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Quel tardo pomeriggio di metà giugno l’estate si annusava già nell’aria.
Lui e Paul tornavano a casa dalla partita di calcio nel campetto della parrocchia, sudati e felici come si può essere solo a dieci anni. Il sole era una sfera rossa in fondo alla strada e, dalle finestre aperte delle case, arrivavano voci che si mescolavano alle risate delle tv accese, mentre la gente si preparava a cenare.
Paul Macinsky era il suo migliore amico. Almeno così aveva deciso padre Edward. Li aveva presi da parte e aveva detto a entrambi: «Da oggi sarete amici per la pelle». Paul non era molto sveglio, perciò si era limitato ad annuire senza fare domande. Robin invece sapeva perché il prete li aveva messi insieme. C’era una precisa categoria per i ragazzini come lui e Paul, non aveva un nome ma era chiara subito a tutti la differenza fra chi vi apparteneva e gli altri. Raramente qualcuno gli rivolgeva la parola, non ricevevano mai inviti alle feste, erano sempre gli ultimi a essere scelti quando si componevano le squadre di calcio e, soprattutto, nessuno conosceva il loro nome di battesimo e venivano chiamati solo col cognome.
Sullivan e Macinsky.
Non avevano neanche diritto a essere presi di mira dai bulli, come i secchioni o gli effeminati. Semplicemente, non esistevano.
Padre Edward, che sapeva bene quanto possono essere crudeli i bambini nei confronti dei loro pari, li aveva convocati in sacrestia. Decretando la loro amicizia, forse aveva voluto evitare loro l’onta della solitudine che, nell’età della spensieratezza, è il peggior marchio d’infamia.
Nonostante la voglia sul viso, che era anche la causa principale di una tremenda timidezza, Paul non era male. Certo, era dura fargli pronunciare qualche parola. Robin aveva intuito che l’amico viveva con la madre e non aveva mai conosciuto il padre. Per non metterlo in imbarazzo, non aveva mai voluto approfondire la cosa. Ma in giro si diceva che la madre di Paul avesse avuto una storia con un tizio che era già sposato e che per questo era stata abbandonata dalla famiglia, che l’aveva messa alla porta insieme al bastardo che aveva in grembo.
Nonostante Paul portasse il cognome della madre e fosse considerato a tutti gli effetti un figlio della colpa, Robin lo invidiava. A casa sua le cose non andavano bene e non c’era giorno che non ci fosse una lite. I genitori erano entrambi dediti alla bottiglia e se le davano di santa ragione. Una volta la madre aveva accoltellato il marito all’addome mentre dormiva. Lui era riuscito lo stesso a cavarsela, ma appena tornato dall’ospedale le aveva fratturato il cranio col ferro da stiro. Ogni tanto nelle liti domestiche era Robin a rimetterci, ma Paul non gli domandava mai da dove venissero i lividi.
In fondo, quasi tutti i ragazzini del quartiere avevano guai in famiglia. Ma, a differenza di loro due, se la sapevano cavare nel mondo. Era come se il padreterno li avesse dotati di una specie di corazza, dimenticandosi di darne una anche a lui e a Paul.
Forse era solo questo che li accomunava. Ma poteva bastare come fondamento di un’amicizia? Robin pensava di no, e padre Edward era stato troppo ottimista a sperare che potessero aiutarsi a vicenda. Non avevano niente in comune e non facevano altro che passare il tempo a tirare sassi alle lattine vuote o a dare la caccia ai gatti randagi.
Poi, però, un giorno era accaduta una cosa.
Si erano ritrovati nella stessa squadra di calcio, anche se sempre come rincalzi. In campo era successo una specie di miracolo perché, inaspettatamente, avevano formato una coppia formidabile di difensori. Un muro invalicabile per gli attaccanti avversari. Da allora, le cose erano un po’ migliorate. Al di fuori delle partite, gli altri ragazzini continuavano a chiamarli per cognome e a rivolgergli a malapena la parola. Però, per la durata del match, li trattavano con rispetto.
Quel pomeriggio di giugno del 1983, mentre per strada commentavano l’incontro appena disputato, Robin Sullivan e Paul Macinsky erano di nuovo quasi estranei, perché anche la loro amicizia si concretizzava solo su un campo di pallone. Girato l’angolo della parrocchia, si ritrovarono davanti Bunny il custode che portava fuori un secchio di spazzatura.
«Ehi, ragazzi, come vi va?»
Nessuno dei due rispose al saluto, ma rallentarono il passo. All’epoca, Robin riteneva che quel tizio fosse semplicemente strambo. Aveva un sorriso di denti ingialliti dalle troppe sigarette e gli sembrava eccessivamente gentile quando si rivolgeva alle signore che andavano a messa. Anche padre Edward lo trattava con distacco, come se diffidasse di lui. Il più delle volte, il custode se ne stava per i fatti propri. Quando qualcuno lo nominava, a Robin veniva subito in mente l’immagine di Bunny con una scopa in mano sul sagrato della chiesa. Una volta era passato in bici davanti alla Santissima Misericordia e, voltandosi verso la facciata, aveva scorto l’uomo che aveva smesso di ramazzare per fissarlo. In quello sguardo che l’aveva seguito fino in fondo all’isolato c’era qualcosa che gli faceva rizzare i peli sulle braccia.
«Come è andata la partita?» domandò il custode posando il secchio della spazzatura.
«Al solito.» Stranamente, era stato Paul a rispondere. Robin avrebbe capito solo molti anni dopo che il coraggio dell’amico era determinato dal fatto che voleva liquidare in fretta Bunny perché forse ne era intimorito.
«Vi ho osservati spesso: voi due siete inseparabili.» Non replicarono a quella che sembrava solo un’innocua constatazione, ma Bunny non aveva finito. «Lo vedo, come vi trattano gli altri ragazzi. Però voi due mi piacete e, quasi quasi, vi voglio confidare una cosa che non sa nessuno...» Il custode si bloccò per tossire, poi sputò un grumo di catarro sul marciapiede. «Lo sapete tenere un segreto, vero?» Non risposero, ma l’uomo si sentì in dovere di proseguire lo stesso col racconto. «C’è un fumetto che, secondo me, vi piacerebbe un sacco. Ma non è come quelli che compra padre Edward... Il fumetto di cui parlo è speciale.» Lo aveva detto con gli occhi che brillavano.
«Che intendi per speciale?» domandò Robin, incuriosito.
Bunny si guardò intorno e poi tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un albo arrotolato.
«Un coniglio? Ma questa è roba da poppanti» lo schernì Robin, vedendo la copertina.
«E se ti dicessi che invece non è affatto così?» lo sfidò l’uomo. «Perché se lo leggi in uno specchio, succede una cosa che non immagini nemmeno.»
Paul lo tirò per un lembo della maglietta. «Siamo in ritardo per la cena.»
Ma Robin ignorò l’amico. «Non ci credo» obiettò al custode.
«Be’, non dobbiamo far altro che andare da me e potrete verificare coi vostri occhi.»
«Perché dobbiamo andare da te?» chiese Paul, sospettoso.
«In realtà non ce n’è bisogno: se avete uno specchio qui con voi, ve lo mostro adesso.»
Era evidente che l’uomo li stava provocando. Ma Robin sapeva di essere più astuto di lui. «Va’ a prendere lo specchio, noi ti aspettiamo qui.»
Bunny rimase senza parole. Poi, però, sorrise. «Spiacente ragazzi, credevo che vi interessasse. Vorrà dire che lo farò vedere a qualcuno più in gamba di voi...» Dopodiché, si voltò per andarsene.
Paul riprese a camminare, invece Robin rimase a fissare l’uomo che si allontanava.
«Allora, non ti muovi?» chiese l’amico.
E lui allora lo seguì, ma con scarsa convinzione.
Arrivati all’angolo della strada, giunse il momento di separarsi. Paul avrebbe proseguito verso destra, diretto alla casa verde. «Tutto ok?» chiese a Robin, vedendolo pensieroso.
«Sì» rispose lui.
«Siamo sempre amici, vero?» domandò, timoroso.
«Sì, lo siamo» gli assicurò lui.
Si guardarono per qualche istante, in silenzio.
«Allora, ciao» disse Paul, poi si incamminò.
Dopo aver fatto qualche passo, Robin si voltò di nuovo a guardarlo. Una vocina cattiva gli diceva che Paul non ce l’avrebbe mai fatta a cavarsela nel mondo. Conosceva quella voce, apparteneva a suo padre. Finché Fred Sullivan beveva non c’erano problemi. Ma appena l’effetto della sbornia cominciava a scemare, diventava crudele. Quando non lo picchiava, se la prendeva con lui anche se non aveva fatto niente di male. E, soprattutto, si ricordava improvvisamente di essere un genitore e gli riservava le sue «perle» educative. Tipo: «Le donne sanno fare solo una cosa». Oppure: «Non ti far fottere dai negri». Ma la sua preferita era: «Fattela con quelli meglio di te». Per Robin non era difficile stabilire con chi «farsela», visto che praticamente tutti erano meglio di lui. La parte complicata era convincere loro a farsela con lui. Ma se continuava ad andare in giro con «Paul faccia di mostro» non avrebbe avuto alcuna speranza di essere accettato.
Quel giorno di giugno, mentre il pomeriggio si spegneva intorno a lui, non gli andava giù che perfino Bunny il custode si permettesse di prendersi gioco di loro, facendoli passare per codardi. Forse era arrivata l’occasione di dimostrare che lui e Paul erano diversi. Per questo, attese che l’amico si allontanasse sul marciapiede.
Poi tornò indietro.
Arrivato alla chiesa, bussò alla porta che conduceva al seminterrato della parrocchia. Aveva intenzione di dare una lezione al custode, voleva rubargli qualcosa e scappare. Poi avrebbe esibito la refurtiva per vantarsi del gesto temerario con gli altri ragazzi. Come diceva suo padre, per imparare ad affrontare quelli più forti bisognava sempre cominciare a prendersela con uno più debole.
«Vedo che hai cambiato idea» disse Bunny ritrovandoselo sulla soglia.
«Sì» lo sfidò Robin.
«Allora prego, accomodati...» E gli indicò la scala dietro di lui.
Robin lo seguì, ma appena la porta di legno si richiuse alle sue spalle, provò una brutta sensazione.
Scesero nel sotterraneo, nei locali che ospitavano le caldaie. La tana di Bunny era una stanzetta delimitata in parte da una rete metallica. Sembrava un pollaio.
Robin si guardò intorno.
Il posto in cui viveva il custode lo metteva a disagio. Là sotto non arrivava la luce del sole e c’era un odore penetrante di cherosene. La branda, una collezione di cianfrusaglie senza alcun valore sistemate su una mensola, il tavolo da lavoro, un armadietto di ferro. Bunny accese subito una radio a transistor assemblata in una scatola per scarpe, trasmetteva un blues allegro e chiarissimo, in contrasto con l’ambiente.
Il custode si sedette sul letto, aprì il cassetto del comodino e prese un piccolo specchio per mostrargli il segreto serbato dal fumetto. «Vieni a metterti vicino a me» lo invitò, battendo leggermente la mano sulla coperta. La sua voce era cambiata, nel tono c’era una dolcezza sgradevole.
In quel momento, Robin ebbe paura. Avrebbe dovuto dar retta a Paul, perché adesso non voleva più stare lì. «Forse è meglio che vada» provò a dire.
«Perché, non ti piace stare qui?» domandò il custode, fingendosi offeso. «Sono sicuro che diventeremo amici.»
«No, sul serio... Mia madre mi sta aspettando» balbettò. «Avrà già preparato la cena.» Sua madre al massimo aveva rimediato un pollo arrosto vecchio di un paio di giorni dal supermercato, e gliel’avrebbe sbattuto davanti senza nemmeno scaldarglielo. Ma, al momento, Robin avrebbe mangiato qualsiasi schifezza pur di andare via di lì.
«Ti va del latte con i biscotti?» chiese Bunny. Prese un cartone dall’armadietto e cominciò a versarlo in un bicchiere sporco.
Robin non rispose.
Bunny scosse il capo, contrariato. «Perché fate tutti così? All’inizio sembrate spavaldi, poi cercate di tirarvi indietro.»
«Non mi sto tirando indietro, magari torno un’altra volta.» Invece iniziò a indietreggiare.
Allora Bunny lo fissò, serio. «Mi dispiace ragazzo, ma non credo sia possibile.» Gli porse il bicchiere. «Su, adesso bevi il tuo latte.»