Il tocco d'Argento

 Una forza singolare pervade chi sta per affrontare la battaglia finale. Una battaglia che non ha a che vedere soltanto con la guerra, e una forza che non appartiene soltanto ai guerrieri. Ho visto questo tipo di forza in anziane malate, squassate da una tosse incessante, e nei membri di una famiglia che moriva di fame. È la forza che spinge ad andare avanti, oltre la speranza e la disperazione, oltre il sangue e le ferite, oltre la morte stessa, in un assalto finale nel quale tentare di salvare qualcosa di caro. È il coraggio senza speranza. Durante le Guerre delle Navi Rosse, ho visto un uomo, con il sangue che gli sgorgava a fiotti dal moncone del braccio sinistro reciso, brandire la spada con il destro e continuare a combattere per proteggere un compagno caduto. Nel corso di uno scontro con i Forgiati, ho visto una madre inciampare nelle proprie viscere, mentre strillava e afferrava un Forgiato, nel tentativo di tenerlo lontano da sua figlia.

 Gli Isolani hanno una parola per definire il coraggio. Finblead, l'ultimo sangue. Credono che una forza speciale risieda nell'ultimo sangue che resta in una persona prima di morire. A quanto si dice, soltanto allora si riesce a trovare e ad attingere a quel tipo di coraggio.

 È un coraggio tremendo che, all'apice della sua potenza e negli abissi dello sconforto, può durare per mesi quando si combatte una malattia mortale. Credo che lo stesso valga per chi si accinge a compiere una missione che porterà alla morte, e che tuttavia è inevitabile. Quel finblead illumina ogni dettaglio della vita di un individuo con sconvolgente chiarezza. Ogni relazione si rivela per come è e per com'è stata in passato. Tutte le illusioni s'infrangono. La falsità diventa nitida come la verità.

 FitzChevalier Lungavista

 MENTRE il sapore dell'erba mi si spandeva nella bocca, il frastuono intorno a me divenne sempre più assordante. Sollevai la testa e cercai di mettere a fuoco, con gli occhi che mi bruciavano. Giacevo tra le braccia di Lante, la gola irritata dalla familiare amarezza dell'efedra. A mano a mano che l'erba spegneva la mia magia, aumentava la mia consapevolezza di ciò che avevo intorno. Il polso sinistro mi faceva male da morire, un dolore lancinante come ferro ghiacciato. Quando ero stato travolto dalla marea d'Arte e avevo guarito e cambiato i bambini di Kelsingra, le mie percezioni si erano ridotte a zero, mentre adesso udivo perfettamente le urla della folla che mi circondava, l'eco che rimbalzava sulle alte pareti dell'elegante sala degli Antichi; fiutai nell'aria il lezzo del sudore originato dalla paura. Ero stretto nella calca, dove alcuni Antichi cercavano di allontanarsi da me, mentre altri spingevano nel tentativo di raggiungermi per farsi guarire. Quanta gente! Quante mani! Quante grida! "Vi prego, vi prego! Ancora uno soltanto!" "Fatemi passare!" La corrente d'Arte, che era fluita potente intorno e attraverso di me, si era indebolita, ma non era del tutto scomparsa. L'efedra di Lante era del tipo blando, cresciuta nei Sei Ducati e piuttosto vecchia a giudicare dal sapore, ma nella città degli Antichi l'Arte scorreva così forte e densa che con ogni probabilità nemmeno l'efedra sarebbe riuscita a spegnerla.

 Tuttavia era stata sufficiente. Infatti ero ancora cosciente dell'Arte, però non ero più vincolato al suo servizio. Eppure, averle permesso di usarmi mi aveva indebolito i muscoli proprio quando ne avevo più bisogno. Il generale Rapskal mi aveva strappato il Matto dalle mani. L'Antico stringeva il polso di Ambra e le teneva in alto la mano inargentata gridando: "Ve l'avevo detto! Lo sapevo che erano ladri! Guardate la sua mano, macchiata d'Argento dei draghi! Ha scoperto il pozzo! Ha rubato ciò che appartiene ai nostri draghi!"

 Fiamma strattonava l'altro braccio di Ambra per sottrarla alle grinfie del generale. Aveva i denti snudati e i riccioli neri le svolazzavano selvaggi intorno al viso. L'espressione di assoluto terrore sul volto sfregiato di Ambra mi suscitò un'ondata di panico paralizzante. Gli anni di stenti che il Matto aveva vissuto erano impressi a fuoco in quella smorfia rigida che gli trasformava i lineamenti in una maschera mortuaria di ossa e labbra rosse e guance imbellettate. Volevo correre in suo aiuto, ma le ginocchia continuavano a cedermi.

 Perseverante mi afferrò per il gomito. "Principe FitzChevalier, che cosa devo fare?"

 Non trovai nemmeno il fiato per rispondergli.

 "Fitz! Alzati!" mi sibilò Lante all'orecchio. Era tanto un'implorazione quanto un ordine. Non so come recuperai l'equilibrio e calibrai il peso sulle gambe, sforzandomi di tenerle dritte.

 Eravamo arrivati a Kelsingra appena il giorno prima e, per qualche ora, ero stato l'eroe del momento, il magico principe dei Sei Ducati che aveva guarito Ephron, il figlio del re e della regina di Kelsingra. L'Arte si era riversata inarrestabile da me, inebriante come brandy di Lungosabbia. Su richiesta di re Reyn e della regina Malta, avevo usato la magia per riparare alle mutazioni operate dai draghi a una dozzina di bambini. Mi ero aperto alla corrente d'Arte che fluiva nella vecchia città degli Antichi e, permeato da quel potere esaltante, avevo spalancato gole sigillate e corretto scompensi cardiaci, raddrizzato ossa ed eliminato squame dagli occhi. Alcuni li avevo resi più umani, anche se una bambina mi aveva chiesto di aiutarla a convivere con le sue mutazioni e io l'avevo fatto.

 Tuttavia la corrente d'Arte si era fatta sempre più impetuosa e travolgente; avevo perso il controllo della magia, ne ero diventato lo strumento invece che il padrone. Dopo che i bambini che avevo accettato di guarire erano tornati dai genitori, altri si erano fatti avanti. Abitanti delle Giungle della Pioggia adulti, dalle mutazioni orribili o pericolose per la loro stessa sopravvivenza, avevano implorato il mio aiuto e io glielo avevo concesso a piene mani, beandomi del piacere di quel flusso. Avevo percepito il momento in cui l'ultimo brandello di controllo mi era sfuggito, e stavo per abbandonarmi a quel richiamo irresistibile che m'invitava a fondermi con la magia, quando Ambra si era sfilata il guanto. Per salvarmi, aveva rivelato l'Argento dei draghi che le copriva la mano. Per salvarmi, mi aveva premuto tre dita incandescenti sul polso nudo, aprendosi un varco nella mia mente, e mi aveva riportato indietro. Per salvarmi, si era tradita. Il bacio incandescente del suo tocco mi pulsava ancora come un'ustione recente, trasmettendomi un dolore lancinante su per le ossa del braccio, fino alla spalla e al collo.

 Quali danni mi stesse procurando, non potevo saperlo, ma se non altro ero rientrato nel mio corpo. Un corpo che, come un'ancora, mi stava trascinando giù. Avevo perso il conto di quanti Antichi avessi toccato e cambiato, ma il mio organismo ne aveva risentito. Ogni guarigione aveva preteso un tributo, ogni mutazione mi aveva sottratto forza, e adesso dovevo ripagare quel debito. Malgrado i miei sforzi, la testa mi ciondolava e non riuscivo a tenere gli occhi aperti, nonostante il pericolo e il frastuono che mi circondavano. Vedevo la sala come attraverso una cortina di nebbia.

 "Rapskal, piantala di comportarti da idiota!" sbraitò re Reyn, per sovrastare il baccano.

 Lante mi strinse più forte da dietro per aiutarmi a restare in piedi. "Lasciala andare!" ordinò. "Libera la nostra amica, altrimenti il principe annullerà le guarigioni che ha operato! Lasciala andare subito!"

 Udii esclamazioni di sgomento, gemiti disperati, un uomo che gridava: "No! Non deve!" e una donna che strillava: "Lasciala andare, Rapskal! Lasciala!"

 La voce di Malta risuonò autoritaria. "Non è così che trattiamo ospiti e ambasciatori qui da noi! Liberala, Rapskal, immediatamente!" Aveva le guance in fiamme e la cresta di squame sopra la fronte avvampò di colore.

 "Lasciami andare!" ringhiò Ambra in tono imperioso. Da chissà quale profondo pozzo di coraggio aveva attinto la forza di combattere da sola. La sua voce si levò al di sopra del caos. "Lasciami, altrimenti ti toccherò!" E sottolineò la minaccia avvicinandosi a Rapskal invece di tentare di liberare la mano. Il repentino cambio di registro lo colse di sorpresa, mentre le dita inargentate di Ambra si avvicinavano pericolosamente al suo volto. Il generale gridò allarmato e balzò all'indietro, liberandole il polso, ma lei non aveva ancora finito. "Alla larga, tutti quanti!" ordinò. "Dateci spazio e fatemi controllare il principe, altrimenti, per Sa, giuro che vi ‘toccherò'!" Il suo era stato un comando perentorio da regina infuriata, mirato a convincere che faceva sul serio. Girò lentamente su se stessa, puntando l'indice inargentato, e la folla si affrettò a disperdersi, tutti che spingevano e sgomitavano per allontanarsi dalla minaccia.

 La madre della bambina con le zampe di drago intervenne. "Io farei come dice lei!" ammonì gli altri. "Se è vero Argento dei draghi quello che ha sulle dita, basterà appena un contatto per provocare una morte lenta. Attraverso la carne vi penetrerà nelle ossa, percorrendo la spina dorsale per arrivare al cranio. Alla fine sarete contenti di morire." Mentre tutti continuavano a indietreggiare, lei cominciò a fendere la folla contro corrente per raggiungerci. Non aveva una corporatura massiccia, eppure gli altri custodi dei draghi le fecero spazio. La donna si fermò a distanza di sicurezza da noi. Il suo drago le aveva conferito una colorazione azzurra, nera e argento; le ali che le ingobbivano le spalle erano richiuse sulla schiena, gli artigli delle zampe ticchettavano sul pavimento quando camminava. Fra tutti gli Antichi presenti, era quella che aveva subito le maggiori modifiche per il contatto con il suo drago. L'ammonimento della donna e la minaccia di Ambra sgomberarono un ampio spazio intorno a noi.

 Ambra si strinse al mio fianco, ansimando per riprendere fiato, mentre Fiamma si schierò dall'altro lato, con Perseverante piazzato davanti a farle da scudo. Con voce bassa e calma, Ambra le disse: "Fiamma, recupera il mio guanto se puoi".

 "Certo, mia signora." Il guanto era caduto sul pavimento. Fiamma si chinò e lo raccolse con cautela fra due dita. "Vi toccherò il polso", disse ad Ambra, e le diede un colpetto sul dorso della mano per guidarla nel guanto. Ambra respirava ancora affannata, ma, per quanto mi sentissi debole, non potei che rallegrarmi nel vedere che aveva recuperato un po' della forza del Matto, e la sua presenza di spirito. M'infilò la mano innocua sotto il braccio e il contatto mi rassicurò. Ebbi l'impressione che mi sottraesse parte della corrente d'Arte che ancora fluiva in me. Mi sentii al tempo stesso collegato a lei e scollegato dall'Arte.

 "Penso di riuscire a stare in piedi da solo", mormorai a Lante, e lui allentò la stretta. Non potevo permettere a nessuno di vedere quanto fossi esausto. Mi strofinai gli occhi e mi pulii la polvere di efedra dal viso. Per fortuna le ginocchia non mi cedettero e riuscii a sollevare la testa. Drizzai la schiena. Avrei tanto voluto prendere il coltello che tenevo nascosto nello stivale, ma ero sicuro che se mi fossi chinato, sarei finito a faccia in giù sul pavimento.

 La donna che aveva messo in guardia gli altri fece un passo avanti nello spazio libero intorno a noi, pur mantenendosi a prudente distanza. "Dama Ambra, è davvero Argento dei draghi quello che avete sulla mano?" le chiese con rispettoso timore.

 "Altroché!" Il generale Rapskal aveva ritrovato il coraggio e avanzò mettendosi al suo fianco. "L'ha rubato dal pozzo dei draghi. Dev'essere punita! Custodi e abitanti di Kelsingra, non possiamo lasciarci incantare dalla guarigione di qualche bambino! Non sappiamo nemmeno se questa magia durerà o se è soltanto un trucco. La prova del furto di questa intrusa è sotto gli occhi di tutti. E noi siamo consapevoli che il nostro primo dovere è e dovrà sempre essere verso i draghi che ci hanno concesso la loro amicizia."

 "Parla per te, Rapskal." La donna gli rivolse un'occhiata gelida. "Il mio primo dovere è verso mia figlia, che finalmente non barcolla più quando cammina."

 "È così facile comprarti, Thymara?" ribatté aspro Rapskal.

 Il padre della bambina si fece avanti per schierarsi al fianco della donna di nome Thymara. La piccola con le zampe di drago gli sedeva a cavalcioni sulle spalle e ci guardava tutti dall'alto in basso. L'uomo parlò come se stesse rimproverando un bambino ostinato, la voce dura venata di familiarità. "Tu meglio di chiunque altro, Rapskal, dovresti sapere che Thymara non si compra. Dimmi una cosa. Chi ci ha rimesso per il fatto che questa dama si sia inargentata le dita? Soltanto lei stessa. Sarà lei a morire. Perciò, che cosa possiamo farle di peggio per punirla? Lasciala andare. Lasciali andare tutti, e con i miei ringraziamenti."

 "Ha rubato!" insistette Rapskal con voce stridula, senza più un briciolo di dignità.

 Intanto Reyn era riuscito a farsi largo tra la folla. La regina Malta lo seguiva a ruota, le guance rosse sotto le squame e gli occhi lampeggianti di una collera che amplificava le sue mutazioni di drago. Lo scintillio nel suo sguardo non aveva nulla di umano e la cresta di pelle che le correva lungo la scriminatura svettava dritta e fremente come quella di un gallo. Fu lei a iniziare. "Le mie scuse più sincere, principe FitzChevalier, dama Ambra. Il nostro popolo ha perso ogni ritegno nella speranza di essere guarito, e a volte il generale Rapskal…"

 "Non parlate per me!" la interruppe il generale. "Ha rubato l'Argento. Ci sono le prove, e no, non è abbastanza che si sia avvelenata da sola. Non possiamo lasciarla partire da Kelsingra. Nessuno di loro potrà andarsene, perché adesso conoscono il segreto del pozzo dei draghi!"

 Con voce calma, Ambra rispose scandendo ogni parola per farsi udire da tutti. "Avevo l'Argento sulle dita da prima che veniste al mondo, generale Rapskal. Da prima che i vostri draghi nascessero, da prima che Kelsingra venisse fondata e abitata, avevo ciò che noi dei Sei Ducati chiamiamo Arte sulle dita. E la vostra regina può confermarlo."

 "Lei non è la nostra regina e lui non è il nostro re!" esclamò Rapskal, ansimante per l'agitazione; lungo il collo, le squame rilucevano di un vivido rosso scarlatto. "Non hanno fatto altro che ripetercelo! Hanno detto che dobbiamo autogovernarci, e che loro due servono soltanto da figure di rappresentanza per il resto del mondo. Perciò, custodi, decidiamo da soli! Che i nostri draghi vengano prima di tutto il resto, com'è giusto che sia!" Puntò un dito tremante contro dama Ambra, pur senza avvicinarsi, e continuò ad arringare la folla. "Ricordate quanto è stato difficile per noi trovare e restaurare il pozzo d'Argento! Sul serio potete credere al suo ridicolo racconto di come lo abbia avuto sulle dita per decine di anni senza morire?"

 La voce amareggiata della regina Malta interruppe lo sproloquio di Rapskal. "Mi rincresce dire che non sono in grado di confermare la tua storia, dama Ambra. Ti ho conosciuta per breve tempo, quando soggiornavi a Borgomago, e ti ho incontrata di rado ai negoziati per concedere prestiti ai nostri Mercanti." Scosse la testa. "La parola di un Mercante vale più dell'oro e io non impegnerò la mia, nemmeno per aiutare un'amica. Il massimo che posso dire è che, a quel tempo, andavi sempre in giro con i guanti. Non ti ho mai visto le mani."

 "L'avete sentita!" berciò il generale, trionfante. "Non ci sono prove! Non…"

 "Posso parlare?" Per anni, in veste di giullare di re Sagace, il Matto aveva dovuto fare in modo che persino i suoi commenti più sommessi raggiungessero il fondo di una vasta sala gremita. E adesso la sua voce allenata non sovrastò soltanto le grida di Rapskal, ma anche il brusio concitato della folla. Nella stanza calò un silenzio colmo di attesa. Lui non si mosse come un cieco quando fece un passo avanti nello spazio vuoto, schiarendosi la voce con un colpetto di tosse. Era l'artista che saliva sul palco. Lo riconobbi nella grazia dei movimenti, nella voce da cantastorie, nel gesto ampio della mano guantata. Per me era il Matto, e il travestimento da Ambra soltanto un elemento dell'esibizione.

 "Ricorda un giorno d'estate, cara regina Malta. Eri poco più di una bambina e la tua vita era in subbuglio. Le speranze della tua famiglia per la sopravvivenza economica dipendevano dal varo del Paragon, un'imbarcazione vivente impazzita al punto da capovolgersi tre volte e uccidere il proprio equipaggio. Ma il folle veliero era la vostra unica speranza e la famiglia Vestrit aveva impegnato le sue ultime risorse per smantellarlo e ricostruirlo."

 Li aveva catturati tutti, me compreso, con quel suo racconto.

 "La tua famiglia sperava che il Paragon riuscisse a trovare tuo padre e tuo fratello, scomparsi da tempo. E che in qualche modo vi facesse tornare in possesso della Vivacia, la nave vivente di famiglia, che si diceva fosse stata catturata dai pirati. E non pirati qualsiasi, bensì il leggendario capitano Kennit in persona! Eri sul ponte dell'imbarcazione maledetta, con l'espressione coraggiosa, il vestito nuovo e il parasole dell'anno prima. Quando tutti gli altri scesero sotto coperta per fare un giro della nave, io ti restai accanto per proteggerti, come mi aveva chiesto tua zia Althea."

 "Sì, ricordo quel giorno", mormorò Malta. "Era la prima volta che ci parlavamo davvero. Rammento che… parlammo del futuro. Di che cosa avesse in serbo per me. Tu mi dicesti che una vita mediocre non mi avrebbe mai soddisfatta. Che dovevo guadagnarmi il futuro. Quali furono le parole esatte?"

 Dama Ambra sorrise, compiaciuta che la regina rammentasse ciò che le era stato detto quando era una bambina. "Il domani ti deve la somma dei tuoi ieri. Niente di più. Niente di meno. E questo vale oggi quanto allora."

 Il sorriso di Malta splendette radioso. "E mi avvertisti che a volte vorremmo che il domani non ci ripagasse completamente."

 "Infatti."

 La regina fece un passo avanti, attrice involontaria dello spettacolo di Ambra. Aggrottò la fronte e parlò come trasognata. "Poi… Paragon mi sussurrò qualcosa. E io sentii… oh, all'epoca non lo sapevo. Sentii che la dragonessa Tintaglia mi invadeva la mente. Avevo la sensazione di soffocare mentre mi costringeva a condividere l'isolamento nella sua tomba! E svenni. Fu terribile. Ero in trappola con lei ed ero sicura che non sarei mai più riuscita a tornare nel mio corpo."

 "Io ti presi", disse Ambra. "E ti toccai, sulla nuca, con le mie dita intrise d'Arte. D'Argento, direste voi. E grazie a quella magia ti riportai indietro, ma ti lasciai un marchio. E un sottile legame che ancora oggi ci unisce."

 "Che cosa?" Malta era incredula.

 "È vero!" esclamò re Reyn, scoppiando in una risata fragorosa di gioia e di sollievo. "Sulla nuca, mia cara! Ho visto quel marchio fin dai tempi in cui avevi i capelli neri come ali di corvo, prima che Tintaglia li trasformasse in oro. Tre piccoli ovali grigiastri, come impronte inargentate opacizzate dal tempo."

 Malta spalancò la bocca per la sorpresa. Si portò le mani alla nuca, sotto la fluente chioma che non era bionda, ma proprio dorata. "Ho sempre avuto un punto sensibile qui dietro, come un livido mai guarito." Si sollevò la massa di riccioli sulla testa. "Chiunque lo desideri, venga a vedere se mio marito e dama Ambra hanno detto la verità."

 Io fui tra coloro che si avvicinarono. Ancora appoggiato al braccio di Lante, avanzai sulle gambe malferme per vedere lo stesso marchio che un tempo avevo sul polso. Tre ovali grigiastri, le impronte digitali del Matto.

 Quando toccò a lei, la donna di nome Thymara fissò costernata la nuca della regina. "È incredibile che non ti abbia uccisa", commentò in tono sommesso.

 Credevo che la questione si sarebbe conclusa lì, ma il generale Rapskal ci mise il triplo degli altri a esaminare il marchio e alla fine sentenziò: "Che cosa c'entra se aveva l'Argento anche allora? Che cosa importa se l'ha rubato due notti fa o decine di anni fa? L'Argento dei draghi appartiene ai draghi. Dev'essere comunque punita".

 Drizzai le spalle e contrassi gli addominali. Non potevo permettere alla mia voce di tremare. Trassi un respiro profondo per parlare ad alta voce e in cuor mio mi augurai di non vomitare. "Quell'Argento non viene da un pozzo. Viene dalle mani stesse di re Veritas, che le ricoprì d'Arte per operare la sua ultima e straordinaria magia. Se la procurò dove un fiume d'Arte scorre insieme a un fiume d'acqua. Non chiamatelo Argento dei draghi. È Arte del fiume d'Arte."

 "E dove si troverebbe?" chiese Rapskal con un tale furore che mi allarmai.

 "Non lo so", risposi sincero. "L'ho visto soltanto una volta, in un sogno d'Arte. Il mio re non mi permise di andare con lui, perché non cedessi alla tentazione di tuffarmici dentro."

 "Tentazione?" Thymara era scioccata. "Io che godo del privilegio di usare l'Argento per il bene della città non ho alcuna tentazione. Anzi, lo temo."

 "Questo perché non sei nata con la sua maledizione nel sangue", spiegò il Matto, "come accade invece ad alcuni Lungavista. Il principe FitzChevalier è nato con l'Arte, una magia che può utilizzare per plasmare i bambini così come tu plasmi la pietra."

 La folla ammutolì.

 "Possibile?" chiese l'Antica alata con autentico stupore.

 Ambra alzò di nuovo la voce. "La magia che porto sulle mani è la stessa che mi fu donata per sbaglio da re Veritas. È mia di diritto, rubata non più di quanto lo sia la magia che scorre nelle vene del principe, la magia che gli avete volentieri permesso di condividere con i vostri figli. Rubata non più della magia che vi trasforma e che marchia i vostri bambini. Come dite voi? Segnati dalle Giungle della Pioggia? Cambiati dai draghi? Se l'Argento sulle mie dita è rubato, allora chiunque tra i presenti che sia stato guarito dal principe è complice di furto."

 "Questo non giustifica…" cominciò Rapskal.

 "Ora basta!" tuonò re Reyn. Vidi gli occhi del generale lampeggiare di collera, ma non osò fiatare mentre Reyn aggiungeva: "Abbiamo abusato fin troppo dei nostri ospiti. Quello che il principe ci ha tanto generosamente elargito, siamo stati noi a chiederlo con insistenza. Guardate quant'è pallido e come trema. Vi prego, cari ospiti, tornate nelle vostre stanze. Vogliate accettare un rinfresco e le nostre scuse più sincere, ma soprattutto, i nostri più sentiti ringraziamenti".

 Fece un passo avanti e, con un gesto, indicò a Perseverante di spostarsi. Dietro di lui venne la regina Malta che, senza alcun timore, offrì il braccio ad Ambra. Reyn mi strinse il braccio con una forza sorprendente; avvertii una punta di umiliazione, ma gli fui riconoscente per l'aiuto. Mi voltai e vidi Malta e Fiamma scortare Ambra, mentre Per chiudeva la fila senza smettere di guardarsi intorno circospetto, ma le porte si accostarono dietro di noi senza ulteriori incidenti. C'incamminammo lungo un corridoio fra due ali di curiosi che non erano stati ammessi all'udienza. Poi udii le porte aprirsi di nuovo e il ruggito delle conversazioni ci investì come un'onda. Il corridoio mi parve interminabile. Quando arrivammo alle scale, avevo la vista annebbiata e non credevo che ce l'avrei fatta a salirle. Ma sapevo di doverlo fare.

 Gradino dopo gradino, m'inerpicai lentamente finché non giungemmo davanti alle porte della mia camera. "Grazie", ansimai.

 "Voi ringraziate me!" rise Reyn. "Dovreste maledirmi piuttosto, dopo quello che vi abbiamo fatto."

 "Non siete stato voi."

 "A ogni modo, vi lascio tranquillo." Il re si congedò e rimase fuori con la regina, mentre noi entravamo. Quando sentii che Perseverante chiudeva la porta alle mie spalle, mi pervase un tale sollievo che le ginocchia mi cedettero. Lante si affrettò a sorreggermi per condurmi al tavolo. Io gli presi la mano per sostenermi.

 Un errore. Il giovane lanciò un grido e cadde in ginocchio. Nello stesso istante sentii l'Arte fluire in me fulminea come un serpente che attacca. Lante si strinse la ferita di spada che gli avevano inferto i chalcediani. Si era rimarginata e in apparenza era guarita, ma bastò quel breve contatto a farmi capire non solo che il suo corpo doveva ancora risanarsi del tutto, ma che aveva anche una costola saldata male e una piccola infezione alla mascella fratturata che gli procurava ancora fitte di dolore. Tutto riparato e guarito in una frazione di secondo, se si poteva definire guarigione un intervento così abborracciato. Gli crollai addosso.

 Lante gemette sotto di me. Provai a rotolare su un fianco, ma non ne avevo la forza. Udii Perseverante che esclamava: "Oh, signore! Lasciate che vi aiuti!"

 "Non toccarmi…" boccheggiai, ma lui si era già chinato e mi aveva preso la mano. Il suo strillo fu più acuto, la voce di un ragazzo tornata a essere quella di un bambino spaventato. Si raggomitolò su un fianco e singhiozzò un paio di volte prima di riuscire a sopportare il dolore. Con uno sforzo immane strisciai lontano dai due. Lante non si mosse.

 "Che cosa succede?" gridò Ambra. "Siamo stati aggrediti? Fitz? Fitz, dove sei?"

 "Sono qui! Nessun pericolo. L'Arte… ho toccato Lante. E Per", fu il massimo che riuscii a spiegare.

 "Che cosa?"

 "Lui mi ha… l'Arte ha fatto qualcosa alla mia ferita", piagnucolò Perseverante. "La spalla ha ripreso a sanguinare."

 Sapevo che sarebbe accaduto. Era necessario. Seppure per brevissimo tempo. Non riuscivo a trovare la forza di parlare. Ero sdraiato sul pavimento e fissavo il soffitto dipinto con maestria, un cielo azzurro punteggiato di soffici batuffoli di nuvole. Sollevai il capo e recuperai la voce. "Non è sangue. È pus. C'era ancora un brandello di stoffa incastrato nella ferita e si stava infettando. Doveva uscire, insieme ai fluidi dell'infezione. Adesso la ferita si è richiusa ed è guarita perfettamente."

 La testa mi ricadde a terra e vidi l'elegante stanza girarmi intorno. Se chiudevo gli occhi, vorticava più in fretta. Se li aprivo, gli alberi dipinti sulle pareti ondeggiavano. Sentii che Lante rotolava sul ventre per rimettersi in piedi. Si accovacciò su Per e gli mormorò: "Fammi vedere".

 "Controlla anche le tue di ferite", gli suggerii con un filo di voce. Spostai lo sguardo e vidi Fiamma chinarsi su di me. "No!" gridai. "Non toccarmi. Non riesco a controllarmi."

 "Lo aiuto io", disse dama Ambra in tono sommesso, e con due passi esitanti mi raggiunse.

 Incrociai le braccia nascondendo le mani nude sotto il gilè. "No. Tu più di chiunque altro non devi toccarmi!"

 Lei si era accovacciata con grazia al mio fianco, ma chi si tirò indietro per sedersi sui calcagni fu il mio Matto e non Ambra. La sua voce traboccava di dolore quando mi disse: "Credevi che mi sarei preso a forza la guarigione che non vuoi concedermi, Fitz?"

 La stanza continuava a vorticare e io ero troppo esausto per tenere ancora per me quel segreto. "Se mi tocchi, temo che l'Arte mi trafiggerà la carne come una spada. Ti restituirà la vista, nonostante il prezzo che dovrò pagare. Perché, sai, credo che perderò la mia."

 Il cambiamento nella sua espressione fu allarmante. Per quanto pallido, il suo volto divenne ancora più bianco, quasi fosse stato intagliato nel ghiaccio. L'emozione gli tese i lineamenti, mettendo in risalto le ossa del cranio. Le cicatrici sbiadite spiccarono come crepe in un vaso di porcellana. Provai a focalizzare lo sguardo su di lui, ma il Matto ondeggiava con il resto della stanza. Mi sentivo debole, avevo la nausea, e detestavo il segreto che ormai ero costretto a rivelare. "Matto, siamo troppo legati. Per ogni danno che ho riparato nel tuo corpo, la mia carne ne ha subito le conseguenze. Non gravi come le ferite che avevi tu, ma quando ti ho guarito le pugnalate al ventre che ti avevo inferto, il giorno dopo le ho avvertite su di me. Quando ti ho rimarginato le piaghe sulla schiena, si sono aperte nella mia."

 "Ho visto quelle ferite!" dichiarò Perseverante sbigottito. "Credevo foste stato aggredito. Pugnalato alla schiena!"

 Il suo intervento non mi fermò. "Quando ti ho saldato le ossa intorno alle orbite, il giorno dopo avevo gli occhi pesti e gonfi. Se mi tocchi, Matto…"

 "Mai!" esclamò lui. Scattò in piedi e indietreggiò barcollante. "Uscite di qui! Tutti e tre. Ora! Io e Fitz dobbiamo parlare in privato. No, Fiamma, starò bene. So cavarmela da solo. Vi prego, andate."

 A malincuore i tre si avviarono alla porta, trascinando i piedi e continuando a lanciarsi occhiate alle spalle. Fiamma aveva preso Perseverante per mano e quando si voltarono, parvero due bambini spauriti. Lante uscì per ultimo, la sua espressione severa da Lungavista talmente simile a quella del padre che nessuno avrebbe potuto ignorare le sue vere origini. "Nella mia camera", disse ai due ragazzi nel richiudere la porta. Capii che voleva proteggerli. Speravo che non ci fosse alcun pericolo, ma temevo anche che il generale Rapskal non avesse ancora finito con noi.

 "Spiegami", mi disse il Matto in tono asciutto.

 Mi sforzai di alzarmi. Fu più difficile di quanto avessi immaginato. Dapprima rotolai sul ventre, poi mi sollevai carponi e infine mi tirai in piedi, sostenendomi al tavolo. Mi spostai lungo il bordo finché non raggiunsi una sedia. L'estemporanea guarigione prima di Lante, quindi di Perseverante, mi aveva prosciugato delle ultime energie. Mi abbandonai sulla sedia e trassi un respiro tremante. Non riuscivo a tenere la testa dritta. "Non posso spiegare quello che non capisco. Non è mai accaduto con nessun'altra guarigione d'Arte cui abbia assistito. Soltanto fra te e me. Qualunque ferita ti elimino, compare su di me."

 Il Matto era rimasto in piedi, le braccia incrociate sul petto. Era il suo viso che guardavo adesso, e le labbra e le guance imbellettate di Ambra stonavano alquanto. I suoi occhi mi scrutavano penetranti. "No. Spiegami perché non me l'hai detto! Perché mi hai tenuta nascosta la verità! Che cosa credevi? Che ti avrei chiesto di perdere la vista per ridarla a me?"

 "Io… no!" Appoggiai i gomiti sul tavolo e mi presi la testa tra le mani. Non ricordavo di essermi sentito tanto esausto. Un dolore martellante alle tempie pulsava al ritmo del mio battito cardiaco. Avevo un disperato bisogno di recuperare le forze, ma persino stare lì seduto richiedeva un dispendio di energie superiore alle mie possibilità. Avrei voluto accasciarmi sul pavimento e dormire. Mi sforzai di rimettere in ordine i pensieri. "Tu desideravi tanto riacquistare la vista e io non volevo toglierti la speranza. Il mio piano era che, una volta tornato in forze, la confraternita avrebbe provato a guarirti, sempre con il tuo consenso. Temevo che se ti avessi detto che non potevo guarirti senza perdere la vista, tu avresti abbandonato ogni speranza." L'ultimo brano di verità fu così tagliente che mi ferì le labbra quando conclusi: "E temevo che mi avresti giudicato egoista perché non ti guarivo". Abbassai la fronte sulle braccia conserte.

 Il Matto disse qualcosa.

 "Non ti ho sentito."

 "Infatti, non dovevi", borbottò a mezza bocca, poi ammise: "Ti ho chiamato zuccone".

 "Oh." Non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

 Lui esitò, poi, con cautela, mi fece una domanda. "Dopo aver preso su di te le mie ferite, sono guarite?"

 "Sì. In gran parte. Molto lentamente." Sulla schiena avevo ancora qualche piccola chiazza rosa in ricordo delle ulcere che gli avevano sfigurato il dorso. "O almeno così mi è parso. Sai come funziona il mio corpo dalla guarigione frettolosa che operò su di me la confraternita tanti anni fa. In pratica non invecchio, e le mie ferite guariscono nel giro di una notte, lasciandomi senza forze. Ma guariscono, Matto. Appena ho capito che cosa stava succedendo, ci sono andato con i piedi di piombo. Quando ti ho manipolato le ossa intorno agli occhi, avevo il pieno controllo." M'interruppi di colpo. Era un'offerta terribile quella che stavo per proporgli, ma in nome della nostra amicizia non potevo esimermi. "Potrei tentare di guarirti gli occhi. Ridarti la vista, perdere la mia, e aspettare che il mio corpo me la restituisca. Ci vorrà del tempo e non sono sicuro che questo sia il luogo più adatto per un tentativo del genere. Magari a Borgomago, dopo che avremo mandato gli altri a casa, potremmo prendere una stanza da qualche parte e provarci."

 "No. Non dire stupidaggini." Il suo tono non ammetteva repliche.

 Nel lungo silenzio che seguì, il sonno cominciò a insinuarsi inarrestabile in ogni parte del mio corpo… una pretesa, un ordine che non conosceva rifiuto.

 "Fitz. Fitz? Guardami. Che cosa vedi?"

 Sollevai le palpebre a fatica e lo guardai. Sapevo che cosa voleva sentirsi dire. "Vedo il mio amico. Il mio più caro e vecchio amico. Non importa da chi ti travesti."

 "E mi vedi bene?"

 Qualcosa nella sua voce mi costrinse ad alzare la testa. Battei le palpebre e lo fissai. Dopo qualche istante, misi a fuoco. "Sì."

 Lui esalò il sospiro che aveva trattenuto. "Bene. Perché quando ti ho toccato, ho sentito qualcosa, molto più forte di quanto mi aspettassi. Ti ho raggiunto, ti ho chiamato, perché temevo che svanissi nella corrente d'Arte, ma quando ti ho toccato, non ho avuto la sensazione di toccare qualcun altro. Era come se mi stringessi le mani da solo. Come se il tuo sangue scorresse nelle mie vene. Fitz, io riesco a scorgere la tua sagoma, seduta sulla sedia. Temo di averti sottratto qualcosa."

 "Oh. Bene. Sono contento." Chiusi gli occhi, troppo stanco per sorprendermi. Troppo debole per spaventarmi. Ripensai a quel giorno di tanti anni prima, quando lo avevo richiamato dalla morte e spinto di nuovo nel suo corpo. In quel momento, mentre abbandonavo il corpo che avevo guarito per lui, mentre ci incrociavamo tornando ciascuno nella propria carne, avevo percepito la stessa cosa. Un senso di unicità. Di completamento. Lo rammentavo, ma ero troppo sfinito per esprimerlo a parole.

 Appoggiai la testa sul tavolo e mi addormentai.

 Galleggiavo. Avevo fatto parte di qualcosa d'immenso, ma adesso ero libero. Separato da quel grande scopo che mi aveva usato come canale. Inutile. Di nuovo. Voci in lontananza.

 "Lui popolava i miei incubi. Una volta ho fatto pipì nel letto."

 Un ragazzo ridacchiò. "Lui? Perché?"

 "Per colpa della prima volta che lo incontrai. Ero poco più di un bambino all'epoca. Un ragazzino a cui era stato affidato un compito all'apparenza innocuo: lasciare un dono per una bambina." L'uomo si schiarì la voce. "Mi sorprese nella camera di Ape. Mi intrappolò come un topolino. Sapeva che stavo arrivando, anche se non ho mai capito come facesse a saperlo. E all'improvviso me lo ritrovai davanti che mi puntava un coltello alla gola."

 Un silenzio sbigottito. "E poi?"

 "Mi costrinse a spogliarmi, nudo dalla testa ai piedi. Adesso so che voleva disarmarmi, togliermi quello che avevo addosso. Coltellini, veleni, cera per copiare le chiavi. Tutti gli strumenti che ero tanto orgoglioso di portare e che mi servivano a diventare quello che voleva mio padre. Mi tolse ogni cosa e io rimasi là nudo e tremante mentre lui mi fissava per decidere cosa fare di me."

 "Credevi che ti avrebbe ucciso? Tom lo Striato?"

 "Sapevo chi era. Me l'aveva rivelato dama Mentuccia. E mi aveva detto che era un uomo molto pericoloso, sotto diversi aspetti. Dotato di Spirito. E si vociferava che avesse certi… appetiti."

 "Non capisco."

 Una pausa. "Che gli piacessero i ragazzi tanto quanto le donne."

 Un silenzio di tomba. Poi una risata giovanile. "Lui? Lui no. C'è sempre stata una sola persona nella sua vita. Dama Molly. Tra i domestici di Giuncheto girava una battuta." Un'altra risata. "‘Bussa due volte', dicevano le sguattere di cucina. ‘Poi aspetta e bussa un'altra volta. Non entrare mai finché uno dei due non ti dice di farlo. Fanno l'amore nei posti più impensati.' Gli uomini della tenuta erano orgogliosi di lui. ‘Quel vecchio stallone non ha perso il suo fuoco', dicevano. Lo facevano nel suo studio. Nei giardini. Nel frutteto."

 Il frutteto. Un giorno d'estate, i figli di Molly erano ormai partiti in cerca di fortuna. Camminavamo tra gli alberi, ammirando le mele mature, chiacchierando dell'imminente mietitura. Molly aveva le mani profumate per i fiori selvatici che aveva raccolto. Io mi ero fermato per infilarle uno stelo di velo da sposa tra i capelli. Lei si era voltata e mi aveva sorriso. Il lungo bacio si era trasformato in qualcosa di più.

 "Quando dama Sciò arrivò a Giuncheto, una delle nuove cameriere disse che lo Striato se n'era trovato un'altra disposta a scaldargli il letto. Fu la cuoca Nocemoscata a raccontarmelo. Alla cameriera aveva detto: ‘Non lui. Per lui c'è stata e ci sarà sempre soltanto dama Molly. Le altre donne non le vede nemmeno'. Poi riferì a Bagordo le parole della cameriera. Lui la chiamò nel suo studio. ‘Lui non è messer Arrapato. Lui è padron Tom lo Striato. E non si ammettono pettegolezzi in questa casa.' E le ordinò di fare i bagagli. Così ci disse la cuoca Nocemoscata."

 Molly sapeva di estate. I fiori si erano sparpagliati a terra quando l'avevo attirata a me. L'erba alta del frutteto ci riparava da occhi indiscreti. Ci eravamo spogliati in preda alla frenesia… la fibbia della mia cintura non ne voleva sapere di aprirsi… e poi lei era a cavalcioni su di me, le mani sulle mie spalle, mi inchiodava al suolo… il seno libero dalla camicetta, la sua bocca sulla mia. Le avevo accarezzato la schiena nuda riscaldata dal sole. Molly. Molly.

 "E adesso? Hai ancora paura di lui?" domandò il ragazzo.

 L'uomo tardò a rispondere. "Bisogna sempre avere paura di lui. Puoi giurarci, Per. Fitz è un uomo pericoloso. Ma io non sono qui perché ho una sacrosanta paura di lui. Sono qui per volere di mio padre. Perché mi ha chiesto di tenerlo d'occhio. E di proteggerlo da se stesso. Per riportarlo a casa sano e salvo, quando sarà tutto finito, se sarò in grado."

 "Non sarà facile", borbottò il ragazzo. "Ho sentito Digitale parlare con Rompicapo dopo la battaglia nella foresta. Ha detto che lui vuole farsi del male. Cerca il modo di porre fine ai suoi giorni, da quando la moglie è morta e la figlia è scomparsa."

 "Già", ammise l'uomo con un sospiro. "Non sarà facile."

 * * *

 Sognai. Non fu un bel sogno. Pur non essendo una mosca, ero intrappolato in una ragnatela; una ragnatela singolare, però, fatta non di fili appiccicosi, bensì di solchi profondi che dovevo seguire, sentieri che attraversavano una foresta impenetrabile di alberi ammantati di nebbia. Camminavo controvoglia, tuttavia non potevo fare altrimenti. Non vedevo dove mi portava il sentiero, ma non ce n'erano altri. Una volta mi guardai alle spalle e la pista che avevo seguito era scomparsa. Potevo soltanto andare avanti.

 Lei mi parlò. Hai interferito con ciò che è mio. Sono sorpresa, umano. Sei tanto stupido da non temere di provocare un drago?

 I draghi non perdono tempo con le presentazioni.

 La nebbia si diradò e mi ritrovai su un prato costellato di grigi massi rotondi chiazzati di licheni. Il vento soffiava come se non avesse mai avuto un inizio né avrebbe avuto una fine. Ero solo. Provai a farmi piccolo piccolo e rimasi in silenzio. I suoi pensieri mi scovarono comunque.

 Spettava a me plasmare la bambina. Non avevi alcun diritto.

 Il tentativo di passare inosservato non aveva funzionato. Cercai di calmare la mente, ma avrei tanto voluto avere con me Urtica in quel panorama di sogno. Mia figlia era riuscita a resistere al violento assalto della dragonessa Tintaglia quando era ancora relativamente inesperta d'Arte. Lanciai una timida sonda per contattarla, ma la creatura m'imprigionava come una rana catturata dalle mani callose di un ragazzino. Aveva il pieno controllo su di me. Nascosi la paura in fondo al petto.

 Non conoscevo l'identità di quella dragonessa, tuttavia mi guardai bene dal chiedergliela. I draghi custodiscono gelosamente il proprio nome per evitare di essere manipolati. Ripetersi che è soltanto un sogno non serve ad arginare quello che un drago è capace di fare a una mente addormentata. Dovevo svegliarmi, ma lei m'inchiodava come l'artiglio di un falco su una lepre indifesa. Sentivo il terreno freddo e sassoso sotto di me, il vento gelido che mi sottraeva calore dal corpo, eppure non riuscivo a scorgere nemmeno un dettaglio della creatura. Forse la logica avrebbe funzionato. "Il mio scopo non era interferire, ma soltanto apportare qualche piccolo cambiamento per permettere ai bambini di sopravvivere."

 La bambina era mia.

 "Preferivi una bambina morta a una viva?"

 Mia vuol dire mia. Non tua.

 La logica di un bambino di tre anni. La pressione sul torace aumentò e una sagoma opalescente cominciò a materializzarsi sopra di me. Scintillava di bagliori azzurri e argentati, e a quel punto capii a quale bambina si riferisse grazie ai marchi che aveva lasciato sulla madre della piccola. La donna che aveva sostenuto di lavorare con l'Argento: Thymara, l'Antica con ali e artigli. Quella dragonessa reclamava la bambina che non aveva avuto timore di scegliere quali mutazioni conservare e che non aveva quasi più nulla di umano. Non aveva esitato a preferire zampe di drago per poter saltare più in alto e arrampicarsi meglio sugli alberi. Una bambina intelligente e coraggiosa.

 Infatti.

 Percepii una sorta di orgoglio corrucciato. Non era stata mia intenzione condividere quel pensiero, ma forse lusingare la bambina e la dragonessa mi avrebbe accordato una tregua. La pressione della zampa sul mio torace non mi procurava più semplice dolore ma la sensazione che le costole avrebbero ceduto da un momento all'altro. Se si fossero spezzate e le estremità taglienti mi avessero perforato i polmoni, sarei morto o mi sarei svegliato? La consapevolezza di stare sognando non diminuiva il dolore né la percezione di un disastro imminente.

 Muori in sogno, ti svegli pazzo. Almeno così dice il vecchio proverbio degli Antichi. I tuoi legami con questo mondo sono forti, piccolo umano. C'è qualcosa in te… eppure non sei stato toccato da nessun drago di mia conoscenza. Com'è possibile?

 "Non lo so."

 Che cos'è questa affinità che percepisco in te, drago e non-drago? Perché sei venuto a Kelsingra? Quale motivo ti ha condotto nella città dei draghi?

 "Vendetta", ansimai. Sentivo che le costole stavano arrivando al punto di rottura. Il dolore era indicibile; se ero addormentato, quel dolore avrebbe dovuto svegliarmi. Quindi, era tutto vero. In qualche modo era reale. E se era reale, avrei dovuto avere un coltello nella cintura; se era reale, non sarei morto come una lepre inerme. Avevo il braccio destro incastrato sotto gli artigli della dragonessa, ma il sinistro era libero. Allungai la mano cercando l'arma a tentoni e la trovai. La estrassi e colpii con quel poco di forza che mi restava, ma la lama cozzò sulle squame coriacee della zampa e scivolò come se avessi tentato di pugnalare un macigno. La creatura non se ne accorse nemmeno.

 Vuoi vendicarti dei draghi? Perché?

 Il braccio mi ricadde inerte. Non sentii nemmeno le dita perdere la presa sull'impugnatura del coltello. Il dolore e la mancanza d'aria mi stavano privando di ogni energia. Non risposi ad alta voce, ma le trasmisi il pensiero. Non voglio vendicarmi dei draghi, ma dei Servi. Voglio andare a Clerres per uccidere tutti i Servi. Hanno torturato il mio amico e distrutto mia figlia.

 Clerres?

 Paura. Un drago che aveva paura? Stupefacente. Ancora più sorprendente era che sembrava paura dell'ignoto.

 Una città di ossa e pietre bianche più a sud. Su un'isola. Una città di gente pallida convinta di conoscere ogni futuro possibile e di poter decidere quale sia il migliore da seguire.

 I Servi! La dragonessa cominciò a sbiadire. Ricordo… qualcosa. Qualcosa di molto brutto. All'improvviso aveva perso ogni interesse per me. Mi abbandonò. Di nuovo in grado di respirare, galleggiavo in un mondo grigio scuro: o ero morto o ero rimasto solo nel sonno. No. Non volevo dormire per non essere vulnerabile a un suo eventuale ritorno. Mi sforzai di svegliarmi, cercando di ricordare dove fosse il mio corpo.

 Aprii gli occhi in una notte fonda e battei le palpebre incollate. Una lieve brezza spirava tra le colline. Vedevo gli alberi ondeggiare e, in lontananza, i picchi innevati delle montagne. La luna era grande, rotonda e del color avorio delle vecchie ossa. La selvaggina doveva essere già in giro. Perché avevo dormito tanto? Mi sentivo la testa ovattata. Sollevai il muso e fiutai l'aria.

 Non c'era nessuna brezza e nessun odore di foresta, soltanto il mio. Sudore. L'aria pesante di una stanza occupata. Il letto era troppo morbido. Provai ad alzarmi a sedere. Udii un fruscio di abiti accanto a me. Due mani forti mi premettero sulle spalle. "Vacci piano. Cominciamo con un po' d'acqua."

 Il cielo notturno era un'illusione e non sarei mai più andato a caccia in quel modo. "Evita qualsiasi contatto pelle a pelle", ricordai a Lante. Lui allontanò le mani e io mi misi seduto. Allungai le gambe fuori dal letto. La stanza vorticò tre volte, poi si fermò. Ero immerso in una penombra crepuscolare. "Tieni", mi disse Lante, mettendomi in mano qualcosa di freddo. L'annusai. Acqua. Bevvi tutto. Lui mi prese il bicchiere e lo riempì. Lo svuotai di nuovo.

 "Per il momento penso che basti."

 "Che cos'è successo?"

 Lante si sedette accanto a me sul bordo del letto. Lo scrutai con attenzione, felice di poterlo vedere. "Che cosa ricordi?" mi chiese dopo un lungo silenzio.

 "Stavo guarendo dei bambini Antichi…"

 "Hai toccato dei bambini, uno dopo l'altro. Non molti… sei, mi pare. Sono tutti migliorati e, a ogni guarigione, lo stupore degli Antichi di Kelsingra cresceva, mentre tu diventavi sempre più strano. Io non possiedo l'Arte, Fitz, ma avevo l'impressione che tu fossi l'occhio di un ciclone che risucchiava la magia verso di te e poi ci vorticava intorno. Quando non ci sono stati più bambini da guarire, si sono fatti avanti gli adulti. Non soltanto Antichi, ma anche abitanti delle Giungle della Pioggia. Non ho mai visto gente così deforme: alcuni avevano le squame, altri bargigli di pelle sotto il mento, altri ancora artigli o narici da drago. Però non erano dettagli aggraziati come nel caso degli Antichi. Sembravano più… alberi malati. E pieni di speranza. Hanno cominciato a spintonarsi per raggiungerti e implorarti di guarirli. Tu avevi lo sguardo spento e non rispondevi. Ti limitavi a toccarli e loro crollavano sul pavimento, con il corpo mutato. Quasi subito, però, sei impallidito e hai iniziato a tremare, eppure non ti fermavi e loro continuavano a supplicarti. Dama Ambra ti ha chiamato e scrollato, ma tu niente. Fissavi nel vuoto e i derelitti ti si accalcavano intorno. Allora lei si è sfilata il guanto e ti ha afferrato il polso per trascinarti via."

 I ricordi si dipanarono nella mia mente come una storia raffigurata su un arazzo. Per fortuna Lante rimase in silenzio mentre ricomponevo le tessere del mosaico. "E poi? È andato tutto bene?" Rammentavo la folla che gridava e spingeva. "Qualcuno di voi è rimasto ferito? Dove sono gli altri?"

 "Nessuno si è fatto male sul serio. Qualche graffio, un paio di lividi." Sbuffò con il naso. "E soltanto Fiamma porta ancora i segni. Quando hai toccato me e Perseverante, tutte le nostre ferite sono guarite. Non mi sono mai sentito così in forma da… da prima che mi picchiassero, quella notte a Borgo Castelcervo."

 "Mi dispiace."

 Lui mi fissò sbalordito. "Ti dispiace di avermi guarito?"

 "Di averlo fatto in modo così brusco. Senza preavviso. L'Arte… non riuscivo a controllarla."

 Lante distolse lo sguardo. "È stata una sensazione strana. Come se mi avessero immerso in un fiume gelido e ripescato subito dopo, caldo e asciutto come prima." La sua voce si spense nel ricordo.

 "Dove sono adesso? Ambra, Fiamma e Per?" Erano in pericolo? Avevo dormito, mentre magari loro venivano minacciati?

 "Probabile che dormano ancora. Questo era il mio turno di veglia."

 "Veglia? Da quanto tempo mi trovo qui?"

 Lui emise un lieve sospiro. "Questa è la seconda notte. Be', forse dovrei dire la mattina del terzo giorno. È quasi l'alba."

 "Credevo di essermi addormentato al tavolo."

 "Infatti. Poi ti abbiamo spostato sul letto. Io ero in pensiero per te, ma Ambra ha detto di lasciarti dormire e che non era il caso di chiamare un guaritore. Immagino che avesse paura di cosa sarebbe accaduto se un guaritore ti avesse toccato. Ci ha ordinato di non entrare in contatto con la tua pelle."

 Risposi alla sua domanda inespressa. "Credo di aver recuperato il controllo dell'Arte." Rimasi immobile un istante per vagliare il flusso di magia; in quella vecchia città era molto forte, ma ancora una volta ebbi la sensazione che fosse qualcosa al di fuori di me piuttosto che una corrente che fluiva attraverso di me. Esaminai le mie barriere mentali e le trovai più robuste di quanto mi aspettassi.

 "Ti ho dato della polvere di efedra", mi rammentò Lante.

 "Sì, ricordo." Mi voltai a fissarlo. "Mi stupisce che tu l'abbia portata."

 Lui abbassò gli occhi. "Sai bene quali speranze nutrisse mio padre per me, e conosci il tipo di addestramento che ho ricevuto. Per questo viaggio mi sono premunito."

 Per qualche minuto restammo in silenzio. Poi gli chiesi: "Che mi dici del generale Rapskal? Qual è l'atteggiamento degli abitanti di Kelsingra nei nostri confronti?"

 Lante si umettò le labbra. "Grande rispetto fondato sulla paura, suppongo. Ambra ci ha raccomandato cautela. Abbiamo consumato i pasti in camera e ci siamo fatti vedere poco in giro. Nessuno di noi ha incrociato il generale Rapskal, ma è arrivato un messaggio da parte sua, e per ben tre volte un suo soldato, un Antico di nome Kase, si è presentato alla tua soglia. È stato rispettoso, tuttavia ha insistito per avere un incontro privato fra te e il generale Rapskal. L'abbiamo mandato via perché stavi ancora riposando, però non credo che sia prudente che tu lo veda da solo. Il generale è un tipo… singolare."

 Annuii in silenzio, ma in cuor mio sapevo che avrei dovuto fissare un incontro se volevo neutralizzare la minaccia che Rapskal rappresentava per Ambra. Dopodiché, gli sarebbe capitata una malattia mortale se solo si fosse azzardato a insistere.

 "A quanto pare, gli Antichi hanno rispettato il nostro desiderio di solitudine", proseguì Lante. "Sospetto che il re e la regina ci abbiano protetto dalla curiosità e dalle richieste della gente. Abbiamo incontrato per lo più servitori e tutti estremamente gentili nei nostri riguardi." Poi aggiunse imbarazzato: "Alcuni mostrano i segni ripugnanti delle Giungle della Pioggia. Temo che vogliano il tuo aiuto, malgrado l'ordine del re di non disturbarti. Non ti abbiamo lasciato solo perché non volevamo che gli Antichi ti trovassero con la guardia abbassata. Questo al principio… poi perché credevamo che stessi morendo". Come sorpreso dalle sue stesse parole, drizzò la schiena e disse: "Dovrei avvertire gli altri che sei sveglio. Vuoi qualcosa da mangiare?"

 "No. Sì." Non mi andava di mangiare, ma sapevo di averne bisogno. Non ero stato in punto di morte, però non avevo nemmeno vissuto. Mi sentivo il corpo simile a un mucchio di biancheria sporca, rigido di sudiciume e puzzolente di sudore. Mi strofinai il viso. Barba lunga. Occhi cisposi. Bocca impastata.

 "Ci penso io."

 Se ne andò. La stanza cominciò a rischiararsi, simulando l'alba. Il panorama notturno sulle pareti sbiadì. Mi sfilai la lunga tunica degli Antichi trascinandola sul pavimento, mentre mi avviavo verso la vasca interrata. Non appena m'inginocchiai davanti al cannello dell'acqua, cominciò a zampillare un getto fumante.

 Ero immerso nell'acqua bollente quando entrò Ambra. C'era anche Perseverante, ma lei non camminava al suo fianco, non si appoggiava a lui per farsi guidare verso la vasca. Risposi alle loro domande ancora prima che me le facessero. "Sono sveglio. Non mi fa male niente. Mi sta venendo fame. Ho l'Arte sotto controllo. Credo. Per favore, evitate di toccarmi finché non ne avrò la certezza."

 "Come stai? Davvero?" mi chiese Ambra. Fui felice di notare che i suoi occhi erano rivolti verso di me, anche se non potei fare a meno di domandarmi se la mia vista si fosse abbassata. Se il Matto aveva recuperato almeno in parte la sua capacità di vedere, significava che io l'avevo persa? Eppure non avevo riscontrato alcuna differenza.

 "Sono sveglio. Ancora stanco, ma non ho sonno."

 "Hai dormito tanto. Eravamo preoccupati per te." Ambra sembrava offesa, come se il mio stato d'incoscienza l'avesse ferita nei sentimenti.

 L'acqua calda mi sciolse i muscoli; il corpo tornò a essermi familiare, qualcosa di mio. Infilai la testa sott'acqua e mi strofinai gli occhi, quindi uscii dalla vasca. Ancora qualche doloretto sparso. Ero un sessantenne, malgrado l'aspetto da trentenne. Perseverante si scostò da Ambra per portarmi un telo da bagno e poi una veste pulita. Parlai mentre mi asciugavo le gambe. "Qual è l'umore in città? Ho fatto del male a qualcuno?"

 Fu Ambra a rispondere. "A quanto pare, no… almeno non in modo permanente. I bambini che hai guarito stanno tutti molto meglio di prima. Gli abitanti delle Giungle della Pioggia che hai toccato ti hanno mandato biglietti di ringraziamento e, com'era prevedibile, ti pregano di aiutare gli altri. Tre di loro hanno infilato un messaggio sotto la porta pregandomi di occuparti delle loro mutazioni. Sembra che l'esposizione prolungata ai draghi, o persino in aree dove i draghi hanno soggiornato, inneschi le alterazioni. Chi ha subito un deliberato cambiamento a opera dei draghi se la cava molto meglio rispetto a quelli che sono semplicemente nati con quelle mutazioni o le hanno acquisite con la crescita. Mutazioni che spesso sono letali per i bambini e accorciano la vita a tutti."

 "Cinque messaggi adesso", mormorò Per. "Ce n'erano altri due sulla soglia quando siamo entrati."

 Scossi il capo. "Non me la sento di provarci di nuovo. Nonostante l'efedra che mi ha somministrato Lante, avverto ancora la corrente d'Arte lambirmi come un'onda. Non posso rischiare." Infilai la testa nell'apertura del collo della tunica verde. Avevo le braccia ancora umide, ma riuscii a inserire le mani nelle maniche, poi scrollai le spalle e sentii che la veste mi si adattava al corpo. Magia degli Antichi? C'era Argento nel tessuto per ricordarle di essere un indumento? Gli Antichi avevano infuso l'Arte nelle strade affinché ricordassero sempre di essere strade. Muschio ed erbacce non attecchivano. C'era una differenza tra l'Arte e la magia che gli Antichi aveva usato per creare quella città meravigliosa? Come si combinavano tra loro? C'erano troppe cose che ancora non sapevo ed ero lieto che Lante mi avesse drogato impedendomi ulteriori esperimenti. "Voglio partire il più presto possibile." Non era stata mia intenzione parlare ad alta voce, ma le parole mi erano uscite di getto. Mi avviai verso la camera da letto; Per e Ambra mi seguirono nel salottino. Lante aspettava lì.

 "Sono d'accordo", disse senza indugi. "Per quanto non abbia l'Arte, i sussurri della città mi arrivano più forti ogni giorno che passa. Voglio andarmene da qui. Dobbiamo andarcene tutti prima che la benevolenza degli Antichi cominci a svanire. Il generale Rapskal potrebbe aizzarci il popolo contro. Qualcuno potrebbe risentirsi per il fatto che non li hai guariti."

 "È vero, credo sia la cosa più saggia da fare. D'altro canto, non possiamo mostrarci troppo smaniosi di andarcene. Se anche ci fosse già una nave pronta a salpare, dobbiamo congedarci da Kelsingra in modo da non scontentare nessuno." Il tono di Ambra era meditabondo. "Ci aspetta un lungo viaggio in questi territori e i Mercanti dei Draghi hanno stretti legami con i Mercanti delle Giungle della Pioggia. Che a loro volta sono imparentati con parecchie famiglie di Borgomago e con i Mercanti di Borgomago. Da qui navigheremo lungo il fiume fino a Trehaug, nelle Giungle della Pioggia; in seguito, il nostro mezzo di trasporto più sicuro sarà una delle navi viventi che solcano il corso d'acqua. Dovremo arrivare a Borgomago e trovare un vascello che ci porti attraverso le Isole dei Pirati fino a Jamaillia. Ecco perché è importante restare in buoni rapporti con i custodi dei draghi, almeno fino a Borgomago e forse anche oltre." Fece una pausa, poi aggiunse: "Perché non basterà raggiungere Jamaillia. Dovremo spingerci al di là delle Isole delle Spezie".

 "In buona sostanza, dovremo viaggiare in luoghi mai segnati su una mappa conosciuta?"

 "Le acque che a te sono ignote sono porti sicuri per altri. Scopriremo là il modo di proseguire. Molti anni fa ho ritrovato la strada per tornare nel Cervo. Vuoi che non sappia come raggiungere la mia patria?"

 Le sue parole non mi furono di conforto. Ero stanco anche solo a stare in piedi. Che cosa mi ero fatto? Sprofondai in una delle poltrone, che mi accolse a braccia aperte. "Credevo che avrei viaggiato solo e con un bagaglio leggero. Mi sarei procurato un passaggio. Non avevo fatto progetti per un viaggio simile, in compagnia di altre persone."

 Risuonò uno scampanellio e la porta si aprì. Entrò un cameriere con un carrello pieno di vassoi coperti e pile di piatti. Evidentemente era un pasto per tutti noi. Fiamma s'infilò nella porta aperta. Era vestita e pettinata, ma i suoi occhi mi dissero che si era svegliata da poco.

 Lante ringraziò il cameriere. Restammo in silenzio finché l'uomo non si chiuse la porta alle spalle. Fiamma cominciò a sollevare i coperchi dai vassoi, mentre Per distribuiva i piatti. "C'è un tubo portarotoli qui. È pesante e c'è un buffo simbolo inciso sopra. Un pollo con una corona."

 "Il gallo coronato è l'emblema della famiglia Khuprus", spiegò Ambra.

 Un brivido mi corse lungo la schiena. "È diverso dalla corona del gallo?"

 "Sì. Anche se mi domando se non ci sia per caso qualche antica relazione."

 "Che cos'è la corona del gallo?" chiese Fiamma.

 "Aprite la lettera e leggete, per favore", disse Ambra, eludendo la domanda. Perseverante la passò a Fiamma, che a sua volta la consegnò a Lante. "È indirizzata agli emissari dei Sei Ducati. Suppongo intenda noi."

 Lante ruppe il sigillo di ceralacca ed estrasse il rotolo di carta di ottima qualità. I suoi occhi diedero una rapida scorsa al messaggio. "Mmm. Dalle cucine si è sparsa la voce che ti sei svegliato ed è arrivata fino alla sala del trono. Siamo tutti invitati a cena questa sera con i custodi dei draghi di Kelsingra. ‘Se la salute del principe FitzChevalier lo consente.'" Alzò lo sguardo per incrociare il mio. "A quanto ne so, i custodi sono gli abitanti delle Giungle della Pioggia che per primi partirono con i draghi per trovare Kelsingra, o almeno un luogo adatto a ospitare quelle creature. Non erano molti, meno di una ventina, mi pare. Ovviamente, in seguito, parecchia gente delle Giungle della Pioggia è venuta a stabilirsi qui, insieme a ex schiavi e abitanti di altre regioni. Alcuni custodi si sposarono con i nuovi arrivati. I loro ambasciatori presso re Devoto hanno descritto una città ricca e popolosa, ma quello che ho visto e sentito dalla servitù racconta una storia diversa", dichiarò. "Non sono riusciti a incrementare il numero di abitanti tanto da sostenere una città, e nemmeno un piccolo villaggio se è per questo. La gente delle Giungle della Pioggia che vive qui muta più in fretta, e raramente in meglio. Come avete potuto constatare, i bambini nati a Kelsingra sono pochi e le mutazioni che li segnano non sempre sono vantaggiose."

 "Rapporto eccellente", commentò Fiamma in una notevole imitazione della voce di Umbra.

 Perseverante ridacchiò sotto i baffi.

 "È vero", convenne Ambra, e le guance di Lante avvamparono.

 "Ti ha addestrato bene", dissi io. "Perché pensi che ci abbiano invitati a cena?"

 "Per ringraziarvi, no?" Perseverante non riusciva a credere che non ci avessi pensato.

 "Sarà il preliminare di un negoziato. È così che fanno i Mercanti", sospirò Ambra. "Noi sappiamo cosa vogliamo da loro. Provviste fresche e un passaggio per l'estremo Sud. La questione è: che cosa vorranno loro in cambio?"