Ape punge

 La sala della mappa di Aslevjal mostrava un territorio che comprendeva i Sei Ducati, un tratto del Regno delle Montagne, un'ampia parte del Chalced e le terre su entrambe le rive del fiume delle Giungle della Pioggia. Ho il sospetto che rappresenti i confini del vecchio territorio degli Antichi com'era all'epoca in cui la mappa fu realizzata. Non mi è stato possibile ispezionare di persona la sala della mappa situata nella città degli Antichi abbandonata, ora nota come Kelsingra, ma ritengo che sia molto simile.

 Sulla mappa di Aslevjal comparivano alcuni punti cospicui che corrispondono alle pietre erette all'interno dei Sei Ducati. Credo sia corretto dedurre che i punti identici disegnati nel Regno delle Montagne, nelle Giungle della Pioggia e persino nel Chalced indichino le pietre erette che sono portali d'Arte. Le condizioni di questi portali stranieri ci sono in gran parte ignote, e alcuni adepti d'Arte si raccomandano di non usarli fintanto che non ci rechiamo di persona sul posto per verificarne lo stato. Per quanto riguarda le pietre nei Sei Ducati e nel Regno delle Montagne, sarebbe prudente non solo inviare corrieri d'Arte per esaminare ogni sito, ma anche chiedere a ogni duca di controllare che le pietre siano mantenute erette. I corrieri che ispezionano ogni portale dovrebbero altresì documentare significato e condizioni delle rune incise su ciascuna faccia del pilastro.

 In alcuni casi abbiamo scoperto pietre che non corrispondono a nessuno dei punti segnati sulla mappa di Aslevjal. Non sappiamo se siano state erette dopo la realizzazione della mappa o se siano portali che non funzionano più. È necessario continuare a usare cautela, come per ogni altro aspetto della magia degli Antichi. Non possiamo considerarci degli esperti in materia finché non saremo in grado di replicarne i manufatti.

 Portali d'Arte, Umbra Stella d'Autunno

 MI misi a correre. Sollevai l'orlo della pesante pelliccia bianca che indossavo e corsi. Avevo già fin troppo caldo e la pelliccia s'impigliava in ogni ramo e tronco che incontravo. Alle mie spalle Dwalia stava gridando: "Prendiamola, prendiamola!" Udii il chalcediano emettere quei versi terribili simili a muggiti. Caracollava impazzito, e una volta mi passò così vicino che dovetti saltare di lato per evitarlo.

 I miei pensieri filavano più veloci dei miei piedi. Ricordavo di essere stata trascinata dai miei aguzzini in un pilastro d'Arte. Ricordavo persino di aver morso la mano del chalcediano nella speranza che lasciasse andare Sciò. Così aveva fatto, però non aveva mollato la presa su di me e ci aveva seguiti nelle tenebre del pilastro d'Arte. Non avevo più visto Sciò, né la Serva che chiudeva la fila. Forse erano rimaste dall'altra parte. Mi augurai che Sciò riuscisse a scappare. O forse era già fuggita? Quando eravamo entrati nel pilastro, il rigido inverno del Cervo ci stringeva nella sua morsa, ma adesso eravamo da qualche altra parte, dove il gelo era stato sostituito da un'aria tersa e frizzante. La neve si era ritirata in piccole chiazze bianco sporco all'ombra degli alberi. La foresta sapeva di primavera, ma sui rami non era ancora spuntata neanche una foglia. Com'era possibile saltare dall'inverno di un luogo alla primavera di un altro? C'era qualcosa di strano, ma non avevo tempo di rifletterci su. La mia preoccupazione più immediata era un'altra: come ci si eclissava in una foresta senza foglie? Sapevo di non poter seminare i miei inseguitori. Dovevo nascondermi.

 Detestavo la pelliccia con tutte le mie forze. Non potevo fermarmi a sfilarmela perché mi sentivo le dita goffe come pinne di pesce, ma non sarei stata nemmeno in grado di nascondermi con quell'enorme cappotto peloso addosso. Perciò continuai a correre, consapevole di non poter sfuggire ai miei carcerieri, ma troppo spaventata per lasciare che mi prendessero.

 Scegli un posto per difenderti. Dove non possano metterti in un angolo, ma nemmeno accerchiarti. Trova un'arma, un ramo, un sasso, qualsiasi cosa. Se non puoi fuggire, almeno vendi cara la pelle. Combatti come meglio puoi.

 Sì, Padre Lupo. Pronunciai il suo nome nella mia mente per farmi coraggio. Rammentai a me stessa che ero figlia di un lupo; sebbene le mie zanne e i miei artigli fossero poca cosa, avrei combattuto.

 Eppure ero già sfinita. Come avrei fatto?

 Non riuscivo a capire l'effetto che il passaggio nella pietra aveva avuto su di me. Perché mi sentivo così debole e stanca? Avrei voluto accasciarmi lì dov'ero e restare immobile. Avrei voluto abbandonarmi al sonno, ma non osavo. Sentivo che si chiamavano tra loro, e gridavano e indicavano nella mia direzione. Era ora di smettere di correre e di opporre resistenza. Scelsi il posto adatto. Un gruppetto di tre alberi, i tronchi talmente ravvicinati da fornirmi un facile riparo, dato che nessuno dei miei inseguitori sarebbe riuscito a infilarcisi dentro. Udii almeno tre persone che si facevano largo tra i cespugli alle mie spalle. Quanti erano? Mi sforzai di recuperare un minimo di calma per pensare. Dwalia, il capo: la donna che mi aveva rivolto i suoi sorrisi gentili mentre mi rapivano da casa. Era stata lei a portarci nel pilastro d'Arte. E Vindeliar, il ragazzo-uomo capace di far dimenticare alle persone ciò che avevano vissuto; anche lui era passato attraverso la pietra. Kerf era il mercenario chalcediano, ma la sua mente era rimasta talmente sconvolta dal viaggio d'Arte che non avrebbe rappresentato un pericolo per nessuno… oppure avrebbe potuto ucciderci tutti. Chi altro? Alaria, che obbediva senza discussioni agli ordini di Dwalia, e Spilla, che mi aveva stritolato la mano nel trascinarmi nel pilastro. Erano un gruppo ridotto rispetto a quello con cui Dwalia aveva cominciato, pur tuttavia la loro superiorità numerica era sempre di cinque a uno.

 Mi accovacciai dietro uno degli alberi; tirai fuori le braccia dalle maniche della pelliccia e, dopo qualche faticoso contorcimento, riuscii a sfilarmela. La raccolsi e la lanciai il più lontano possibile. Ossia non molto. Dovevo rimettermi a correre? Sapevo di non farcela. Avevo lo stomaco sottosopra e una fitta dolorosa al fianco. Non avrei potuto continuare oltre.

 Un'arma. Non c'era niente. Soltanto un ramo spezzato. La parte più grossa non era più larga del mio polso, mentre l'altra estremità si suddivideva in tre rametti più piccoli. Ridicolo come arma, più un rastrello che un bastone. Lo raccolsi; poi appoggiai la schiena a uno dei tronchi, nella vana speranza che i miei inseguitori vedessero la pelliccia e proseguissero, mentre io sarei tornata indietro in cerca di un nascondiglio migliore.

 Stavano arrivando. Dwalia gridava affannata: "Lo so che sei spaventata, ma non scappare. Morirai di fame senza di noi. Verrai divorata da un orso. Hai bisogno di noi per sopravvivere. Torna indietro, Ape. Nessuno si arrabbierà con te". Poi udii la menzogna quando rivolse la sua collera contro i propri seguaci. "Dov'è? Alaria, stupida, alzati! Nessuno di noi si sente bene, ma senza di lei non possiamo tornare a casa!" Infine lasciò che la furia prendesse il sopravvento. "Ape! Non fare la sciocca! Vieni qui subito! Vindeliar, sbrigati! Se io ce la faccio a correre, ci riesci anche tu! Trovala, annebbiala!"

 Rintanata dietro l'albero, sforzandomi di tenere a bada gli ansiti terrorizzati, percepii il tentativo di Vindeliar di raggiungermi. Innalzai le barriere mentali con tutta la forza che mi restava, come mi aveva insegnato mio padre. Strinsi i denti e mi morsi il labbro per bloccarlo, mentre lui evocava per me ricordi di pietanze calde e dolci, di minestre saporite, di pane fresco e fragrante. Tutte cose che desideravo tanto, ma se ci avessi pensato anche solo un istante lui avrebbe trovato il modo di entrare. No. Carne cruda. Carne congelata sulle ossa, da dilaniare con i molari. Topi con ancora il pelo addosso e piccoli crani croccanti. Cibo da lupi.

 Cibo da lupi. Strano, ma mi sembrava delizioso. Strinsi il ramo con tutte e due le mani, in attesa. Dovevo continuare a nascondermi e sperare che mi oltrepassassero? Oppure uscire allo scoperto e colpire per prima?

 Non ebbi l'opportunità di scegliere. Scorsi Alaria arrancare inciampando oltre il mio nascondiglio, a qualche albero di distanza. Poi si fermò di colpo, guardò con occhi vacui la pelliccia bianca a terra e quando si girò a chiamare gli altri, mi vide. "È qui! L'ho trovata!" Mi indicò con una mano tremante. Divaricai i piedi per calibrare il peso, assunsi la posizione da combattimento come quando mi allenavo con mio padre e aspettai. Lei mi fissò a bocca aperta, quindi si accasciò esausta tra le folte pieghe della sua pelliccia bianca, senza fare alcuno sforzo per rialzarsi. "L'ho trovata", biascicò con voce debole, e agitò una mano inerte verso di me.

 Udii dei passi alla mia sinistra. "Attenta!" gracchiò Alaria, ma era troppo tardi. Roteai il ramo con tutte le forze e colpii Dwalia in pieno viso, poi saltai a destra tra gli alberi. Appoggiai la schiena a un tronco e ripresi la posizione, con il ramo pronto. Dwalia stava urlando; m'imposi di non sbirciare per vedere se l'avevo ferita. Forse ero stata abbastanza fortunata da averle cavato un occhio. Ma intanto Vindeliar si stava avvicinando, con il suo stolido sorriso stampato sul volto. "Fratello! Eccoti finalmente! Sei salvo. Ti abbiamo trovato."

 "Non ti muovere o ti colpisco!" lo minacciai. In fondo, però, non volevo. Era un semplice strumento del mio nemico, ma dubitavo che, lasciato a se stesso, fosse davvero cattivo. Non che la mancanza di cattiveria gli avrebbe impedito di farmi del male.

 "Fratello!" mi chiamò, pronunciando la parola con una certa tristezza. Era un rimprovero, ma gentile. Mi resi conto che stava irradiando dolcezza e affetto. Amicizia e conforto.

 No. Nessuno di quei sentimenti era autentico. "Sta' indietro!" gli intimai.

 Il chalcediano ululante correva a balzelloni e, non so dire se apposta o per caso, per un pelo non travolse il giovane. Vindeliar provò a schivarlo, ma inciampò e cadde a faccia in giù con un gemito, proprio mentre Dwalia aggirava i tronchi del mio rifugio. Aveva le mani tese come artigli, le labbra arricciate sui denti insanguinati, quasi volesse serrarmi tra le fauci. Brandii il ramo con entrambe le mani e la colpii con l'intenzione di staccarle la testa dal collo; invece il ramo si spezzò e la parte frastagliata le ferì il volto arrossato. Si avventò su di me, e io sentii che le sue unghie mi affondavano nella carne attraverso il tessuto logoro. Mi strappai letteralmente dalla sua stretta: in mano le rimase una parte della mia manica, mentre sgusciavo fra i tronchi.

 Dall'altra parte mi aspettava Spilla. I suoi occhi grigio pesce incontrarono i miei. L'odio lasciò il posto a un'esultanza feroce quando mi balzò addosso. Io scartai di lato e lei finì per abbracciare l'albero. Sbatté la faccia contro la corteccia, ma si dimostrò più sveglia di quanto mi aspettassi. Tentò di agganciarmi un piede con il suo; io saltai per scavalcarlo, però inciampai sul terreno accidentato. Nel frattempo Alaria si era tirata su e, con un urlo belluino, si scagliò su di me. Il suo peso mi scaraventò a terra, ma prima che riuscissi a divincolarmi, sentii qualcuno bloccarmi la caviglia con un piede. Strinsi i denti, poi gridai quando la pressione aumentò. Le ossa stavano cedendo, minacciando di spezzarsi da un momento all'altro. Mi liberai di Alaria con uno spintone, però un attimo dopo Spilla mi sferrò un calcio in un fianco, senza togliere l'altro piede dalla mia caviglia.

 Il calcio mi lasciò senza fiato e, mio malgrado, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Provai a divincolarmi per un istante, poi mi raggomitolai intorno alle sue gambe nel tentativo di farle perdere l'equilibrio; lei mi afferrò i capelli e mi scrollò la testa con violenza. Mi strappò una ciocca e mi si annebbiò la vista.

 "Colpiscila." La voce di Dwalia. Traboccante di una vibrante emozione. Rabbia? Dolore? "Con questo."

 Commisi l'errore di alzare lo sguardo. La prima bastonata di Spilla con il mio ramo spezzato mi centrò la guancia, tra la mascella e l'orecchio, massacrandomi il lato della faccia. Udii un acuto tintinnio e il mio stesso grido. Ero scioccata, offesa, umiliata, e in preda a un dolore invalidante. Tentai di sottrarmi, ma lei mi stringeva ancora i capelli. Il ramo calò di nuovo, tra le scapole, mentre mi dibattevo. Non avevo abbastanza carne sulle ossa, e la tunica non mi forniva alcuna protezione: il dolore della bastonata fu subito seguito da quello della pelle lacerata. Urlai come un'ossessa e mi contorsi per afferrarle il polso e liberarmi della mano che mi tirava i capelli. Lei esercitò una pressione maggiore sulla mia caviglia, che non si spezzò soltanto grazie al morbido strato di humus della foresta. Strillai e cercai di respingerla.

 Il ramo si abbatté ancora su di me, sulla schiena, e all'improvviso capii come le costole si congiungevano alla spina dorsale e ai due fasci di muscoli che correvano lungo la colonna, perché tutti gridavano di dolore.

 Era accaduto tutto molto in fretta, eppure ogni bastonata era stata un evento singolo della mia vita, qualcosa da ricordare per sempre. Non ero mai stata picchiata da mio padre; le rarissime occasioni in cui mia madre mi aveva impartito una lezione di disciplina, al massimo mi aveva rifilato un leggero scappellotto o un buffetto sulla mano, e sempre per avvertirmi di un pericolo, per evitare che toccassi il parascintille o il bollitore sul fornello. Mi era capitato di litigare con i bambini di Giuncheto. Ero stata bersagliata di pigne o di ciottoli, e una volta ero rimasta coinvolta in una baruffa dove le avevo prese di santa ragione… ma non ero mai stata colpita da un adulto. Non ero mai stata trattenuta mentre qualcuno cercava di procurarmi il massimo del dolore, senza pensare alle conseguenze. All'improvviso realizzai che se mi avesse fatto saltare i denti o cavato un occhio, a nessuno sarebbe importato un fico secco, tranne che a me.

 Smettila di avere paura. Smettila di sentire il dolore. Combatti! Padre Lupo era al mio fianco, con le zanne snudate e i peli del dorso rizzati.

 Non posso! Spilla mi ucciderà!

 Reagisci. Mordila, graffiala, prendila a calci! Puniscila per il dolore che ti sta infliggendo. Continuerà a picchiarti in ogni caso, perciò strappale più carne che puoi. Cerca di ucciderla.

 Ma…

 Combatti!

 Smisi di divincolarmi per liberare i capelli. Invece, mentre il ramo mi calava per l'ennesima volta sulla schiena, mi avventai su di lei, le afferrai la mano che impugnava il bastone e me la portai alla bocca. Spalancai la mascella più che potevo e la richiusi di scatto. Non la morsi per ferirla, né per lasciarle i segni dei denti, né per farla urlare di dolore. La morsi affondando i denti fino all'osso, per strapparle un brandello di carne e tendini. Non mollai la presa mentre lei strillava e agitava il ramo per colpirmi; anzi, le dilaniai la carne del polso scuotendo la testa da una parte e dall'altra. Alla fine mi lasciò i capelli, abbandonò il bastone e cominciò a saltellare ululando di dolore e di paura; ma io continuavo a serrarle il polso, con i denti e con le mani, e la presi a calci sugli stinchi, sui piedi e sulle ginocchia, mentre lei mi trascinava dietro. Strinsi la mascella, cercando di unire i molari, e mi appesi a corpo morto al suo braccio.

 Spilla ruggiva e si dibatteva; priva del bastone, il suo unico scopo ormai era quello di liberarsi. Non era una donna robusta; anzi, aveva una corporatura minuta e io serrai fra i denti un brano di carne magra e muscolo flaccido del suo avambraccio. Lo masticai e lei strillò. "Lasciami! Lasciami!" Mi premette una mano sulla fronte per allontanarmi, con l'unico risultato di aiutarmi a strapparle la carne dall'osso. Mi mollò un ceffone, debole. Io strinsi mani e denti più forte. La donna cadde a terra, con me sempre attaccata al braccio.

 Attenta! mi avvertì Padre Lupo. Salta via!

 Ma io ero una cucciola e non vidi il pericolo; sapevo soltanto di aver ridotto il mio nemico all'impotenza. Poi Dwalia mi sferrò un calcio così forte da farmi spalancare la bocca. Lasciai il polso di Spilla e mi accasciai sul terreno umido; senza fiato nei polmoni, mi limitai a rotolare di fianco invece di balzare in piedi e mettermi a correre. Dwalia continuò ad accanirsi su di me, con una gragnuola di calci al ventre, alla schiena… poi vidi il suo stivale mirare al mio viso.

 Quando mi svegliai, era buio e faceva freddo. Erano riusciti ad accendere un fuoco, ma la sua luce mi sfiorava appena. Giacevo su un fianco, con le spalle al falò, mani e piedi legati. In bocca sentivo il sapore del sangue, denso e fresco. Mi ero fatta la pipì addosso e avvertivo il freddo dei pantaloni bagnati sulle gambe. Mi chiesi se fosse stato il dolore delle percosse a farmela fare sotto o la paura. Non ricordavo. Mi svegliai piangendo, o forse mi ero messa a piangere dopo essermi svegliata. Mi faceva male dappertutto. Avevo la faccia gonfia dal lato che Spilla aveva colpito con il ramo. Probabilmente mi era uscito del sangue, perché avevo qualche foglia morta incollata alla pelle. Mi doleva la schiena e, a ogni respiro, provavo una fitta lancinante alle costole.

 Ce la fai a muovere le dita? Riesci a sentirti i piedi?

 Sì, ci riuscivo.

 La pancia ti fa male come se avessi un brutto livido o qualche organo leso?

 Non lo so. Non ho mai provato niente di simile prima d'ora. Trassi un respiro profondo e il dolore mi costrinse a espirare con un singhiozzo.

 Ssh. Non fare rumore, altrimenti si accorgeranno che sei sveglia. Ce la fai ad avvicinarti le mani alla bocca?

 Per fortuna mi avevano legato i polsi davanti e non dietro la schiena. Mi portai le mani al viso; erano strette da strisce di tessuto strappate dalla camicia. Ecco uno dei motivi per cui avevo tanto freddo. Per giunta, di giorno la primavera si era fatta sentire, ma la notte l'inverno reclamava ancora la foresta.

 Rosicchia la stoffa e liberati le mani.

 Non posso. Avevo le labbra spaccate e sanguinanti. Mi facevano male i denti e le gengive.

 Sì che puoi. Perché devi. Liberati le mani e poi sciogliti i piedi, così potremo fuggire. Ti indicherò io dove andare. C'è qualcuno che ci aiuterà non lontano da qui. Se riuscirò a svegliarlo, ti proteggerà lui. Altrimenti, ti insegnerò a cacciare. Un tempo, io e tuo padre vivevamo su queste montagne. Forse il rifugio che costruì per noi c'è ancora. Andremo là.

 Non sapevo che fossimo sulle montagne. Hai vissuto qui con mio padre?

 Sì. Sono già stato da queste parti. Ora basta. Comincia a rosicchiare.

 Sentii male al collo quando lo piegai per raggiungere i legacci intorno ai polsi. Sentii male ai denti quando li strinsi per mordere il tessuto. Era stata una bella camicia la mattina che l'avevo indossata per andare a lezione da mastro Lante. Una delle cameriere, Prudenza, mi aveva aiutata a vestirmi. Aveva scelto per me quella blusa giallo chiaro e sopra mi aveva fatto infilare una tunica verde. I colori della mia casata, mi resi conto all'improvviso. Mi aveva vestita con i colori di Giuncheto, anche se la tunica mi andava larga e mi pendeva addosso come un vestito, arrivandomi oltre le ginocchia. Quel giorno portavo le braghe aderenti, non i pantaloni imbottiti che i miei aguzzini mi avevano costretta a indossare. I pantaloni bagnati. Mi risalì un altro singhiozzo, che mi sfuggì dalle labbra prima di poterlo frenare.

 "…sveglia?" domandò qualcuno davanti al falò. Alaria, pensai.

 "Lasciala dove sta!" ribatté aspra Dwalia.

 "Ma mio fratello è ferito! Percepisco il suo dolore!" Era la voce bassa e affranta di Vindeliar.

 "Tuo fratello!" Le parole di Dwalia trasudavano veleno. "Dovevo immaginarlo che uno zotico asessuato come te non sarebbe stato in grado di distinguere il Figlio Inaspettato da una bastarda Bianca! Se penso a tutto il denaro che abbiamo speso, a tutti i lurik che ho perso… e non abbiamo che questa ragazzina da mostrare. Stupidi e ignoranti, tutti e due. Tu pensi che lei sia un maschio, e lei non sa che cos'è. Non è nemmeno capace di scrivere o ricordare i propri sogni." Una strana esultanza le venò la voce. "Però io so che è speciale." Poi la fugace soddisfazione fu sostituita da un ringhio sprezzate. "Dubitate pure di me. Non m'importa. Ma la vostra unica speranza è che ci sia effettivamente qualcosa di speciale in lei, perché è l'unica moneta che abbiamo per ricomprarci i favori dei Quattro!" E con tono più basso, aggiunse: "Ah, quanto godrà Coltro del mio fallimento. E quella vecchia strega di Capra lo userà come pretesto per ottenere tutto ciò che vuole".

 Alaria intervenne in tono sommesso. "Se la ragazzina è tutto ciò che abbiamo, forse dovremmo cercare di consegnarla in buone condizioni."

 "E forse se tu l'avessi acciuffata invece di accasciarti a terra e lamentarti come una poppante, tutto questo non sarebbe accaduto!"

 "Lo sentite?" bisbigliò Spilla terrorizzata. "Lo sentite? Qualcuno è appena scoppiato a ridere. E adesso… lo sentite il suono dei flauti?"

 "Ti ha dato di volta il cervello e soltanto perché una mocciosa ti ha morso. Tieni per te i tuoi vaneggiamenti."

 "Riesco a vedermi l'osso! Ho il braccio gonfio. Il dolore mi martella come un tamburo!"

 Seguì una pausa durante la quale riuscii a udire il crepitio del falò. Resta immobile, mi ammonì Padre Lupo. Ascolta e impara tutto quello che puoi. Poi, con una punta di orgoglio, aggiunse: Vedi? Persino con i tuoi dentini smussati le hai insegnato a temerti. Devi insegnarlo a tutti loro. Anche la vecchia cagna sa di dover essere prudente. Ma è necessario scavare più a fondo. Soltanto tre cose devi pensare: Fuggirò. Li costringerò a temermi. E se ne avrò l'occasione, li ucciderò.

 Ma se mi hanno picchiata a sangue solo per aver tentato di fuggire! Che cosa mi farebbero se ne uccidessi uno?

 Ti picchieranno ancora, a meno che tu non riesca a scappare. Però hai sentito, per loro sei preziosa. Probabilmente non ti uccideranno.

 Probabilmente? Fui pervasa da un profondo terrore. Io voglio vivere. Anche da prigioniera, io voglio vivere.

 Tu pensi che sia così, ma ti assicuro di no. La morte è preferibile al tipo di prigionia che hanno in mente per te. Io sono stato prigioniero, un giocattolo nelle mani di uomini senza cuore. Ho insegnato loro a temermi. Ecco perché cercarono di vendermi. Ecco perché tuo padre poté comprare la mia libertà.

 Non conosco questa storia.

 È una storia triste e oscura.

 Il pensiero è veloce. Questo scambio di frasi intercorse fra me e Padre Lupo nella breve pausa della conversazione della gente pallida. All'improvviso risuonò un grido nel buio. Mi raggelai e ripresi a rodere la stoffa con maggior lena. Non che facessi chissà quali progressi. Udii ancora una serie di parole farfugliate e riconobbi la lingua chalcediana. Doveva essere Kerf, il mercenario che Vindeliar aveva stregato affinché obbedisse agli ordini di Dwalia. Mi chiesi se la sua mente fosse ancora sconvolta per il passaggio nel pilastro, se la sua mano fosse ancora gonfia per il mio morso. Sforzandomi di non fare il minimo rumore, mi spostai per sbirciare nell'oscurità. Kerf stava indicando uno degli antichi pilastri di pietra ai margini della radura.

 Spilla strillò. "Vedete? Vedete? Non sono impazzita! Anche Kerf lo vede! Un pallido spettro appollaiato su quel pilastro. Non potete non vederlo! Non è una Bianca? Eppure i suoi abiti sono strani e intona un motivetto allegro!"

 "Io non vedo niente!" ribatté Dwalia infuriata.

 Vindeliar azzardò un timido intervento. "Io sì. Ci sono echi di gente di un lontano passato. Un tempo qui si teneva un mercato. Ma adesso, con l'approssimarsi della notte, una cantante Bianca intrattiene il pubblico."

 "Io sento… qualcosa", confermò Alaria riluttante. "E… quando ho attraversato la pietra, qualcuno mi ha parlato. Hanno detto cose orribili." Trasse un piccolo respiro strozzato. "E dopo che oggi pomeriggio mi sono addormentata, ho fatto un sogno. Un sogno molto vivido, che devo raccontare. Abbiamo perso i nostri diari dei sogni mentre fuggivamo dai chalcediani. Non posso annotarlo, per questo devo raccontarlo."

 Dwalia fece un verso sprezzante. "Come se i tuoi sogni fossero mai stati utili. A ogni modo, forza, parla."

 Invece intervenne Spilla, cominciando a parlare fitto fitto, come se non vedesse l'ora di vuotare il sacco. "Io ho sognato una noce in un fiume tumultuoso. Ho visto qualcuno tirarla fuori dall'acqua, posarla a terra e colpirla forte per cercare di romperla. Invece la noce diventava più dura e spessa. Poi qualcuno è riuscito a schiacciarla. E ne sono uscite fiamme, tenebre, grida e un fetore nauseabondo. Le fiamme hanno scritto le parole: ‘Arriva il Distruttore che avete creato!' E infine si è levato un forte vento che ha spazzato Clerres e ci ha sparpagliati ovunque."

 "Arriva il Distruttore!" ripeté allegro il chalcediano nel buio.

 "Sta' zitto!" abbaiò Dwalia e lui ridacchiò. "E chiudi il becco anche tu, Spilla. Non è un sogno che vale la pena di condividere. È soltanto la febbre che ti fa bollire il cervello. Siete dei bimbetti codardi! Create ombre e spettri con la mente. Alaria, Spilla, andate a raccogliere altra legna; ci serve una buona scorta per la notte. Poi date un'occhiata a quella piccola bastarda. E non voglio più sentire una sola parola di queste sciocchezze."

 Udii i passi strascicati di Alaria e Spilla che si addentravano nella foresta. Mi parve che camminassero adagio, come se avessero paura del buio. Dal canto suo, Kerf levò le mani al cielo e iniziò una buffa danza intorno al pilastro. Attenta al potere di Vindeliar, abbassai le mie barriere con cautela. Il ronzio sommesso che avevo sentito divenne un coro di voci, e vidi gli Antichi con indosso abiti sgargianti. I loro occhi scintillavano, i loro capelli rilucevano d'oro e d'argento, e danzavano intorno a Kerf al canto della pallida donna appollaiata sul pilastro.

 Dwalia scoccò un'occhiata insofferente al chalcediano. "Perché non riesci a controllarlo?" chiese a Vindeliar.

 Lui fece un gesto vago con la mano. "Sente troppe voci. Sono numerose e potenti. Ridono, cantano, festeggiano."

 "Io non sento niente!" esclamò Dwalia arrabbiata, ma dal tono trapelava anche una certa paura. "Sei un essere inutile. Non riesci a controllare uno scricciolo di ragazzina e adesso nemmeno un mentecatto. Riponevo tante speranze in te quando ti ho scelto. Quando ti ho dato quella pozione. Che spreco! Gli altri avevano ragione. Non hai sogni e non vedi niente. Sei inutile!"

 Percepii un flebile tentacolo della coscienza di Vindeliar serpeggiare verso di me. La sua tristezza mi lambì come un'onda. Richiusi le barriere di colpo e mi sforzai d'ignorare che si sentiva offeso e in pensiero per me. Il suo terrore di Dwalia, mi dissi risoluta, era troppo grande per offrirmi un qualche tipo di aiuto o conforto. A che cosa serve un amico se non vuole correre rischi per te?

 È tuo nemico così come il resto di loro. Se ti si presenta l'occasione, devi ucciderlo, proprio come faresti con gli altri. Se qualcuno viene a toccarti, devi mordere, scalciare, graffiare.

 Mi fa male tutto. Non ho forza. Se provo a difendermi, mi picchieranno.

 Basta poco. L'importante è che capiscano che toccarti ha un prezzo. Che nessuno ha voglia di pagare.

 Non credo di poter mordere o uccidere Vindeliar. Dwalia sì. Ma gli altri…

 Sono strumenti nelle sue mani, i suoi denti, i suoi artigli. Nella tua posizione, non puoi permetterti clemenza. Continua a rosicchiare la stoffa. Ti racconterò dei miei giorni di prigionia. Chiuso in una gabbia. Maltrattato. Costretto a combattere contro cani e orsi nelle mie stesse miserabili condizioni. Affamato. Apri la mente alla mia storia di quando ero schiavo e di come io e tuo padre riuscimmo a spezzare le catene della prigionia. Allora capirai perché devi uccidere quando ne hai l'occasione.

 E cominciò, non proprio a raccontare, quanto piuttosto a condividere i suoi ricordi. Era come rammentare cose che avevo sempre saputo, ma in vividi dettagli. Non mi risparmiò i ricordi della famiglia uccisa, delle percosse, delle privazioni, della gabbia stretta e fredda. Non attenuò l'odio per i suoi aguzzini, né quello che al principio aveva provato per mio padre, malgrado lo avesse liberato. All'epoca l'odio era la sua abitudine, e l'odio lo aveva sfamato e tenuto in vita quando non aveva altro.

 Non ero arrivata nemmeno a metà dello spessore dei legacci che mi serravano i polsi, quando Dwalia mandò Alaria a prendermi per portarmi davanti al fuoco. Finsi di essere svenuta finché non mi si accovacciò accanto e mi mise una mano sulla spalla. "Ape?"

 Mi voltai di scatto e la morsi. Le strinsi la mano tra i denti, ma appena per un secondo. La bocca mi faceva troppo male e lei riuscì a sottrarsi con uno strillo, facendo un salto indietro. "Mi ha morso!" gridò agli altri. "La bastarda mi ha morso!"

 "Dalle un calcio!" le ordinò Dwalia. Alaria mi minacciò con la punta dello stivale, ma Padre Lupo aveva ragione. La lurik aveva paura ad avvicinarsi. Rotolai sulla schiena e, nonostante le grida di dolore del mio corpo martoriato, riuscii ad alzarmi a sedere. La incenerii con lo sguardo del mio unico occhio sano e arricciai le labbra spaccate per snudare i denti. Non sapevo quanto riuscisse a vedere nella tremula luce del falò, ma a ogni buon conto non osò toccarmi.

 "È sveglia", disse agli altri, come se avessi potuto morderla nel sonno.

 "Trascinala qui."

 "Mi morderà di nuovo!"

 Dwalia si alzò. Si muoveva a fatica. Io rimasi immobile, pronta a evitare i suoi calci o ad attaccarla a morsi, se ne avessi avuta l'occasione. Mi rallegrai nel vedere che le avevo fatto gli occhi neri e procurato un profondo squarcio nella guancia. "Sentimi bene, mocciosa", mi ringhiò, "puoi evitare altre batoste, ma soltanto se mi obbedisci. Intesi?"

 Sta contrattando. Questo significa che ti teme.

 La fissai senza dire una parola, impassibile. Lei si chinò più vicina e allungò una mano verso il davanti della mia camicia. Snudai i denti senza emettere un suono e lei la ritrasse. Parlò come se avessi acconsentito. "Alaria ti libererà le caviglie. Ti porteremo accanto al fuoco. Se provi a scappare, ti giuro che ti azzoppo!" Non aspettò la mia risposta. "Alaria, taglia i legacci."

 Spinsi i piedi verso di lei. Notai che Alaria aveva un bel coltello da cintura. Chissà se avrei trovato il modo d'impossessarmene, mi chiesi. Cominciò a tagliare, muovendo la lama senza tanti riguardi. Mi fece male. Quando alla fine la stoffa si lacerò, scalciai per liberare i piedi, poi avvertii uno sgradevole formicolio bruciante mentre riprendeva la circolazione. Dwalia voleva forse indurmi a fuggire, per avere una scusa per picchiarmi ancora?

 Non ancora. Recupera le forze. Mostrati più debole di quanto sei.

 "Alzati e cammina!" mi ordinò Dwalia. E si allontanò tronfia, quasi a volermi dimostrare che era sicura della mia obbedienza.

 Le lasciai credere che mi fossi arresa. Avrei escogitato un sistema per fuggire, tuttavia il lupo aveva ragione. Non ancora. Mi alzai, ma molto adagio, prendendo tempo per recuperare l'equilibrio. Cercai di drizzare la schiena anche se avevo la pancia piena di coltelli roventi. I suoi calci mi dovevano aver rotto qualcosa all'interno. Mi chiesi quanto ci avrei messo a guarire.

 Vindeliar aveva osato avvicinarsi. "Oh, fratello mio", gemette, rattristato alla vista del mio volto tumefatto. Lo fissai e lui distolse lo sguardo. Cercai di assumere un'aria di sfida invece che di sofferenza mentre mi avviavo verso il falò.

 Era la mia prima vera occasione di studiare l'ambiente circostante. Il pilastro ci aveva condotti in una specie di conca aperta nel cuore di una foresta. Ampie lingue di neve indugiavano ancora sotto gli alberi, ma erano misteriosamente assenti nello spiazzo e sulle strade che da là si diramavano. Gli alberi crescevano fitti lungo quelle strade, e in alcuni tratti i loro rami s'intrecciavano a formare quasi una galleria, ma sul terreno non c'erano foglie, né frammenti di corteccia, e tanto meno neve. Possibile che nessuno si fosse accorto della singolarità di quel luogo? Conifere dai rami bassi e pesanti circondavano la conca dove i seguaci di Dwalia avevano acceso il fuoco. No. Non era una conca naturale. Strusciai il piede su quella che sembrava una pietra da lastrico. Lo spiazzo era in parte cinto da un muretto basso di pietra lavorata, intervallato da diversi pilastri. Scorsi qualcosa a terra. Sembrava un guanto, e pareva che avesse trascorso gran parte dell'inverno sotto la neve. Più avanti intravidi un lembo di cuoio, forse un pezzo di cinghia. E infine un cappello di lana.

 Nonostante i dolori, mi chinai con cautela per raccoglierlo, simulando un crampo alla pancia. Le lurik accovacciate intorno al falò fingevano di non osservarmi, come gatti acquattati davanti alla tana di un topo. Il cappello era umido, ma persino la lana umida è calda. Tentai di scrollarlo per liberarlo dagli aghi di abete, ma le braccia mi facevano troppo male. Mi domandai se qualcuno si fosse preso la briga di riportare la mia pelliccia al campo. Ora che mi ero alzata e mi stavo muovendo, il freddo della notte primaverile mi ricordò ogni percossa che avevo ricevuto e insinuò le sue dita gelide negli squarci della camicia, sfiorandomi la pelle.

 Ignoralo. Non pensare al freddo. Usa gli altri sensi.

 Non riuscivo a scorgere niente oltre il tremulo cono di luce del falò. Inspirai a fondo con il naso. L'umidità del terreno portò con sé odori ricchi e intensi: terra scura, aghi di abete e… caprifoglio.

 Caprifoglio? In quel periodo dell'anno?

 Espira con la bocca e inspira lentamente con il naso, mi suggerì Padre Lupo.

 Seguii il suo consiglio. Girai piano la testa sul collo rigido per fiutare la scia. Eccolo. Un pallido cilindretto affusolato, semicoperto da un lembo di tela grezza. Provai a chinarmi, ma le ginocchia mi cedettero e per poco non caddi a faccia in giù. Nonostante le mani legate, riuscii a raccogliere la candela. Era spezzata, tenuta insieme soltanto dallo stoppino, ma la riconobbi. Me la portai al naso e aspirai la fragranza del lavoro di mia madre. "Com'è possibile?" mormorai alla notte. Studiai l'anonimo pezzo di tela. Accanto c'era un guanto femminile di pizzo, bagnato e ammuffito. Non conoscevo né la tela né il guanto, ma la candela sì. Possibile che mi sbagliassi? Quali altre mani avrebbero potuto raccogliere la cera d'api e profumarla con boccioli di caprifoglio? Quali altre mani avrebbero intinto con pazienza i lunghi stoppini nel vaso colmo di cera fino a plasmare quell'elegante cilindro affusolato? No. Quella era opera di mia madre. E chissà, forse l'avevo addirittura aiutata a fabbricarla. Com'era arrivata fin là?

 Tuo padre è stato qui.

 Possibile?

 È la risposta più plausibile che riesco a darti.

 La candela si piegò in due quando me la infilai nella camicia. Avvertii il freddo della cera sulla pelle. Era mia. Udii Vindeliar avvicinarsi. Con la coda dell'occhio scorsi Dwalia allungare le mani sul fuoco per riscaldarsi. Mi voltai per scrutare tutti con l'occhio sano. Spilla aveva la mia pelliccia; l'aveva ripiegata e ci si era seduta sopra a mo' di cuscino, accanto ad Alaria. Quando si accorse che la osservavo, mi rivolse un ghigno malevolo. Le fissai il braccio, poi sollevai lo sguardo e le sorrisi. La mano era gonfia come un otre, con le dita grosse come salsicce. Tra le dita e le pieghe delle nocche c'era sangue rappreso. Possibile che non avesse avuto il buonsenso di lavarsi la ferita?

 Mi avvicinai lentamente verso l'unico posto libero nel circolo e mi sedetti. Dwalia si alzò e si fermò alle mie spalle. Io non mi girai. "Stanotte non avrai niente da mangiare. Non credere di poter fuggire. Non puoi. Alaria, tu farai il primo turno di guardia. Sveglia Spilla per il secondo. Non fatevela scappare, altrimenti ne subirete le conseguenze."

 Si allontanò verso le sacche e le provviste che si erano portati dietro. Non molto, in verità: erano sfuggiti all'attacco di Ellik con quello che erano riusciti ad afferrare in fretta e furia. Dwalia improvvisò un giaciglio con le sacche e si sdraiò, incurante del disagio degli altri. Spilla si guardò intorno circospetta, poi distese la mia pelliccia e ci si sdraiò sopra, coprendosi con il lembo che avanzava. Vindeliar le guardò per un attimo, dopodiché si accoccolò per terra come un cucciolo, appoggiando la grossa testa sulle braccia e contemplando il fuoco con occhi tristi. Alaria sedeva a gambe incrociate e mi fissava in cagnesco. Nessuno prestava attenzione al chalcediano. Con le mani sulla testa, danzava una specie di giga, la bocca spalancata di gioia mentre seguiva la musica fantasma. Poteva anche aver perso il senno, ma era un ottimo ballerino.

 Mi chiesi dove fosse mio padre. Chissà se pensava a me. Sciò era riuscita a tornare a Giuncheto per dirgli che mi avevano trascinata dentro un pilastro? O era morta nella foresta? Nella seconda ipotesi, lui non avrebbe mai saputo che fine avevo fatto né dove cercarmi. Mi sentivo infreddolita, affamata e smarrita.

 Se non puoi mangiare, allora dormi. Il sonno è l'unica cosa che ti viene offerta al momento. Accettala.

 Guardai il cappello che avevo trovato. Semplice lana grigia, non tinta, ma ben filata e tessuta. Lo scrollai per assicurarmi che non ci fossero insetti dentro, poi, con le mani sempre legate, me lo calcai in testa. La lana umida era fredda, ma si riscaldò presto con il mio calore. Mi distesi a fatica sul fianco meno dolorante, dando le spalle al falò. Il calore del mio corpo aveva risvegliato il profumo della candela. Inspirai la fragranza di caprifoglio. Mi rannicchiai come se volessi addormentarmi, invece mi portai i polsi alla bocca e ricominciai a rosicchiare i legacci.