42

Io non sono Samantha Andretti.

La consapevolezza la schiacciò. Doveva andare via di lì. Sapeva che era impossibile, ma il suo stupido cervello si rifiutava di accettare l’idea che si era trattato solo di un’illusione.

Il gioco sadico di un mostro.

Continuava a spingersi lungo il corridoio, tirandosi appresso la gamba ingessata come un peso morto. Probabilmente anche la frattura è un inganno, si disse. Un modo per trattenermi a letto, impedendomi di andare in giro a scoprire la verità. E dietro lo specchio di cui aveva tanta paura non si celava alcuno sguardo minaccioso, ma soltanto un altro maledetto muro.

Dopo aver percorso una ventina di metri, si bloccò. La sua attenzione era stata attratta da un debole suono. Proveniva dalla terza stanza sulla destra.

Sembrava una trasmissione radio.

Procedette in quella direzione e si fermò poco prima della soglia. Tese le orecchie: era proprio una conversazione.

Decise di sbirciare all’interno.

Il dottor Green era in piedi, di spalle. Davanti a lui, l’apparecchio con cui aveva registrato le loro conversazioni. Portava delle cuffie. Il volume era abbastanza alto perché i suoni trasbordassero.

«Non lo so se sono capace.»

Riconobbe la propria voce. Poi sentì anche quella del dottore.

«Ascolta, Sam: tu vuoi che quell’uomo paghi per ciò che ti ha fatto, vero? E, soprattutto, non vorresti mai che facesse la stessa cosa a qualcun altro...» Erano le parole che le aveva detto quando si era risvegliata senza ricordare nulla, dopo averle mostrato il volantino con la foto di Samantha Andretti tredicenne. «Come avrai capito, non sono un poliziotto. Non ho una pistola e non vado in giro a inseguire i criminali e a farmi sparare addosso. Anzi, a dire il vero, non sono nemmeno tanto coraggioso.» Lo sentì ridere alla sua stessa battuta. «Ma una cosa posso assicurartela: lo prenderemo insieme, io e te. Lui non lo sa, ma c’è un posto da cui non può scappare. Ed è lì che avverrà la caccia: non là fuori, ma nella tua mente.»

L’ultima frase del dottor Green la fece rabbrividire come la prima volta.

«Che ne dici: ti fidi di me?»

Rammentò di aver teso la mano per farsi restituire il volantino con la foto. Senza saperlo, così aveva dato inizio al gioco.

«Bene, brava la mia ragazza.»

Io non sono la tua ragazza. E non sono nemmeno brava.

Tu non sei un dottore. E non vuoi aiutarmi.

Tu sei lui.

Ora che sapeva com’era fatto, il mostro le appariva ancora più mostruoso. Perché il pensiero che un uomo tanto normale celasse in sé una simile malvagità era peggio di qualunque incubo. I mostri, come quelli delle fiabe, erano talmente orripilanti da generare nelle vittime l’utopia di poterli sconfiggere. Invece, con un essere tanto banale non poteva esserci speranza di salvezza.

Magari il sandwich con l’insalata di pollo che le aveva offerto l’aveva preparato veramente la moglie. E, quando usciva da lì, andava a coricarsi con lei in un letto caldo, sotto il tetto di una casa come tante. Forse aveva figli o nipoti, sicuramente amici o compagni di scuola che pensavano di conoscerlo veramente e invece non sapevano niente di lui.

Solo io so chi è.

Fu allora che notò di nuovo il moschettone con le chiavi appeso alla cintura dell’uomo.

Poi piegò lo sguardo sul proprio ventre e con le dita andò alla ricerca della cicatrice che lo solcava. Se sono sopravvissuta fino ad ora, vuol dire che sono più forte di quanto possa ricordare adesso. E allora decise che era giunto anche il momento di porsi la domanda che aveva evitato fino ad allora.

Chi sono io?

L'uomo del labirinto
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