Un'altra nave, un altro viaggio
RAPPORTO PER I QUATTRO
Il lurik noto come Amato continua a creare scompiglio tra gli altri lurik. È stato sorpreso mentre tentava di restare al villaggio al montare della marea, quando tutti si erano già schierati in fila per tornare nelle casette. Ha sconvolto le persone venute a farsi predire il futuro ipotizzando orribili calamità. A uno ha detto che suo figlio avrebbe sposato un'asina, ma che i bambini nati da quell'unione avrebbero dispensato grandi gioie alla famiglia. A un'altra ha detto semplicemente: "Quanto hai intenzione di spendere per le mie bugie? Le mie bugie migliori costano parecchio, ma questa per te è gratis. Sei stata molto saggia a venire qui e sborsare un mucchio di quattrini per le mie bugie".
L'ho picchiato due volte, una a mani nude e una con una cinghia. Lui mi ha implorato di frustarlo più forte affinché gli cancellassi i tatuaggi dalla schiena. Credo che il suo desiderio fosse sincero.
Non appena è guarito ed è tornato al suo incarico al mercato, è salito su una pila di casse e ha proclamato a gran voce di essere il vero Profeta Bianco della generazione in corso, tenuto prigioniero a Clerres. La gente, affabulata, è corsa subito per aiutarlo a fuggire e, quando l'ho afferrato e scrollato per farlo tacere, sono stato preso a sassate. Soltanto grazie all'intervento di altre due guardie sono riuscito a trascinarlo di nuovo all'interno delle mura.
Credo di aver svolto il mio dovere al massimo delle mie possibilità e pertanto chiedo di essere esonerato dal servizio di controllo del lurik noto come Amato. Con il dovuto rispetto, lo ritengo non solo un piantagrane, ma anche un pericolo per tutti.
Lutius
LA mia vita era migliorata, o almeno così mi dicevo. Eravamo alloggiati in una bella cabina, i pasti erano regolari e Dwalia non aveva occasioni per picchiarmi. Anzi, a dire il vero, la nostra nuova situazione sembrava averla ammansita. L'estate in mare aperto ci regalava venti freschi e poche tempeste. Grazie a chissà quale incantesimo Vindeliar aveva evocato su di me, l'equipaggio accettava la mia presenza senza commentare né mostrare interesse. Avessi potuto vivere la mia vita istante dopo istante, tutto sommato non era male. Non ci si aspettava granché da me: dovevo consegnare i pasti a Dwalia in cabina e portare via i piatti sporchi. Quando, il pomeriggio, passeggiava sul ponte con il comandante, io li seguivo a debita distanza, fingendo di vigilare sulla virtù della mia signora.
Al momento, però, avevo ben poco da fingere. Me ne stavo seduta sul ponte, fuori dalla cabina del comandante. Quando aveva offerto il proprio alloggio a "dama Aubrezia", non penso che Dwalia avesse capito che intendeva continuare a occuparla anche lui. Dall'interno provenivano una serie di tonfi cadenzati e speravo tanto che fosse il rumore della sua testa che sbatteva contro la paratia. Il ritmo stava accelerando… purtroppo. Le volte in cui il capitano Dorfel teneva Dwalia impegnata erano i momenti più tranquilli della mia infelice esistenza. Adesso lei stava emettendo dei gridolini ansimanti, a malapena udibili attraverso le robuste assi di legno.
Nel sentire dei passi strascicati scendere dal tambucio, pensai al mare e alle onde e ai riflessi del sole sulle creste. Pensai agli uccelli marini che, pur volando alti sopra le nostre teste, sembravano comunque enormi. Quanto sarebbe stata grande una di quelle creature se fosse atterrata sul ponte? Alta quanto me? Che cosa mangiavano? Dove facevano il nido e dove si riposavano dopo tanti giorni passati lontano dalla terra? Mi riempii la mente di quei volatili bianchi dalle ali spiegate e non pensai ad altro. Quando Vindeliar si accovacciò accanto a me, mi chiesi che aspetto avrebbe avuto se fosse stato un uccello. Lo immaginai con un lungo becco, penne lustre e zampe arancioni con lo sperone come i galli.
"Sono ancora dentro?" s'informò a bassa voce.
Non lo guardai, né risposi. Lunghe piume grigie e lucenti.
"Non voglio entrarti nella mente."
Non ti credo, non mi fido, non ti credo, non mi fido. Lo pensai, ma senza abbassare le barriere. Ultimamente non era più potente come quando aveva bevuto la saliva di serpente, però era ancora abbastanza forte. Stavo cominciando a capire che, al contrario di mio padre che possedeva sempre la magia, quella di Vindeliar dipendeva dalla pozione. Mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che sfumasse completamente. Prima di poter essere sicura che i miei piani segreti restassero segreti. Non pensarci. Non mi fido, non ti credo, non mi fido.
"Tu non ti fidi di me." Lo disse con una tale tristezza che mi sentii quasi mortificata. Solo che aveva tratto quelle parole dalla mia mente e le aveva pronunciate ad alta voce. No, non potevo fidarmi di lui. Lo sapevo con assoluta certezza. Avevo un disperato bisogno di un alleato, ma Vindeliar era da scartare. Non ti credo, non mi fido, non ti credo, non mi fido.
"Povera Dwalia", mormorò, fissando la porta chiusa con un'espressione afflitta. "Quello non la lascia mai in pace! Dev'essere colpa mia. Ho indotto il capitano Dorfel a vederla come la donna più bella che potesse immaginare." Si grattò la testa. "Non è stato facile convincerlo a desiderarla. E devo sempre stare attento a come la vedono tutti gli altri. È sfiancante."
"Che cosa vede quando la guarda?" Maledetta curiosità! La domanda mi era sfuggita dalle labbra prima che avessi il tempo di ricordare che non dovevo parlargli. Cercai di pensare di nuovo soltanto agli uccelli.
Lui sorrise, contento che gli avessi rivolto la parola. "Io non dico esattamente che cosa vedere. Mi limito a dire di vedere qualcosa che gli piace. Nel caso di Dwalia, ho detto al comandante che avrebbe visto una donna bellissima bisognosa del suo aiuto. Non so con precisione lui come la vede."
Si girò verso di me, in attesa di altre domande. Io mi trattenni e pensai a come le creste delle onde a volte scintillavano talmente accecanti da non riuscire a guardarle troppo a lungo.
"Nel mio caso, ho detto loro di vedere un ‘semplice valletto'. Insignificante. Niente da temere."
Aspettò ancora. Io rimasi in silenzio.
"Quanto a te, ho detto che sei brutta, ottusa e puzzi."
"Perché puzzo?" Accidenti a me, non volevo parlare.
"Perché così ti lasciano in pace. Sulla nave prima di questa, c'erano degli uomini che ti guardavano e volevano… farti quello che il comandante sta facendo adesso alla povera Dwalia." Incrociò le braccia paffute sul petto. "Io ti proteggo, Ape. Anche se mi odi e non ti fidi di me, io ti proteggo sempre. Vorrei che aprissi gli occhi e capissi che ti stiamo portando al sicuro, alla tua vera casa. Dwalia ha sofferto tanto per te e tu l'hai ricompensata dandole solo problemi e con aggressioni fisiche."
Quasi l'avesse udito e volesse fargli ancora più pena, Dwalia emise una serie di rantoli strozzati da dietro la paratia. Vindeliar guardò la porta, poi me. "Che facciamo, entriamo? Ha bisogno di aiuto?"
"Hanno quasi finito." Sapevo che i due si stavano accoppiando, ma non avevo idea dei meccanismi del rapporto sessuale. Le mie giornate da sentinella mi avevano insegnato che l'atto comportava una sequenza sempre più accelerata di tonfi e gemiti, e che poi la cabina rimaneva impregnata di sudore. Dopo, Dwalia sonnecchiava un paio d'ore e mi lasciava in pace. Ragion per cui non m'importava che cosa il comandante le facesse durante quegli incontri pomeridiani.
Vindeliar mi parve tanto uno sciocco, quanto un maestro saccente, quando mi disse: "Dwalia è costretta a subire. Se si rifiutasse, sarebbe più difficile per me far credere a Dorfel di essere innamorato di lei. Sopporta tutto questo per assicurarci un passaggio sicuro fino a Clerres".
Stavo per dirgli che ne dubitavo, ma mi morsi il labbro. Meno parlavamo, meglio era. Riflessi del sole sulle onde. Uccelli grigi in volo.
I gemiti raggiunsero l'apice, per poi scemare in un lungo sospiro; un'ultima successione di tonfi galoppanti e infine nella cabina scese il silenzio.
"Non saprò mai che cosa si prova. Io non lo farò mai." La sua voce era quella di un bambino malinconico. Uccelli grigi che planavano nel cielo azzurro. Vele gonfie di vento. Onde scintillanti. "Mi ricordo appena quello che mi hanno fatto. Soltanto il dolore. Ma dovevano farlo. Si erano resi conto da subito che non avrei dovuto generare figli per Clerres. Le femmine come me, le uccidevano. E anche gran parte dei maschi; ma Dwalia parlò a favore mio e di mia sorella Odessa. Eravamo gemelli, nati dal più puro sangue Bianco, però… difettosi. Lei mi tenne in vita quando tutti gli altri pensavano che avrei dovuto morire." Parlava come se io dovessi sdilinquirmi per la bontà d'animo di Dwalia.
"Non capisci niente! Sei così stupido!" La rabbia prese il sopravvento sul mio autocontrollo. "Lei ti tratta come una pezza da piedi, e tu la ringrazi pure. Chi è lei per dire che non dovresti mai avere figli? Ti picchia, ti insulta e tu le giri intorno come un cane che annusa la pipì di un altro! Ti fa bere quella schifezza per darti potere, una magia che nemmeno capisce, e tu lasci che sia lei a decidere come usarla! Ti considera una nullità, Vindeliar! Un essere inutile. Però tu sei troppo stupido per capire che ti sfrutta e che si sbarazzerà di te nel momento stesso in cui non le servirai più. Ti riempie di botte e di parolacce, ma non appena ti sorride, tu la perdoni e dimentichi tutto. Mi chiami fratello, eppure non t'importa che vuole torturarmi e poi uccidermi. E questo lo sai quanto lo so io. Avresti potuto aiutarmi. Se mi avessi voluto bene, mi avresti aiutata. Quando l'ultima nave è entrata in porto, avremmo dovuto fuggire. Io sarei tornata a casa dalla mia famiglia e tu avresti potuto scegliere che cosa fare della tua vita! Invece l'hai aiutata a uccidere una donna che non ti aveva fatto niente di male e che con me era stata buona e gentile. E hai abbandonato il chalcediano, condannandolo a morte certa dopo che lo avevi obbligato a uccidere per lei! Sei un codardo e uno sciocco!"
Ma la sciocca ero stata io. Da qualche parte, in una tenebra remota, udii l'ululato di un lupo spegnersi nel silenzio. Poi Vindeliar mi entrò nella mente. Calma, non ti farò del male, voglio solo vedere i tuoi segreti, le cose di cui hai paura, calma, fratello mio, non ti farò del male, fammi vedere, blaterò eccitato, mentre mi frugava nei pensieri, sollevando turbini di memorie come se fossero foglie secche e lui un vento autunnale. Innalzai una barriera dietro l'altra, ma lui le stracciava quasi fossero pareti di carta. Mi venne la nausea nel sentirmi travolgere dalle emozioni collegate a ogni ricordo. Mia madre che cadeva morta, il mio labbro spaccato dopo uno schiaffo, il calore e le fusa di un gatto che accarezzavo in grembo, il profumo del bacon e del pane fresco in una cucina illuminata dalle candele e dal fuoco del caminetto, FitzVigilante che mi rimproverava davanti a tutti e Perseverante che stramazzava nella neve colpito da una freccia. Vindeliar era un bambino goloso che rovistava in un vassoio di dolci, mordendone uno, leccandone un altro. I suoi assaggi voraci mi sporcavano i ricordi, come se avesse potuto possedermi conoscendomi. Tu sogni! esultò.
Mi sentii spinta fuori dalla mia mente. Non riuscivo a trovare la voce per strillare, né i pugni per picchiarlo. Stavo scrivendo il mio diario dei sogni… no, non doveva vederlo, non doveva leggerli! E all'improvviso percepii soltanto lunghe zanne che schioccavano e una bocca che ansimava sbuffi di alito bollente. Un padre gridò: "Attento! È più pericoloso di quanto pensi!" E mi ritrovai in una gabbia dove non potevo indietreggiare, mentre un umano puzzolente mi percuoteva le costole con un bastone che non riuscivo a evitare. Non avevo mai conosciuto un dolore simile! E non smetteva. L'uomo continuava a imprecare e a pungolarmi con forza con il bastone, quasi volesse trafiggermi. Io ululavo e strillavo e ringhiavo, saltavo impazzita nella gabbia e azzannavo le sbarre, ma il bastone calava implacabile, sempre in cerca delle mie parti più molli, il ventre, la gola, l'ano, i genitali. Alla fine stramazzai sul pavimento della gabbia; uggiolavo e tremavo, ma le percosse non cessarono.
E di colpo Vindeliar scomparve. Ero tornata in possesso della mia mente. Sprangai una barriera dopo l'altra, mentre il mio corpo era scosso dai singhiozzi. Il ricordo di quel dolore straziante mi aveva fatto piangere, ma attraverso il velo di lacrime vidi Vindeliar riverso su un fianco, la bocca spalancata, gli occhi vitrei come se avesse perso conoscenza. Mi folgorò un'idea: come il lupo in gabbia, come Padre Lupo.
Ti ho dato quel dolore per usarlo contro di lui. Ma non pensare più a me. Lui non deve trovarmi. Non deve sapere che sai scrivere, né scoprire le cose che hai sognato. E devi smetterla di aspettare che qualcuno ti salvi. Devi cavartela da sola. Fuggi. Torna a casa. Ma non pensare a casa adesso. Pensa soltanto a fuggire.
Padre Lupo svanì come se non fosse mai esistito. Come se fosse un'immagine che mi ero creata per darmi coraggio. Svanito come il mio vero padre. No, non dovevo pensare nemmeno a lui.
Vindeliar si alzò a sedere ancora stordito. Si puntellò con le mani sul ponte e mi guardò accigliato. "Che cos'era? Tu non sei un lupo. Non puoi avere quei ricordi." Gli tremava il labbro, come se mi stesse accusando di aver barato al gioco.
In un impeto di puro odio gridai: "Posso ricordare questo!" E gli scagliai addosso ogni istante di quella notte in cui a furia di botte Dwalia mi aveva lussato la spalla. Lui trasalì atterrito, e io aggiunsi: "E questo!" Digrignai i denti mentre ricordavo esattamente la sensazione di quando avevo morso la guancia di Dwalia, il sapore del suo sangue che mi colava sul mento, e i pugni che mi aveva dato nel tentativo di liberarsi.
Lui si prese il viso tra le mani e scosse la testa. "No-o-o…" La sua voce si spense. Spalancò gli occhi e mi fissò sgomento. "Non farmelo vedere! Non farmi sentire che le mastico la faccia!"
Ricambiai il suo sguardo con occhi gelidi. "Allora sta' lontano dalla mia mente! Altrimenti ti mostrerò di peggio." Non avevo idea di che cosa avrei potuto fargli provare di peggio, ma la minaccia era servita a estrometterlo dai miei pensieri, e tanto mi bastava. Pensai a come mi aveva tradita, a come aveva aiutato Dwalia a trovare e uccidere la mercante Akriel. Pensai a come aveva bloccato la catena quando avevo tentato di fuggire sul pontile. Feci appello a tutto il mio odio e glielo trasmisi con una violenza inaudita. Ti disprezzo! Lui strabuzzò gli occhi e indietreggiò. In quel preciso istante mi resi conto di essere più forte di lui. Era riuscito a penetrare nella mia mente mentre avevo la guardia abbassata, ma era stata la mia forza a respingerlo. Lui aveva usato tutto il suo potere contro di me, ma ero stata io a vincere.
La porta della cabina si spalancò di colpo e uscì il nostro bel comandante. Il suo abbigliamento era immacolato come sempre, e aveva le guance appena arrossate. Abbassò lo sguardo prima su di me, poi su Vindeliar. Una nube di sconcerto gli adombrò gli occhi, come se non fossimo chi si era aspettato di vedere. Poi avvertii l'onda dei pensieri di Vindeliar lambirgli la mente: la fronte dell'uomo si spianò e le labbra serrate si piegarono verso il basso in una smorfia di disgusto. "Dama Aubrezia, questa vostra serva… be', giuro che quando arriveremo a Clerres, la rimpiazzeremo con una più pulita e graziosa. Vattene, sgorbio!" Mi spinse via con la punta dello stivale e io arretrai sulle mani e sui calcagni, per poi alzarmi in piedi.
"Come desiderate, signore", risposi educata. Non avevo fatto che pochi passi, quando udii la voce di Dwalia.
"No, mio caro, grazie lo stesso. Vieni qui, Ape! Rimetti subito in ordine la stanza."
Esitai, pronta a dileguarmi.
"Hai sentito la tua padrona. Obbedisci!"
"Sì, signore." Abbassai gli occhi rassegnata, ma nonostante ciò, quando gli passai accanto, il comandante mi mollò uno scappellotto sulla nuca talmente forte da farmi sbattere contro lo stipite della porta. Mi affrettai a entrare, e Vindeliar mi seguì.
"E quest'altro non mi pare proprio adatto come guardia del corpo. Dovrebbe essere sostituito da un uomo robusto che sappia il fatto suo." Il comandante scosse la testa e, con un sospiro, aggiunse: "Ci vediamo stasera, mia cara".
"Il tempo scorrerà come melassa fino ad allora", rispose Dwalia, la voce languida e sensuale. Poi richiuse la porta e, in tono del tutto diverso, mi ordinò: "Ripulisci in fretta!"
La cabina del comandante era un ambiente lussuoso che occupava la poppa per l'intera larghezza, con vetrate che affacciavano su tutti e tre i lati. Le pareti erano rivestite di lucido legno rossiccio, mentre il resto della stanza era color oro o crema. C'erano un letto enorme ricoperto di morbidi cuscini marrone chiaro, un grande tavolo di legno dalle sfumature ruggine e muschio con sei sedie dallo schienale alto, e un altro tavolo più piccolo a ribalta, che serviva per il carteggio. Davanti a una delle finestre si trovava una poltrona imbottita; una porticina conduceva in un bugigattolo dove i bisogni scendevano lungo uno scarico per riversarsi direttamente in mare. La notte, Dwalia mi rinchiudeva a chiave in quello stanzino angusto e maleodorante per evitare che l'aggredissi nel sonno.
Le lucide tavole del pavimento erano disseminate d'indumenti, un tripudio di merletti e nastri, che il comandante aveva comprato per dama Aubrezia nei due giorni passati a terra, prima di lasciare il nostro ultimo porto. Ne raccolsi qualcuno, tra cui una sottoveste di tulle inamidato che mi crepitò tra le braccia e sprigionò un profumo dolce; un altro regalo del capitano Dorfel. Portai il fagotto al baule con le rose intagliate sul coperchio e cominciai a riporre ogni indumento con cura. Il baule odorava di spezie e di foresta.
"Sbrigati!" mi ordinò Dwalia, poi si rivolse a Vindeliar: "Prendi quei piatti e quelle tazze e riportali nella cambusa. Al comandante non piace il disordine". Si accomodò sulla poltrona imbottita a guardare il mare e allungò i piedi ossuti e i polpacci muscolosi, nudi sotto la corta vestaglia di seta rossa. Aggrottò la fronte. "Andiamo così lenti! Il comandante dice che questo periodo dell'anno non è l'ideale per navigare verso Clerres, che le correnti sono favorevoli per dirigersi a nord e a ovest, non a sud e a est. Io credo che si attardi di proposito, per passare più tempo con dama Aubrezia."
Mi chiesi se si stesse lamentando o vantando, ma non dissi niente. Bei vestiti, profumi costosi, rose intagliate. Concentrai la mente su quello che vedevo, attenta a tenere ben chiuse le mie barriere.
"Ti ha rubato la magia!" Vindeliar non aveva ancora cominciato a sparecchiare. Mi indicò con un dito tremante mentre lanciava la sua accusa.
Dwalia girò la testa e lo fulminò con un'occhiata. "Che cosa?"
"Ha usato la nostra magia contro di me, proprio un istante fa, mentre eravamo fuori. Mi ha fatto pensare al morso sulla tua guancia e a quanto mi odia!"
Dwalia spostò il suo sguardo furente su di me. "Non è possibile."
"L'ha fatto! Ha rubato la magia, ecco perché non riesco a costringerla a fare quello che vuoi." Trasse un respiro tremante, un bambino cocciuto sull'orlo del pianto. Lo fissai con odio e lui trasalì. "Lo sta facendo anche adesso!" frignò e si coprì il volto con le mani, come se potesse evitare di essere investito dal flusso feroce di ciò che provavo per lui.
"No!" strillò Dwalia balzando dalla poltrona. Io incassai la testa tra le spalle e alzai i pugni per difendermi, ma lei m'ignorò e corse al baule intagliato. Spalancò il coperchio e, senza alcuna considerazione per il lavoro che avevo appena completato, cominciò a tirare fuori i vari indumenti lanciandoli sul pavimento, finché non trovò i suoi vecchi vestiti da viaggio, lavati ma logori. Scovò un sacchetto di pelle e ne trasse una fiala di vetro. Il resto della densa saliva di serpente si era depositato sul fondo. "No. È qui! Non l'ha rubata. Piantala di accampare scuse."
Per un lungo istante la fissammo entrambi. "Ne ho bisogno adesso", mormorò Vindeliar bramoso. "Non vuoi che riesca a fare tutto quello che mi chiedi?" La domanda traboccava di desiderio struggente.
"Non se ne parla. Ti ho già dato tutta quella che potevo." S'infilò al collo la cordicella del sacchetto, che le si insinuò tra i seni. "Ne resta pochissima e ci servirà in caso di emergenza."
"Lei non si fida di te, Vindeliar. Prima ti ha convinto di aver bisogno della saliva di serpente, e adesso ha paura che gliela rubi", proclamai senza riflettere.
"Serpente… chi te l'ha detto? Vindeliar! Le hai spifferato i miei segreti? Mi hai tradita?"
"No! No, non le ho detto niente! Niente!"
Era vero. Non era stato lui a dirmelo. Avevo scovato l'informazione nella sua mente quando lo avevo sorpreso senza difese. Lì per lì mi pentii di averlo rivelato, poi però pensai che potevo sfruttarla come breccia nella loro alleanza.
"Bugiardo!" gridò lei. Avanzò minacciosa su di lui con la mano carnosa sollevata; Vindeliar gemette e si accovacciò, coprendosi la testa con le mani. Dwalia lo schiaffeggiò, ma gli colpì le nocche ed emise un ringhio di frustrazione e di dolore. Allora gli afferrò una ciocca di capelli e gli scrollò la testa con violenza, mentre lui strillava protestando la sua innocenza. Intanto io mi ero avvicinata alla porta, cercando con lo sguardo qualcosa da usare come arma. Temevo che da un momento all'altro si rivoltassero tutti e due contro di me. Invece lei gli strattonò la testa da un lato con una forza tale che lui barcollò e cadde sul pavimento, dove si raggomitolò singhiozzante. Lei lo incenerì con un'occhiata, poi si girò verso di me.
"Che cosa ti ha detto della pozione di serpente?"
"Niente", risposi sincera, poi, nel tentativo di spiazzarla, scossi la testa sprezzante e mentii: "Lo sanno tutti, là da dove vengo io. Ma sono pochi quelli tanto stupidi da usarla".
Lei mi fissò sbalordita. "No. No, è una mia scoperta! La mia nuova magia, un'abilità che soltanto alcuni di sangue Bianco possono sviluppare. E sono pochissimi." Nei suoi occhi ardevano le fiamme dell'odio. "Credi di essere furba, vero? Cerchi di metterlo contro di me. Lui mi ha raccontato tutto, stupida marmocchia! Di come l'hai manipolato per farti aiutare. Di come l'hai convinto a tradirmi. Non succederà più. Te lo prometto. E ti prometto un'altra cosa: una vita lunga e dolorosa a Clerres. Pensi di aver sofferto viaggiando con me? Oh, no. Conoscerai tutti i patimenti di tuo padre, e anche di più."
Si stava avvicinando e io non avevo armi per difendermi. Su quella nave gli oggetti erano riposti al sicuro per evitare che volassero in giro in caso di mare grosso. Dwalia aveva intenzione di acciuffarmi e cavarmi tutto quello che sapevo a suon di botte. Ma io che cosa sapevo? Non ero nemmeno sicura di che cosa fossi capace di fare con la magia appena scoperta. Era Arte, come quella che possedeva mio padre? Sì, doveva essere quella! Niente a che vedere con quella sordida capacità che Dwalia aveva instillato in Vindeliar facendogli bere saliva di serpente. Era la mia magia, la magia della mia famiglia. Però non ero addestrata. Più di una volta avevo letto tra i documenti di mio padre che occorreva un lungo addestramento per usarla.
Ma io l'avevo già fatto, giusto?
Avevo trasmesso a Vindeliar le mie antiche sofferenze e lo avevo minacciato con il mio odio. Forse aveva funzionato soltanto perché lui stava già cercando di entrarmi nei pensieri. O forse gli avevo sottratto parte della magia. A ogni modo, avrei potuto fare lo stesso con Dwalia? La fissai, alimentando le fiamme dell'odio che provavo per lei e gettando acqua sul fuoco della paura. La fissai concentrandomi sulla cicatrice del mio morso, sull'odore nauseabondo che emanava il suo corpo, sul disgusto che mi suscitava. Mi parvero armi smussate. Come potevo combattere contro di lei, che cosa potevo farle sentire? Sarei riuscita a farle provare qualcosa o aveva funzionato con Vindeliar soltanto perché era stato lui a toccarmi la mente per primo?
Ansimavo atterrita. Controllo. La pergamena di mio padre diceva che era necessario il controllo. Trassi un unico, lungo respiro, poi un altro. Lei continuava a osservarmi. Come potevo controllare i miei pensieri quando quella strega minacciava di saltarmi addosso?
Sii il predatore, non la preda.
Padre Lupo! Distante come un cinguettio d'uccello.
Un basso ringhio mi sgorgò dalla gola. Lei spalancò gli occhi, ma io mi accorsi che intanto Vindeliar si era alzato a sedere. Dovevo sorvegliarli entrambi. Dov'era più vulnerabile Dwalia? Nel corso delle nostre peripezie si era fatta più asciutta e muscolosa. Cercai d'immaginare che la colpivo. D'accordo, quello riuscivo a figurarmelo, ma non potevo immaginare di farle abbastanza male da fermarla. Una volta che mi avesse afferrata, mi avrebbe massacrata di botte. Dovevo concentrarmi su come attaccarla, e soprattutto dove.
La sua mente?
Attenta. Una via d'uscita è anche una via d'ingresso.
Non avevo tempo di preoccuparmi del significato di quella frase. L'aggredii con tutto il mio odio e il mio disgusto, nella speranza che ne restasse ferita. Invece fu come versare olio su un focolare; percepii l'odio che lei provava per me divampare come un incendio. Mi saltò addosso come un gatto su un topo. E, come un topo, scattai di lato, schivando per un soffio i suoi artigli. Pur non essendo veloce quanto me, riuscì a non sbattere contro la parete, ma barcollò di lato. Ne approfittai per infilarmi sotto il tavolo ed emergere dall'altra parte. Dwalia picchiò i pugni sul ripiano con una violenza tale che i piatti sobbalzarono e gridò a Vindeliar: "Prendila! Tienila!" Lui si alzò in piedi, ma era goffo e instabile. Io gli trasmisi un feroce ricordo del morso che avevo inflitto a Dwalia, e con grande soddisfazione lo vidi proteggersi le guance con le mani.
Dal canto suo, Dwalia non aveva alcuna intenzione di arrendersi. Io stavo attenta a tenere sempre il tavolo tra noi due, mentre lei mi rincorreva girandogli intorno senza mostrare alcun segno di stanchezza. M'infilai di nuovo sotto per riprendere fiato, ma lei scostò le sedie e le gettò di lato per rifilarmi un calcio. Quando sgusciai fuori, le sedie erano diventate un ostacolo per entrambe, mentre continuavamo a correre intorno al tavolo ancora apparecchiato. Lei ansimava più forte di me, però riuscì lo stesso a gridare: "Stavolta ti ammazzo, brutta schifosa! Ti ammazzo!"
Si fermò di colpo, con i palmi piantati sul tavolo, e boccheggiò: "Vindeliar! Verme incapace! Prendila, tienila ferma!"
"Ma lei mi morderà! La sua magia me l'ha promesso! Mi staccherà la faccia!" piagnucolò lui, dondolando avanti e indietro con le mani ancora sulle guance.
"Idiota!" ringhiò lei e, con una forza che non avrei mai creduto possedesse, sollevò una delle sedie e gliela scagliò addosso. Lui strillò, saltando indietro per schivarla. "Prendila e tienila ferma! Renditi utile, altrimenti ti faccio scaraventare fuori bordo dal comandante!"
Io guardai la porta, ma sapevo che tempo di raggiungerla e armeggiare con il chiavistello, lei mi avrebbe acciuffata. E se anche fossi riuscita a scappare fuori dal tambucio, alla fine mi avrebbero scovata e restituita alla mia padrona. Non avrei dovuto alimentare la sua collera. Avrei dovuto lasciarmi semplicemente picchiare prima che la sua diventasse furia omicida. E adesso che cosa potevo fare, che cosa? Intanto il suo respiro era tornato regolare; da un momento all'altro avrebbe ricominciato a rincorrermi e non si sarebbe fermata finché non avesse vinto.
Dalle quello che vuole.
Lascio che mi uccida?
Lasciala vincere. Falle credere di aver vinto.
Come?
Nessuna risposta. Mi pervase uno strano formicolio e sentii che Vindeliar mi pungolava la mente, come se con un dito mi stesse toccando un foruncolo spuntato all'improvviso sulla fronte. Un dito timido, quasi impaurito, che scacciai con uno schiaffo carico del ricordo della guancia masticata di Dwalia. Lui indietreggiò, ma la pagai cara. Incurante dei piatti, Dwalia si slanciò sul tavolo per afferrarmi il davanti della camicia. Un'immagine vivida delle ultime percosse che avevo subito mi balenò nella mente e si riversò nella sua. La luce malevola di soddisfazione che le brillò negli occhi fu quasi accecante, ma tanto bastò.
Avevo capito.
Le trasmisi il sapore del sangue in bocca, il taglio all'interno della guancia, il dolore pulsante del dente allentato. All'improvviso mi vidi come lei mi vedeva, pallida, i capelli intrisi di sudore, un rivolo di sangue che mi colava sul mento. Feci appello a ogni briciolo di autocontrollo e mi abbandonai con tutto il peso nella sua stretta. Lei non mollò la camicia e, quando mi accasciai sul pavimento, fu costretta a scivolare sul tavolo per non mollare la presa, in un acciottolio di piatti rotti. Io lasciai ciondolare la testa come tramortita e socchiusi la bocca. Lei riuscì a darmi un ceffone, tuttavia la posizione scomoda non le consentì d'imprimere troppa forza allo schiaffo, anche se io strillai di dolore. Non le stavo più dando il mio odio, ma la mia paura, la mia disperazione, la mia sofferenza. E lei le beveva come un cavallo assetato davanti a un trogolo d'acqua.
Scese dal mio lato del tavolo e mi sferrò un calcio. Gridai ancora e finsi che la violenza della pedata mi avesse spinta sotto il tavolo. Mi diede un altro calcio, ma era ostacolata dal bordo di legno e l'impatto non fu troppo brutale. Urlai di nuovo e le trasmisi l'illusione di una fitta lancinante. Lei si leccò le labbra, ansimante. Io rimasi dov'ero, gemendo. Oh, quanto mi aveva fatto male, ero quasi svenuta dal dolore, avrei sofferto per settimane. Le diedi tutto quello che pensavo potesse volere da me.
Dwalia si girò, respirando forte con il naso. Aveva ottenuto quel che desiderava e la sua fame era saziata. Con me aveva finito, ma Vindeliar era stato tanto stupido da avvicinarsi troppo. Lei strinse la mano e gli sferrò un pugno in pieno viso. Lui barcollò all'indietro, singhiozzante, portandosi le mani al naso ferito. "Sei un essere inutile! Incapace persino di acciuffare una ragazzina! Ho dovuto farlo da sola! Guarda che cosa mi hai costretta a fare! Se muore per le botte, sarà colpa tua. Sarà anche una bugiarda, ma non più di te! Rubare la mia magia! Una scusa assurda per spiegarmi come mai non riesci a controllarla?"
"Lei sogna!" Vindeliar abbassò le mani. Aveva le guance rosse, gli occhietti pieni di lacrime, e perdeva sangue dal naso. "È lei la bugiarda! Lei fa dei sogni, ma non li scrive né te li racconta!"
"Imbecille che non sei altro. Tutti sognano, non soltanto i Bianchi. I suoi sogni non significano niente."
"Ha sognato le candele! L'ha scritto, rime comprese! Gliel'ho visto nella mente! Sa leggere e scrivere, e ha fatto il sogno delle candele."
Fui colta dal panico. Il sogno delle candele! Per poco non lo riportai alla mente. No! Inutile rischiare. Le trasmisi un pensiero angosciato. È falso. Io sono una ragazzina stupida e analfabeta. Sta solo accampando delle scuse per evitare una punizione. Lo sai che non è vero, hai ragione quando dici che è un bugiardo, tu sei troppo intelligente per farti abbindolare dalle sue menzogne.
Trasmisi i miei pensieri con la forza della disperazione. Credo che la raggiunsi soltanto perché era già infuriata con lui ed era contenta di avere la conferma ai motivi della sua collera.
Cominciò a pestarlo. Prese una pesante brocca di metallo dal lavamano e la trasformò in arma. Lui non si difese e io non intervenni, restando rannicchiata sotto il tavolo. Il sangue del labbro spaccato mi era colato sul mento; me lo spalmai su tutto il viso. Avvertivo l'impatto di ogni colpo che assestava a Vindeliar e trasalivo, immagazzinando quelle sensazioni; per contro, lo persuasi che lei mi aveva picchiata più forte e, nel suo stato confusionale, lui accettò quel pensiero per vero. Conosceva fin troppo bene quali sofferenze Dwalia fosse capace d'infliggere. Lo sapeva meglio di chiunque altro e, in un getto d'informazioni improvviso come sangue che sprizza, lo seppi anch'io. Il ricordo mi travolse e le mie barriere crollarono.
Una via d'uscita è anche una via d'ingresso.
Le sagge parole di Padre Lupo ebbero finalmente senso. Chiusi i pensieri e mi sforzai d'innalzare di nuovo le mie difese. Costruii muri sempre più solidi fino a essere soltanto consapevole delle botte, ma non del dolore. Quando prendeva la pozione, Vindeliar era molto più forte di me in questa magia, ma adesso avevo capito: una via d'uscita era sempre una via d'ingresso. Quando espandevo la mente per toccare la sua o quella di Dwalia, era come se aprissi i cancelli della mia coscienza. Lo sapeva anche lui? Sapeva che quando aveva tentato d'invadere la mia mente, mi aveva offerto un varco per la sua? Ne dubitavo. E dopo quello che avevo intravisto, non ci sarei mai più voluta entrare.
Mi raggomitolai sul pavimento sotto il tavolo, scossa dai singhiozzi, mentre lacrime copiose mi rigavano il volto. Mi sforzai di riprendere il controllo, di riflettere su quanto avevo imparato. Avevo un'arma, ma non era temprata e non sapevo come brandirla. Lui aveva un punto vulnerabile e non lo sapeva. Le immagini di lui e della sua infanzia infelice si erano riversate in me quando aveva manifestato il potere della pozione di serpente. Mi affrancai da qualsiasi compassione potessi provare per lui e mi concentrai su quei ricordi.
Avevo visto una cittadella fortificata che si ergeva su un'isola. Torri sormontate da cupole simili a teschi mostruosi dominavano il porto e il territorio circostante. Un bel giardino dove giocavano bimbi pallidi, ma non Vindeliar. Quei bambini erano affidati alle cure dei Servi pazienti, che insegnavano loro a leggere e a scrivere fin da quando muovevano i primi passi. I loro sogni venivano raccolti e conservati con cautela come morbidi frutti.
Avevo visto un mercato con diverse bancarelle protette da tendoni colorati. Nell'aria si mescolavano gli odori del pesce affumicato, dei dolci al miele e delle spezie. Tra i banchi si aggiravano clienti sorridenti che facevano la spesa e infilavano gli acquisti nelle borse di rete. Cagnolini senza pelo scorrazzavano e uggiolavano tra le gambe della gente. Una ragazza con una ghirlanda di fiori sul capo vendeva dolci dalla crosta dorata su un vassoio. Tutte le persone sembravano pulite, ben vestite e felici.
Quella era Clerres. Era dove mi stavano portando, ma dubitavo che il bel giardino recintato e i Servi amorevoli stessero aspettando me, e tanto meno il variopinto mercato sotto i raggi del sole.
Ricordai invece con orrore il bagliore sinistro delle fiaccole che illuminavano le pareti di pietra e gli spalti intorno a un tavolo dov'era incatenata una povera creatura sanguinante che urlava, mentre Dwalia offriva un coltello affilato a un uomo impassibile. Penna, inchiostro e carta aspettavano su un leggio accanto a lei. Quando la vittima seviziata gridava una parola riconoscibile, lei la appuntava e a volte aggiungeva qualche nota, forse su quale tortura le aveva strappato determinate parole. Sembrava soddisfatta ed efficiente, i capelli raccolti in una treccia sulla sommità del capo, e indosso un grembiule di tela grezza per proteggere il semplice vestito celeste.
Vindeliar se ne stava in disparte, un povero emarginato che distoglieva lo sguardo e tremava ogni volta che la vittima strillava. Non capiva granché delle ragioni di quel supplizio. Alcuni spettatori seduti sugli spalti osservavano la scena con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, altri ridacchiavano dietro le mani, con una strana vergogna che gl'imporporava le gote. Alcuni erano pallidi, di pelle, di capelli, di occhi; altri invece avevano i capelli neri e la carnagione più scura dei miei genitori. C'erano anziani, adulti e quattro bambini che sembravano più piccoli di me. Tutti assistevano alla tortura come se fosse uno spettacolo d'intrattenimento.
D'un tratto la misera creatura legata al tavolo s'irrigidì. Uno spasmo gli tese le dita grondanti di sangue e la testa sbatté con violenza da un lato e dall'altro. Poi rimase immobile. I rantoli straziati cessarono e io pensai che fosse morto. Infine, con un ultimo respiro agonizzante gridò un nome. "FitzChevalier! Fitz! Aiutami, ti prego, aiutami! Fitz! Fitz!"
Dwalia s'impietrì. Alzò la testa quasi avesse udito la chiamata di un dio e un sorriso raggiante le illuminò il volto. Qualunque cosa appuntò sul foglio, la scrisse con uno svolazzo. Poi si fermò con la penna a mezz'aria e ordinò all'aguzzino: "Ancora, per favore, ancora. Voglio esserne sicura!"
"Certamente", rispose l'uomo. Era pallido, con i capelli chiarissimi, ma lo sfarzo del suo abbigliamento sopperiva alla mancanza di colore. Persino il grembiule color oliva che indossava per proteggere la tunica verde giada era un capolavoro di ricamo, un fitto intrico di parole in una lingua a me sconosciuta. E aveva le orecchie tempestate di piccoli smeraldi. Sventolò il suo piccolo strumento di tortura sotto gli occhi spalancati dei quattro piccoli Bianchi. "Siete troppo giovani per ricordare quando Amato era un lurik, più o meno della vostra età. Ma io lo ricordo. Anche allora era un ragazzo ottuso e ribelle che infrangeva le regole, proprio come fate voi pensando di essere troppo furbi per farvi scoprire. Guardate ora a che cosa l'ha condotto il suo comportamento. Guardate dove può portare anche voi se non imparerete ad assoggettare i vostri desideri al bene dei Servi."
Le labbra della più piccola tremarono finché non si tappò la bocca con la mano. Uno si strinse le braccia intorno al corpo, ma gli altri due drizzarono la schiena e serrarono le labbra.
Una donna bellissima con i capelli biondo platino e la carnagione bianca come il latte si alzò da uno scranno. "Tinto!" L'impazienza dominava la sua voce. "Istruisci i tuoi adorati allievi più tardi. Costringi Amato a dire ancora quel nome." Si girò verso gli spettatori e si rivolse a una vecchia, seduta accanto a un uomo con un mantello giallo che strideva con il cerone pallido che gl'impiastricciava il viso. "Ascoltate! Il nome che ha custodito tanto a lungo, la prova di quanto io e Tinto sosteniamo da tempo. Il suo Catalizzatore è vivo, e cospirano ancora contro di noi. Il Figlio Inaspettato ci è stato tenuto nascosto. Amato non ci ha già procurato abbastanza problemi? Dovete mandare Dwalia nel mondo, per vendicare la sua signora e assicurarci la cattura del Figlio Inaspettato, che altrimenti segnerà la nostra fine! Più volte i sogni ci hanno messo in guardia contro di lui!"
Per tutta risposta, l'anziana donna si alzò e fulminò la giovane con un'occhiata. "Symphe, parli davanti a tutta questa gente di cose che riguardano soltanto i Quattro. Tieni a freno la lingua." Si sollevò l'orlo della veste celeste per evitare il sangue e abbandonò maestosa la sala delle torture.
L'uomo in giallo la seguì con lo sguardo, si alzò indeciso, poi si sedette di nuovo. Fece cenno a Symphe e all'aguzzino di procedere. E loro proseguirono.
Il nome di mio padre. Era quello che avevano fatto urlare alla creatura martoriata non una, ma più e più volte. E quando il nome di mio padre fu gridato per l'ultima volta e slegarono l'uomo svenuto, che cadde a terra e fu trascinato via dalle guardie, Vindeliar ricordava di aver gettato secchiate d'acqua sul pavimento e sul tavolo per poi sfregarli a fondo.
Non gl'importava della vittima. Era concentrato sul suo lavoro e sulla paura. Un piccolo brano di carne era rimasto appiccicato al pavimento. Lui lo grattò via con l'unghia del pollice e lo gettò nel secchio sporco. Sapeva che se avesse disobbedito agli ordini di Dwalia, avrebbe potuto essere il prossimo a imparare la lezione legato a quel tavolo. Persino adesso temeva che lo aspettasse quel supplizio. Lei non avrebbe esitato un secondo. Eppure Vindeliar non aveva la forza di fuggire o di ribellarsi. E in cuor mio sapevo che mio "fratello" non avrebbe rischiato la vita per salvarmi da quell'atroce destino.
Quel ricordo mi raggelò. La povera creatura sul tavolo aveva invocato il nome di mio padre e lo aveva implorato di andare a salvarlo. Mi mancavano troppi anelli per comporre una catena logica, ma fu l'istinto a suggerirmi il collegamento. Quello era il giorno in cui Dwalia aveva ottenuto il permesso di andare a Giuncheto. Il giorno in cui era stato deciso il mio destino. Adesso la guardavo come da un'enorme distanza.
E lo sventurato sul tavolo? Mi sembrava impossibile che fosse sopravvissuto. Non poteva essere il mendicante di Querceto d'Acqua. Non poteva essere il Matto di mio padre. Schegge affilate d'informazioni mi trafiggevano la mente. Dwalia aveva parlato di un padre che non conoscevo. Impossibile che le tessere del mosaico combaciassero… eppure la sua minaccia di poco prima lo confermava. Era quello il tavolo che mi aveva promesso.
Dwalia stava ancora prendendo a calci Vindeliar, ma ormai era stanca. A ogni calcio sbuffava e il sedere le ballonzolava. Quando lo ebbe ridotto a un mucchietto singhiozzante rintanato in un angolo, si girò verso di me. Provò a darmi un calcio, però avevo scelto bene il mio rifugio e non riuscì ad assestarmelo con la violenza che intendeva. Allora raccolse la brocca, ormai insanguinata, e me la scagliò addosso. Mi sfiorò appena, tuttavia io lanciai un grido convincente e mi affacciai terrorizzata da sotto il tavolo, alzando verso di lei il mio viso implorante e sporco di sangue. Con il mento tremante balbettai: "T-ti prego, Dwalia, basta. T-ti obbedirò. Vedi? Lavorerò sodo. Ma ti prego, non picchiarmi più".
Sgusciai sul pavimento trascinandomi dietro una gamba e, con la schiena curva, cominciai a saltellare per la cabina raccogliendo gli indumenti che aveva gettato all'aria. A ogni passo zoppicante, la supplicavo di perdonarmi e le promettevo pentimento e obbedienza. Lei mi fissava combattuta tra la diffidenza e il trionfo. Mi alzai in lacrime davanti al baule aperto, emanando verso di lei e Vindeliar ondate di paura e di dolore. Ispirata, vi aggiunsi anche un tocco di avvilimento e disperazione. A ogni indumento che raccoglievo dicevo: "Vedi quanto sono brava a ripiegarlo?" E singhiozzavo. "Posso esserti utile. Te lo assicuro. Ho imparato la lezione. Ti prego, non picchiarmi più. Ti scongiuro."
Non era facile e non sapevo se stesse funzionando. A ogni modo, Dwalia mi rivolse un ghigno soddisfatto e si abbandonò sul letto sfatto con un sonoro sospiro. Poi, con la coda dell'occhio scorse Vindeliar ancora rannicchiato sul pagliolato come una grossa larva singhiozzante. "Sparecchia e porta via quei piatti, ti ho detto!" gli abbaiò.
Lui rotolò su un fianco e si alzò a sedere, tirando su con il naso. Quando abbassò le mani dal volto tumefatto, io trasalii. Gli occhi avevano cominciato a gonfiarsi e aveva il mento coperto di sangue e saliva che gli colavano dalla bocca aperta. Mi lanciò un'occhiata infelice e io mi chiesi se avesse percepito il mio involontario moto di compassione. Rafforzai le barriere. Suppongo che se ne rese conto, perché corrugò la fronte e mi guardò adombrato. "Lo sta facendo anche adesso", biascicò avvilito con le labbra gonfie.
Dwalia si sollevò sui gomiti. "Ascolta bene, smidollato senza palle. Lei ha imparato la lezione. Vedi come abbassa la cresta e obbedisce? È tutto quello che le chiedo, al momento. E se è capace di usare la magia ed è disposta a fare tutto quello che voglio, mi dici tu a che cosa mi servi? Perciò farai meglio a renderti utile come lei." Mi guardò con un sorriso ammiccante che mi gelò il sangue nelle vene.
Lo sentii trarre un respiro denso di muco. Mi girai e vidi qualcosa di ancora più spaventoso del sorriso di Dwalia. I suoi occhietti furiosi traboccanti di gelosia.