sembrava in ordine. Il divano bianco come la moquette, i mobili laccati di nero, gli unicorni. Nonostante non ci fossero segni evidenti, Genko sapeva che era accaduto qualcosa di terribile. Sentiva l’energia negativa nell’aria – come un crepitio elettrostatico sui vestiti.

Proseguì verso la camera da letto. La prima cosa che avvertì non appena mise piede nella stanza fu l’odore – acre, crudo, inconfondibile. Il sangue aveva impregnato la moquette, gocciolando dal letto.

Linda giaceva esanime nell’oscurità.

Bruno andò verso di lei, però sempre con cautela, nel caso ci fossero sorprese. Era supina, nuda. Il ventre squartato dalle coltellate. Gli occhi spalancati sul nulla ma ancora pieni di paura. Raccolse la sua mano e provò a sentirle il polso. Nulla. Allora si chinò, poggiandole un orecchio sul torace.

Finché c’è ancora aria nei polmoni, si disse. Ma ormai la sua amica non respirava più.

Stava per piangere. Come era potuto accadere? Le braccia del cadavere erano coperte di graffi e così anche le gambe. Segno che non si era arresa subito, che aveva lottato. Bruno fu fiero di lei. Riconobbe sul comodino il portafoglio e il cellulare che gli erano stati sottratti alla fattoria dei Wilson. Ormai Bunny non ne aveva più bisogno. Si era preso l’unica persona per cui Bruno Genko non era solo un rifiuto umano da ignorare. L’unica che gli volesse bene.

Afferrò il telefono e compose il numero delle emergenze. Prima di inoltrare la chiamata, però, incrociò lo sguardo dell’occhio elettronico con cui l’assassino aveva ripreso la scena di sesso culminata col massacro: la webcam era ancora sul pavimento. Perché l’ha lasciata qui? Genko si chiese se Bunny lo stesse guardando in quel momento. Forse i ruoli si erano ribaltati. Forse adesso lo spettatore era il mostro.

Mentre formulava quel pensiero, fece partire la telefonata. Fu allora che sentì il rumore.

Un suono netto, più simile a un colpo. Non era frutto dell’immaginazione, l’aveva percepito distintamente. Proveniva da un’altra parte della casa. E le uniche stanze che non aveva controllato erano la cucina e il bagno.

Tese le braccia davanti a sé, in modo che la pistola gli aprisse la strada. Poi si ritrovò di nuovo nel corridoio. Si fermò vicino alla soglia della cucina, aspettò qualche secondo nel caso in cui il rumore si fosse ripetuto. Quindi entrò con uno scatto. Non c’era nessuno. Allora proseguì verso il bagno. Conosceva la casa di Linda, c’era stato diverse volte. Provò a ricordare com’era disposto l’ambiente. Non era molto ampio e c’era la vasca. Adesso la porta era socchiusa. Si avvicinò all’uscio e, ancora una volta, provò a cogliere qualcosa con l’udito.

Si percepiva la presenza di qualcuno.

Genko allungò la mano verso la maniglia, ma appena posò il palmo sentì al tatto qualcosa di viscido. Era sporca di sangue. Il suo cuore malato gli mandava segnali inequivocabili – non credeva di reggere la tensione. Doveva decidersi, andare a vedere cosa si nascondeva oltre la porta. Ma aveva bisogno di un diversivo.

La torcia, pensò.

La recuperò dalla tasca e la impugnò insieme alla pistola. Quindi contò fino a tre, diede un calcio allo stipite e puntò subito l’arma verso l’interno, accendendo contemporaneamente il fascio luminoso per abbagliare il bersaglio.

Impiegò qualche istante a razionalizzare la scena che gli si presentò davanti.

Bunny il coniglio era lì, accasciato sul pavimento, nudo. Con le spalle al muro e un braccio appoggiato al water. Il coltello con cui aveva ucciso Linda era conficcato nel suo addome. Perdeva molto sangue. Dalla maschera proveniva solo un respiro affannoso, simile a un rantolo. Linda non si era semplicemente difesa, pensò Bruno. Aveva ferito gravemente l’assassino.

Ma per Genko ancora non bastava. L’idea che quel bastardo potesse cavarsela gli ripugnava. Era pieno di rabbia e considerò che, se avesse portato a termine quanto iniziato da Linda, non ne avrebbe mai pagato il prezzo. Cosa possono farmi, condannarmi? Non avrebbero nemmeno avuto il tempo di processarlo: una giustizia più alta e inesorabile stava già agendo su di lui. Così avanzò verso il mostro e prese la mira. «Togliti quella cazzo di maschera» intimò. «Voglio guardarti in faccia.»

Il grande coniglio in principio non si mosse. Poi, con fatica, sollevò un braccio, afferrò con le dita una delle lunghe orecchie e iniziò a tirare. Mentre veniva rimossa la grottesca sembianza animale, appariva anche il volto di un essere umano. Meno di cinquant’anni, così come Bruno aveva pronosticato. Pelle rasata, un naso ordinario, zigomi alti. Occhi marroni, profondi e malinconici che per un momento gli spezzarono il cuore. Una calvizie incipiente. Robin Sullivan, una persona normale.

Ma Bruno non si lasciò ingannare. Noi due non siamo uguali. Non lo saremo mai. Avrebbe voluto ucciderlo a mani nude, strappargli gli arti, torturarlo con il suo stesso coltello. Invece caricò il colpo in canna, avvicinandosi ancora di un passo, pronto a fare fuoco.

Sullivan chiuse gli occhi, il viso si contrasse in una smorfia di paura. Tremava. «Ti prego... Lasciale andare.»

La frase distrasse Bruno dal suo proposito. Cosa stava blaterando? Provò ancora più collera, perché non gliene fregava niente delle sue ultime parole.

«Ti supplico...» continuò l’altro, mettendosi a piangere.

«Che cazzo stai dicendo? Non ti capisco.» Era furioso. «È finita, Robin. È finita» ribadì.

«Ho fatto come hai detto... Ora lasciale andare.»

Genko si bloccò. Gli sembrava un bluff, ma quell’uomo stava perdendo sangue. Se era un inganno, non aveva senso. Un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente, un’idea che non gli piaceva affatto. «Qualcuno ti ha mandato qui?»

L’uomo ebbe un sussulto. Probabilmente anche lui pensava di trovarsi davanti qualcun altro.

Genko gli tolse la torcia dalla faccia per farsi guardare. «Chi è stato?» si ritrovò a domandare, anche se conosceva la risposta.

«Si è introdotto in casa nostra. Ha chiuso mia moglie e le bambine in cantina. Mi ha detto di fare quello che mi ordinava, altrimenti le avrebbe uccise...» Scoppiò in lacrime. I singulti gli squassavano il petto, il sangue colava dalla ferita nella pancia.

Chi era l’uomo che giaceva ai suoi piedi? «Dove abiti?» gli chiese.

«Lacerville, 10/22.»

Era un bel quartiere residenziale, composto da villette. Ci vivevano le famiglie borghesi. Poteva essere un bluff, qualcosa gli diceva di non fidarsi. Ma poi, senza abbassare l’arma, Genko prese il cellulare per avvertire la polizia. Chiese un’ambulanza e poi aggiunse: «Dovete mandare subito qualcuno a Lacerville: al 10/22, una donna e le sue bambine potrebbero essere in grave pericolo». Attese che dall’altro capo prendessero nota, poi aggiunse: «Voglio anche che mi metta in contatto con gli agenti Delacroix e Bauer, gli dica che Bruno Genko ha urgenza di parlargli».

«Aveva una maschera, ma io lo conosco...» mormorò il ferito.

Genko si dimenticò della telefonata. «Cosa hai detto?» chiese, voleva essere sicuro di aver capito bene.

L’uomo lo fissò. «Io so chi è.»

L'uomo del labirinto
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