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Sta venendo per me.
Il respiro si era fatto affannoso, si sentiva come un topo imprigionato in una scatola. Quanto avrebbe impiegato l’uomo al telefono per giungere alla fattoria? Quanto tempo aveva a disposizione per escogitare qualcosa? Vagava per il deposito senza più badare a dove metteva i piedi. Era intento a cercare un oggetto con cui difendersi, ma al buio era difficile orientarsi.
Fino a poche ore prima, l’idea che gli restasse poco da vivere era una specie di superpotere che lo faceva sentire invulnerabile. Tanto, non poteva andargli peggio, no? Adesso, invece, si stupiva di come l’istinto di sopravvivenza fosse ancora così forte dentro di lui. La dimostrazione era la paura che provava.
Arriverà, e sarà la fine.
Scivolò e rovinò su un mucchio di scatole di latta che precipitarono rumorosamente sul pavimento, anche qualcosa di vetro si infranse in mille pezzi. Si ritrovò disteso per terra, a pancia sotto, con le braccia protese in avanti. Inavvertitamente, la mano destra si era infilata in qualcosa di morbido. Sembrava la tana di un grosso insetto. Sollevando il braccio, tirò a sé alcuni filamenti, simili a una ragnatela. Provò subito a districarsi, ripugnato. Ma, esaminandoli meglio al tatto, si accorse che era solo lana. Sotto di lui c’era una cesta di gomitoli.
Mentre provava a calmarsi, capì che ormai aveva perso il controllo. In compenso, notò un lieve bagliore davanti a sé. Aveva ritrovato la scala che conduceva alla botola del ripostiglio.
La risalì.
In cima ai gradini, la luce del piano di sopra filtrava tra le fessure del portello di legno. Ogni tanto veniva interrotta da un’ombra di passaggio. Erano i cani che facevano la guardia all’unica via d’uscita. Genko appoggiò la spalla destra sulla botola e fece leva nel tentativo di sollevarla. Come previsto, dall’altro lato c’era un fermo – dal suono metallico, capì che si trattava di un chiavistello. La malattia aveva minato il suo fisico: era troppo debole, non ce l’avrebbe fatta a scardinarlo.
Però, dalla posizione in cui si trovava, poteva intuire meglio cosa accadeva in superficie. Riconobbe il suono del bastone di Tamitria Wilson che accompagnava il trascinamento della gamba zoppa. Insieme producevano un ritmo ossessivo, quasi ipnotico – un colpo e un breve strofinamento, un colpo e un breve strofinamento, e così via.
C’era odore di caffè appena fatto e di biscotti. La vecchia strega trafficava in cucina in attesa dell’ospite.
Gli sembrò di riconoscere il rumore di un’auto che sopraggiungeva. Udì la Wilson allontanarsi. Dopo qualche minuto, la sentì tornare indietro. Dal numero dei passi sul pavimento, comprese che non era più sola.
«Ho pensato di chiamarti perché ho capito subito che qualcosa non andava» stava spiegando la donna – il tono di voce non aveva più l’asprezza di poco prima, adesso era gentile. «Come ti ho anticipato al telefono, il chiacchierone mi ha fatto un sacco di domande sui ragazzi che stavano qui, quando in realtà gliene interessava solo uno.»
A quanto pareva, era bastato nominare Robin Sullivan per provocare inquietudine nella vecchia. Genko si rese conto di aver aperto una pericolosa porta sul passato. Da lì era precipitato in un abisso sconosciuto, e adesso l’unica via d’uscita si stava richiudendo in fretta alle sue spalle.
«L’ho perquisito bene: non è armato. Qui ci sono il cellulare e i documenti» affermò Tamitria mentre probabilmente mostrava gli oggetti che gli aveva sottratto.
Bruno si sentì uno stupido. Di solito, quando doveva fare una visita a domicilio, nascondeva sempre da qualche parte telefono e portafoglio – la cassetta della posta di un vicino, oppure li infilava in uno scomparto nel vano motore della Saab. Adesso quei due sapevano troppo di lui.
«È di sotto. Si è ripreso dalla botta perché poco fa ho sentito dei rumori. Adesso è da un po’ che se ne sta tranquillo, magari si è nascosto o sta meditando qualcosa.»
L’ospite di Tamitria ascoltava e continuava a tacere.
«Non ho idea del perché sia venuto a ficcare il naso» proseguì la Wilson.
A quel punto, Genko li sentì camminare e spostarsi nella sua direzione. Il cuore malato era uno stantuffo nel torace, sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro, così come avevano pronosticato i dottori.
Arrivati nei pressi della botola, i due si fermarono. Bruno si avvicinò a una delle fessure, voleva guardare in volto l’uomo che era con Tamitria Wilson. Ma la posizione di lei gli impediva la visuale.
«Che vuoi fare con lui?» chiese la donna.
Bella domanda, si disse Genko. Anche lui avrebbe voluto saperlo.
L’ospite, però, non rispose.
Non era un buon segno, pensò l’investigatore. Poi si udì uno sparo. Trascorsero alcuni secondi di silenzio assoluto. Bruno si stava appunto chiedendo cosa stesse accadendo, quando nella fessura apparve improvvisamente l’occhio della vecchia strega.
Si ritrasse subito, ma era troppo tardi.
Si aspettava che Tamitria Wilson si mettesse a urlare. Invece la donna non disse nulla. Continuò a fissarlo, finché un rivolo sottile di sangue scivolò sull’iride immobile.
Era morta.
Genko arretrò lentamente sulla scala di legno, cercando di non fare troppo rumore. Intanto continuava a sorvegliare la botola, aspettandosi che si aprisse da un momento all’altro. Riuscì a riguadagnare le tenebre del deposito sotterraneo e rimase in attesa dietro un mobile.
Qui sotto saremmo entrambi al buio, lui non vorrà correre rischi. Mi stanerà col fumo, pensò. O, peggio: darà fuoco alla fattoria e lascerà che siano le fiamme a occuparsi di me e del corpo della vecchia. Ma Bruno scartò subito l’idea. Non lo farà, si disse. Deve prima recuperare qualcosa che gli sta troppo a cuore. Si portò una mano al fianco e accarezzò l’albo a fumetti che custodiva nella giacca.
Bunny. Lui non lo lascerebbe mai bruciare.
Pregò di avere ragione, e intanto passarono altri interminabili minuti. Poi, finalmente, accadde qualcosa. Udì il suono del chiavistello che veniva sbloccato. La botola iniziò a sollevarsi. La luce del ripostiglio s’infilò nell’apertura, scivolando come un rivolo per le scale fino al pavimento del deposito, dove si raccolse intorno a una lunga ombra nera.
Eccolo, si disse Genko. Avanti, vieni qui sotto. Vieni da me, coraggio.
L’uomo, però, non si decideva. Bruno riconobbe il rumore del carrello di una pistola automatica. Era un avvertimento: l’ospite voleva fargli sapere che il proiettile successivo sarebbe toccato a lui. Finalmente mosse il primo passo verso il baratro. Poi un secondo, un terzo. Genko si sporse meglio dal proprio nascondiglio e capì che l’altro era arrivato a metà della scala. Prese dal pavimento le estremità dei fili di lana che aveva trovato nella cesta di gomitoli poco prima, e tirò con forza.
Vide tendersi la ragnatela nel momento esatto in cui la preda ci finiva dentro.
Lo sconosciuto sulle scale provò a liberarsi dalla trappola. Ma, preso alla sprovvista, perse l’equilibrio e precipitò in avanti. Genko seguì la parabola del volo come fosse al rallentatore, e lo vide planare al suolo. Produsse un tonfo cupo, accompagnato da un lamento. Ma non di dolore, bensì pieno di rabbia.
Ne approfittò, scattò in avanti e corse verso le scale.
Scavalcò l’uomo per terra, mentre questi si dimenava cercando di districarsi. Protese anche un braccio per afferrarlo – Bruno avvertì sulla caviglia la carezza delle dita che mancavano la presa. Salì i gradini due alla volta, andando incontro alla botola che lo attendeva con le fauci aperte. Prima di tuffarsi in mezzo alla luce, sentì il rumore inconfondibile di uno sparo. Il proiettile gli sfiorò un orecchio. Genko si afferrò al pavimento del ripostiglio e, con un colpo di reni, riuscì a infilarsi nel buco. Si ritrovò davanti lo sguardo pietrificante di Tamitria Wilson. Stava per ricadere all’indietro, ma riuscì a evitare il peggio, atterrando su un fianco. Gli mancò il fiato ma si voltò subito con l’intenzione di chiudere il portello e imprigionare l’uomo nel deposito. Un secondo sparo lo fece desistere: il proiettile andò a impattare contro il legno e Bruno fu investito al volto da una miriade di schegge. Fu preso dal panico. Ma se ne fregò della botola e scappò senza voltarsi indietro, precipitandosi verso l’uscita.
Il breve tragitto gli sembrò interminabile. Quando finalmente arrivò alla porta, si aggrappò alla maniglia. La abbassò e la tirò a sé. Ma la porta non si mosse. Non aveva calcolato la possibilità che potesse essere chiusa a chiave.
Sentì i passi che risalivano pesantemente la scala alle sue spalle.
Non si voltò a guardare. Assurdamente, era convinto che se l’avesse fatto sarebbe morto all’istante. Iniziò a prendere a calci la porta in maniera quasi isterica, rivelando una voglia di salvarsi alquanto singolare in uno che aveva quasi esaurito il proprio bonus con la vita.
I passi dietro di lui si bloccarono.
Sta prendendo la mira, si disse in attesa di sentire un proiettile perforargli le carni. Ma ebbe il tempo di individuare una finestra nel soggiorno. Con la sola forza della disperazione, corse verso di essa, la tirò su e la scavalcò.
Una volta all’esterno, puntò la Saab. Era ancora dove l’aveva parcheggiata, ad appena una ventina di metri dal portico. Quindici, dieci, cinque. Nessuno sparo – come è possibile? Bruno aggirò il veicolo, si accucciò accanto a una ruota e strisciò verso il posto di guida. Aprì la portiera e si tuffò sul sedile. Tenendo sempre la testa bassa per paura che un colpo lo centrasse attraverso il lunotto posteriore, andò in cerca della chiave che aveva provvidenzialmente lasciato nel cilindro dell’avviamento. Pestò il piede sull’acceleratore. Il motore produsse un rantolo prolungato, come se si stesse ingolfando. Ma poi il carburatore assimilò la benzina in eccesso e l’auto partì con un sobbalzo. Solo allora, Genko si rialzò sul sedile. Dal retrovisore gettò un’ultima occhiata alla casa.
Nello specchio, intravide una figura stagliarsi dietro la stessa finestra da cui poco prima era riuscito a evadere.
Bunny il coniglio lo stava salutando.