Mano e piede
La testa di un topo su un bastoncino. Nessuno ha in mano il bastoncino, eppure questo si agita verso il sognatore. Il topo squittisce. "L'esca è la trappola, e il cacciatore è intrappolato!" Il topo ha la bocca rossa, i denti gialli, gli occhi neri e scintillanti. Sembra uno di quei grossi ratti marroni che infestano il porto di Clerres. Intorno al collo ha un ciuffo di peli bianchi e neri, e il bastone che sormonta è verde e giallo.
Sogno 903872, di Capra, registrato da lingstra Okuw
"È STATO molto sgradevole", borbottò Symphe.
"Colpa tua", ribatté Capra. "Sei stata tu a creare questo momento. Liberando Amato, raccontandomi un sacco di bugie. Permettendo a quella carogna sfregiata di pensare di avere la perspicacia di un Profeta Bianco. Tu l'hai incoraggiata a combinare un simile disastro. A questo punto suppongo che spetti a te riportare gli eventi sulla giusta via."
"Mi occuperò della bambina", annunciò Symphe.
Io udivo le loro voci come se fossero mosche che ronzavano dietro una finestra. Dwalia era stata portata via. Al suo posto restavano soltanto gli schizzi di sangue sul pavimento. Vindeliar se n'era andato. Ero rimasta sola in quella sala dove mi avevano condotta. Alzai gli occhi sulla donna giovane e bella. Sapevo che bella non significava gentile. Lei non ricambiò il mio sguardo.
"Non se ne parla", obiettò Capra.
"Dovremmo tutti occuparci di lei, per determinarne il valore", suggerì Tinto.
Capra ridacchiò sprezzante. "Sappiamo tutti quale valore le attribuiresti, Tinto. No."
Coltro parlò in tono sommesso. "Sbarazziamoci della creatura. Adesso. Sarà soltanto causa di attriti fra noi, e già ne abbiamo avuti abbastanza. Ricordate come il ritorno di Amato ci ha messi l'uno contro l'altro?" Aggrottò la fronte con una tale forza che frammenti di cerone gli si staccarono dalla pelle.
"‘Non fare quello che non puoi disfare, fino a quando non avrai considerato quello che non potrai fare se lo farai.' È una delle prime cose che ci vengono insegnate, idiota! Bisogna convocare i Comparatori per fargli cercare qualunque possibile riferimento alla bambina", disse Symphe.
"Ma ci vorranno giorni!" protestò Coltro.
"Dato che non sei tu a svolgere il lavoro, che t'importa?" ribatté Tinto e, abbassando la voce, aggiunse: "Come se fossi capace di capire i sogni, non avendone mai fatti".
"Credi che sia sordo?" esclamò Coltro infuriato, al che Tinto rispose con un sorriso affabile: "Certo che no. Sei soltanto cieco ai futuri".
"Basta!" ruggì Capra. Si girò di scatto verso di me e io abbassai la testa. Temevo che mi guardasse negli occhi. Eppure avevo notato uno strano scintillio nel suo sguardo, come se nascondesse qualcosa agli altri. "Symphe, propongo di confinarla nelle celle superiori. Comoda e al sicuro. Forse non è altro che una piccola sguattera bionda rapita dalle cucine di FitzChevalier. Dwalia non ci ha fornito prove che sia altrimenti. Se avesse il sangue di Amato, avrebbe già cominciato a sognare e annotato i suoi sogni, che Dwalia ci avrebbe offerto come prova del suo valore. Sospetto non sia altro che un espediente, una scusa per coprire il suo fallimento."
"Allora perché non l'affidi a me?" chiese Symphe. "Potrei impiegarla come cameriera."
Capra le scoccò un'occhiata di ghiaccio. "Perché un espediente si può usare più di una volta, mia cara ragazza. Dwalia sostiene che Amato è morto. Ma non ha detto niente di FitzChevalier, il suo Catalizzatore. Se questa è sua figlia o comunque gli appartiene, potremmo trovarci ad affrontare ancora una volta il Figlio Inaspettato. Quello vero. Quello che ha aiutato Amato a distruggere i nostri piani. Perciò dovremo tenerla qui finché non scopriremo se c'è del vero nel racconto di Dwalia. Finché non avremo estorto tutta la verità a Dwalia e a quel mostriciattolo che ha creato."
"Non credo sia necessario. Che cos'hai…"
Capra la interruppe. "Oppure li faremo uccidere tutti. Come avrei dovuto fare con Amato."
Mi batteva così forte il cuore che temevo si sentisse.
Qualche secondo di silenzio, poi intervenne Coltro. "Che diritto hai di comandarci? Siamo in quattro."
"Ho il diritto degli anni. Dell'esperienza. Della saggezza. E giacché avete tramato alle mie spalle decidendo di permettere ad Amato di ‘evadere', credo che adesso tocchi a me prendere una decisione in cui nessuno di voi avrà voce in capitolo!" Fece una pausa, gli occhi da trota scintillanti di trionfo. "Oh, distogliete pure lo sguardo, illudetevi di essere riusciti a ingannarmi. Che farsa! Pensate che non sappia come avete stornato fondi e risorse da affidare a Dwalia? Pensate che non fossi a conoscenza dei messaggi che vi inviava tramite piccioni viaggiatori?" Scosse la testa davanti alla loro ingenuità, e il suo sorriso fu una cosa terribile da vedere. "Vi siete dimenticati chi ha sogni migliori, più dettagliati e frequenti di voi o dei vostri Bianchi allevati a Clerres! Credevate di avermi nascosto i vostri segreti, ma io ho riequilibrato la bilancia con i sogni di cui non vi ho parlato! Mentre assecondavate l'inutile missione di vendetta di Dwalia, avete ignorato il problema più grande. Non una bambina che potrebbe o non potrebbe essere di sangue Bianco, ma i maledetti draghi. Tutto quello che abbiamo cercato d'impedire, è avvenuto. I draghi sono tornati liberi nel mondo e i lurik rimasti con noi hanno visioni oscure di lupi, figli e draghi. Siamo arrivati a tanto così dall'eliminarli per sempre!" Avvicinò pollice e indice lasciando un minuscolo spazio. "Ma i draghi non perdonano. I draghi non dimenticano. Invece, a quanto pare, voi tre avete dimenticato che, soprattutto, i draghi non dimenticano i torti subiti. È ora di smetterla di occuparvi di intrighi politici e di guardare al futuro. Amato ha minato le fondamenta della nostra conoscenza, ma noi la stiamo ricostruendo con nuovi sogni e profezie. Possiamo riprendere in mano il timone e guidare il mondo a nostro vantaggio. Eppure tutto questo finirà se solleveremo lo sguardo e vedremo ali spiegate nei cieli di Clerres!"
Calò un silenzio di tomba, durante il quale mi alzai in piedi lentamente. Mi vergognavo dei pantaloni bagnati, freddi, incollati alle gambe. Mi strinsi il fagotto al petto e lasciai affiorare le lacrime agli occhi. Avevo avuto il tempo di fabbricarmi uno scudo di pietose bugie. Speravo che funzionassero. "Voglio andare a casa. Vi prego. Io non ci capisco niente di queste cose. Voglio soltanto tornare a casa."
Quattro paia di occhi conversero su di me, esprimendo chi stupore, chi indignazione. Mi feci tremare il mento. "Non ti rivolgi a nessuno di noi", disse la bella Symphe in tono severo, "a meno che non vieni interpellata. Chiaro?"
Abbassai gli occhi. Potevo approfittarne? "Sì, signora. Dwalia mi ha detto di non parlare con nessuno di voi. Avrei dovuto ricordarmelo."
Da sotto le ciglia osservai le loro reazioni. Symphe sembrava a disagio. Decisi d'insistere e adottai la vocina più infantile che mi riuscì di trovare. "Dwalia mi ha detto che avremmo parlato con Symphe da sola. O con Tinto. Mi ha insegnato i sogni da raccontare. Volete ascoltarli adesso?"
Symphe doveva aver fatto un cenno di cui non mi ero accorta, perché all'improvviso una delle guardie mi fece lo sgambetto, togliendomi la terra da sotto i piedi. Caddi di schianto, battendo il gomito sul pavimento, e la fitta lancinante mi arrivò fino alla spalla. Me la strinsi, restando accucciata.
"In cella", suggerì Symphe glaciale. "Al livello più basso. Portatela lì immediatamente."
Ancora una volta qualcuno mi afferrò per il colletto e mi tirò su come un sacco di patate. Mi tenevo stretto il fagotto nella speranza che attutisse il colpo che ero sicura stesse per arrivare. I miei piedi toccavano a stento il pavimento, mentre le guardie mi trascinavano verso la porta. Alle mie spalle, Symphe dichiarò: "Propongo di riunirci stasera tardi. Ci consulteremo e poi scenderemo insieme a vedere che cos'ha da dirci. Ma fino ad allora, nessuno dovrà farle visita. Nessuno".
La vecchia rise. "Oh, mia cara Symphe. Ha cominciato a rivelare i tuoi segreti? Credi davvero che non sapessi già…"
La porta si chiuse mentre ancora parlava. Il colletto mi segava la gola e tentai di allentarlo con le mani. "Falla respirare", disse l'altra guardia a quella che mi stringeva. Fui mollata di colpo e caddi a terra, dove rimasi bocconi a riprendere fiato. Sentivo l'odore del sangue di Dwalia su entrambi, e un forte sentore di aglio. Almeno uno di loro aveva bisogno di farsi un bagno. Quanto prima.
"Alzati", disse uno dei due, pungolandomi con la punta dello stivale. Obbedii, seppur lentamente. Nel corridoio c'era gente che ci osservava. Abbassai lo sguardo e vidi una strisciata di sangue sul pavimento. Dovevano aver portato via Dwalia passando da quella parte. Mi avrebbero messa in una cella accanto alla sua? Oppure con lei? Mi raggelai.
"O cammini o ti trasciniamo", disse la stessa guardia.
"Cammino", boccheggiai. Avrei avuto un'occasione per fuggire? E fuggire dove?
D'un tratto, alle nostre spalle, qualcuno chiamò. "Guardie, aspettate!"
Era Tinto. "È stato deciso che la terremo al livello superiore, dietro una Serratura dei Quattro. Portatela lì. Noi vi raggiungiamo tra poco."
"Agli ordini", rispose una delle guardie. Quella che mi aveva presa per il colletto mi diede una spinta. Passammo davanti a un capannello di persone eleganti che si voltarono a guardarci inorridite. Si aprì una porta e al di là intravidi una magnifica sala da ballo. Ne uscirono due bambine della mia età, tutte vestite di pizzo e scortate da valletti, che mi fissarono incuriosite, mentre i soldati m'incitavano a voce e a spinte per allontanarmi dalla loro vista.
La prima rampa di scale era una lunga e ampia spirale. Raggiunto il pianerottolo, le guardie non si fermarono e io, anche se mi girava la testa e avevo il fiato corto, le seguii su per la seconda rampa fino a un corridoio rivestito di pannelli di legno marrone. Dalle pareti sporgevano a intervalli delle piccole mensole con sopra lampade a olio tondeggianti come teiere. Non c'erano finestre, soltanto porte che fiancheggiavano la passatoia. Eravamo immersi in un perenne crepuscolo; l'aria sapeva di pineta.
Nel passare davanti a una porta aperta, intravidi una stanza tappezzata di enormi casellari, con varie pergamene che spuntavano dalle cellette. Sembrava un alveare. Ai lunghi tavoli sedevano delle persone con davanti rotoli aperti e tenuti fermi con dei pesi, oltre a risme di carta, boccette d'inchiostro e penne. Avrei voluto osservare meglio, ma quando rallentai, una delle guardie mi diede uno scappellotto sulla nuca. "Cammina!" mi ordinò. Obbedii.
Superammo un'altra stanza piena di tavoli, con le pareti stipate di libri al posto delle pergamene. Gli scrivani alzarono la testa dalle pagine per guardarci stupiti. Non c'erano finestre, ma riquadri di luce brillavano nelle mura di pietra. Non avevo mai visto una cosa del genere. Alcuni dei presenti dovevano avere poco più della mia età, mentre altri erano più vecchi di mio padre. Indossavano tutti lunghe tuniche verdi. Non erano Bianchi e ipotizzai che si trattasse dei Servi dei Bianchi. Nessuno ci rivolse la parola, ma sentii addosso i loro sguardi incuriositi.
In fondo al corridoio c'era una porta che si apriva su un'altra rampa di scale. Questa era più stretta e ripida. L'affrontai con le ultime energie che mi restavano. Arrivata in cima, mi voltai. Una delle guardie si affrettò a girare la testa, mentre l'altra nemmeno mi guardò quando bussò alla porta, che aveva una finestrella con le sbarre. Una donna dai capelli scuri e gli occhi marroni sbirciò dalla grata. "Che volete?" chiese.
"Una Serratura dei Quattro", rispose il soldato.
Lei inarcò un sopracciglio. "Per chi?"
Lui m'indicò e la donna si sollevò in punta di piedi per guardare in basso dalla finestrella. "Oh", mormorò. "Va bene." Notai la sua perplessità, ma aprì ugualmente la porta e ci fece entrare in una stanzetta minuscola. Si girò e aprì una seconda porta. Un abbagliate fascio di luce ci investì e la donna ci condusse in un ampio spiazzo aperto. Battei le palpebre e alzai una mano per schermarmi gli occhi dal riverbero accecante del sole sul pavimento bianco. L'area era cinta da un muro alto, sopra il quale scorsi una sentinella che faceva la ronda. Eravamo sul tetto della fortezza e ai quattro angoli svettavano le torri affusolate con le sommità a cipolla.
"Da questa parte", disse la donna. Io la seguii, con i soldati sempre alle calcagna. Mi guardai intorno da dietro la mano con le dita aperte e mi parve una situazione ai limiti del ridicolo: una bambina minuscola tenuta sotto stretta sorveglianza da due energumeni. Attraversammo lo spazio aperto e imboccammo uno stretto passaggio fiancheggiato da piccole stanze chiuse da una grata di ferro. Alcune erano occupate, ma la maggior parte vuote. Mi fermai quando la donna si fermò.
Abbassò lo sguardo su di me. "Adesso aspettiamo i Quattro, perché soltanto loro hanno le chiavi di queste ultime quattro celle. Dammi quella roba."
Le porsi il mio fagotto a malincuore e lei lo aprì. "Soltanto vestiti", mormorai. Lei non disse niente mentre frugava tra i miei poveri indumenti, poi me lo restituì.
Udii chiudersi una porta e un coro di voci basse e litigiose. Sbirciai nella direzione da cui eravamo venuti. I Quattro. Non appena si accorsero che li stavamo aspettando, smisero di parlare. Ciascuno era accompagnato da una guardia. Si avvicinarono a passo svelto. Symphe trasse da una tasca nascosta una chiave elaborata attaccata a una catenella di pietre preziose. La porse alla sua guardia, che la inserì nella serratura di un lungo paletto di ferro e la girò. Risuonò uno scatto secco. Poi Symphe si fece indietro e Coltro passò la sua chiave con un anello d'osso alla propria guardia. Un altro scatto. Quando tutte e quattro le chiavi furono inserite e girate, la donna che ci aveva scortati fece scorrere il paletto di lato e aprì la porta. M'indicò di entrare.
Mentre varcavo la soglia, udii una voce sommessa dalla cella accanto. "Be', Symphe, nemmeno un saluto? Coltro, dovresti lavarti la faccia. Così sei ridicolo. Tinto, non hai nessun ragazzino da inchiappettare oggi? Ah, ecco Capra. Vedo che ti sei tolta il sangue dalle mani per questa visita. Molto formale da parte tua."
Nessuno di loro fece una piega, né rispose. Ormai in gabbia, non potevo vedere chi avesse parlato e mi chiesi chi fosse stato tanto sfrontato da rivolgersi ai Quattro in quel modo. Poi la prima guardia richiuse la porta, e i compagni, a turno, girarono una chiave e la sfilarono, per consegnarla al rispettivo padrone.
"Bambina", m'interpellò Capra. "Dimmi il tuo nome e quello di tuo padre."
Risposi in un sussurro: "Mi chiamo Ape e mio padre è padron Tom lo Striato di Giuncheto. Lui bada agli animali, ai frutteti e ai terreni di messer FitzChevalier. Vi prego, fatemi tornare a casa!"
La sua espressione rimase impassibile. Io non avevo mentito, e sostenni il suo sguardo.
Senza aggiungere altro, il gruppo se ne andò. E, dalla cella accanto, udii di nuovo quella voce sommessa. "Undici adulti per rinchiudere una bambina. Hanno ragione a temerti?"
Io non osai replicare. Quelli potevano pure ignorarlo, ma avrebbero potuto comunque tornare a picchiare me. Con il fagotto sempre stretto al petto, studiai la cella. C'erano un vaso per i bisogni in un angolo e un letto basso con sopra un pagliericcio e una coperta di lana grezza. La parete in fondo era di pietra bianca, con dei trafori a forma di foglie, fiori e conchiglie che lasciavano passare luce e aria. Provai a infilarci una mano dentro e scoprii che potevo raggiungere il lato esterno: il muro era spesso quanto la mia mano e l'avambraccio. Quelle celle sarebbero state inospitali nella stagione fredda; poi però pensai che forse in quella regione l'inverno non arrivava mai, o forse non sarei arrivata io all'inverno.
La cella non era molto più grande del letto; c'era giusto uno spazietto per passarci davanti. La parete con la porta che affacciava sul passaggio era fatta interamente di sbarre di ferro, così potevo vedere la cella vuota che mi stava di fronte. Non avrei avuto un minimo d'intimità, nemmeno per usare il vaso o per cambiarmi i pantaloni bagnati di pipì.
Provai a infilare la testa tra le sbarre, ma riuscii a sporgerla giusto quel tanto da controllare il corridoio da una parte e dall'altra. Non vidi nessuno. Decisi di sfruttare quel momento di solitudine. Tirai fuori i pantaloni azzurri che mi aveva dato la mercante Akriel e che avevo indosso la notte in cui era stata uccisa. Era il suo colore preferito, e purtroppo c'era qualche macchiolina marrone. Il suo sangue secco. Avevano le ginocchia strappate e gli orli lisi, ma almeno erano asciutti. Mi cambiai in fretta e stesi i miei calzoni bagnati ad asciugare sul pavimento.
Mi sedetti sul bordo del letto. Il materasso di paglia era sottile e il mio peso lo schiacciò, facendomi sentire i nodi della rete di corda. Decisi che sarei stata più comoda se avessi messo il pagliericcio sul pavimento. Sbirciai di nuovo tra le sbarre. Nessuno. Soltanto allora mi aprii il colletto della camicia e ci infilai dentro il naso per aspirare il vago sentore di caprifoglio della candela spezzata.
"Mamma", dissi ad alta voce, come non facevo da tanto tempo. Mi vennero le lacrime agli occhi, quasi che quella parola avesse riesumato il cordoglio dalla tomba invece di suscitarmi lieti ricordi.
"Sei molto, molto giovane per trovarti così nei guai", disse la voce dall'altra cella. Io m'impietrii e non emisi un suono, il cuore che mi batteva a mille. La voce era profonda e, sebbene avesse parlato in lingua comune, era venata da un accento straniero. "Dimmi, piccolina. Che male hai fatto? O che male i Quattro pensano che tu abbia fatto, per meritarti di finire rinchiusa qui?"
Non dissi niente. Mi sedetti sul materasso, cercando di muovermi il meno possibile, affinché il fruscio della paglia non tradisse la mia presenza.
Lui rimase a lungo in silenzio. Poi: "Quand'ero ragazzo, questo era un posto bellissimo. Non c'erano celle all'epoca. Anticamente questi erano gli alloggi delle mogli di un imperatore, ma quando ci vivevo io, il tetto era già stato trasformato in uno splendido giardino pensile, protetto dal sole da un pergolato. C'erano fiori ed erbe curative a profusione che crescevano in grandi vasi. Di sera vi salivo spesso, quando il gelsomino profumava l'aria. E nelle notti più calde, quando la brezza marina rinfrescava queste stanze, dormivo qui".
Continuò a parlare, senza farmi domande, e io ascoltavo in silenzio, mentre la luce si affievoliva nel lungo pomeriggio estivo. A un certo punto sentii la donna che ci aveva aperto la porta del tetto rivolgersi a qualcuno, ma nessuno rispose. Poi udii i suoi passi che si avvicinavano e di nuovo la sua voce. "Tieni."
Stavolta qualcuno mugugnò un ringraziamento. Scivolai adagio giù dal letto e mi accostai alle sbarre. Ancora passi e poi un acciottolio di stoviglie su un vassoio. Una pausa, una donna disse qualcosa e ricevette un grazie. Aguzzai le orecchie e la sentii fermarsi altre due volte, prima di raggiungere la cella accanto alla mia. Era una delle guardie che avevano aperto la serratura della mia cella. Posò un piatto sul pavimento e lo fece scivolare sotto le sbarre. Quando si fermò davanti alla mia porta, aggrottò la fronte e scosse la testa. "Sei così piccola. Eccoti da mangiare. Torno fra poco con l'acqua." Parve sul punto di aggiungere altro, poi chiuse le labbra e se ne andò. Restavano due scodelle sul vassoio e la sentii fermarsi due volte ancora in fondo al corridoio. Perciò eravamo in sette prigionieri in quelle che dovevano essere grosso modo una ventina di celle.
Presi la scodella e la studiai. I pezzetti di verdura legnosa avevano un curioso colore arancione: erano sei, adagiati su un letto di cereali che non riconobbi. C'era qualche foglia di cavolo dal caratteristico odore e un'altra erbetta verde tritata e cosparsa sulla zuppa, dov'era infilato un cucchiaio di legno. Mangiai tutto, anche se l'erba sconosciuta mi bruciò la lingua. Quando la donna tornò a riprendere il piatto, portandomi una brocca d'acqua con il fondo svasato e il collo stretto, la bevvi quasi tutta. Ne lasciai un po', pensando che se l'indomani la guardia mi avesse portato altra acqua, questa l'avrei potuta usare per lavarmi la faccia.
All'imbrunire, le ombre si allungarono. La donna tornò ad accendere una lampada, un grosso vaso rotondo con lo stoppino corto che fuoriusciva dal collo. La fiamma era bianca e sprigionava aroma di pino. Il vento della notte sussurrava dai trafori nella parete, portando con sé il profumo del mare. Mentre il sole moriva, udii le strida dei gabbiani. Mi sedetti sul bordo del letto, pensando ai Quattro che discutevano su chi fossi, e mi chiesi che cos'avrei potuto far credere loro. Sapevano troppo. Capra sapeva che mio padre era il Figlio Inaspettato. Perciò non potevo sostenere di esserlo. Gli avevo detto di essere la figlia di un semplice fattore, rapita dalla mia casa. Se mi avessero creduto, mi avrebbero rilasciata? Venduta? Oppure uccisa perché inservibile?
Se avessero scoperto che sognavo e il contenuto dei miei sogni, ero sicura che mi avrebbero eliminata.
Volevo tanto Padre Lupo, ma non osavo abbassare le barriere. Potevano esserci altri come Vindeliar a Clerres.
Calò la notte. Udii qualcuno bisbigliare nelle altre celle, ma non riuscivo a distinguere le parole. Chissà chi altri era rinchiuso lì come me e che cos'aveva fatto? Mi alzai e scrollai la coperta, di cui non c'era bisogno con quel caldo. Mi tolsi le scarpe e le sistemai con cura appaiate. Tirai giù il pagliericcio dal letto, lo distesi nello stretto spazio davanti alle sbarre della porta e lo piegai in due per renderlo più soffice. Ci misi sopra la coperta e infine mi sdraiai. Chiusi gli occhi.
Mi svegliai con le guance rigate di lacrime e la gola stretta. La mano di mio padre mi accarezzava la testa e io sollevai un braccio per toccarla. "Papà! Perché ci hai messo tanto a trovarmi? Voglio tornare a casa!"
Lui non rispose, ma infilò le dita nei miei corti riccioli. Poi la voce sommessa e profonda parlò di nuovo. "Allora, piccolina. Che cos'hai fatto?"
Ansimai e mi alzai a sedere di scatto. La luce della lampada mi lambiva appena. Indietreggiai da quello che la fiammella illuminava: una mano che dalla cella accanto si era allungata nella mia. La pelle era la più nera che avessi mai visto su una creatura vivente. Quella mano mi aveva toccato la testa. Mi sforzai di calmarmi, ma ansimavo per il terrore.
Ancora la voce. "Hai paura di me? C'è un muro che ci separa. Non posso farti del male. Parlami, piccolina. Perché sono qui da tanto tempo e nessuno mi rivolge la parola. Mi piacerebbe sapere che cosa succede nel grande mondo esterno. Come sei arrivata qui?" La mano si girò, rivelando un palmo più chiaro. Mi figurai che il proprietario dovesse essere sdraiato sul pavimento, con la spalla premuta contro le sbarre della sua cella per raggiungere la mia. Non disse altro. La mano rimase lì, aperta e implorante.
"Chi sei?" gli chiesi. "Tu che cos'hai fatto?" Magari mi avevano rinchiusa accanto a un assassino. Rammentai la gentilezza mostrata da Dwalia all'inizio, quando l'avevo incontrata. Non mi sarei lasciata più imbrogliare così facilmente.
"Mi chiamo Prilkop. Ero il Profeta Bianco della mia epoca, ma questo è stato tanti, tanti anni fa. Ho subito diverse mute di pelle nella mia vita."
Mi sovvenne un vago ricordo. Era stata Dwalia a pronunciare quel nome? Lo avevo letto tra le carte di mio padre?
"Perché sono qui?" proseguì lui, parlando così piano che dovetti avvicinarmi alle sbarre per sentirlo. "Per aver detto la verità. Per aver svolto la mia missione nel mondo. Avvicinati, bimba, non devi avere paura di me e credo tu abbia bisogno di un amico. Come ti chiami?"
Non volevo dirglielo, perciò risposi con un'altra domanda. "Perché nessuno ti rivolge la parola?"
"Mi temono. O più precisamente, temono quello che potrebbero ascoltare. Temono di venire a sapere qualcosa che potrebbe metterli nei guai."
"Io non posso cacciarmi in altri guai."
Avevo inteso le mie parole in un senso, ma lui ne capì un altro. "Probabile. Nemmeno io potrei stare peggio di così. Allora, raccontami la tua storia, piccolina."
Non risposi subito. Riflettei che non potevo fidarmi di nessuno. Qualunque cosa gli avessi detto, lui avrebbe potuto riferirla ad altri. E se invece l'avessi sfruttato a mio vantaggio?
"Sono piombati in casa mia durante una bella giornata di neve. La vigilia della Festa d'Inverno. Per rapirmi. Perché pensavano che fossi il Figlio Inaspettato. Ma io non lo sono."
Nonostante l'intenzione di essere prudente nel mio racconto, una volta che cominciai a parlare, le parole mi sgorgarono dalle labbra inarrestabili, spesso senza un ordine preciso o spezzate dal nodo che mi serrava la gola. Non misi la mano nel suo palmo aperto, ma in qualche modo l'uomo finì con il tenermi i piedi nudi e sporchi nella sua manona nera.
Parlavo senza seguire la cronologia degli eventi, raccontavo una parte, poi tornavo indietro, magari per spiegare che cosa aveva fatto Vindeliar e come avevo nascosto Perseverante sotto il mantello, ma probabilmente era morto comunque, e poi avevano preso anche Sciò, però lei era fuggita. Cominciai a tremare e lui mi strinse i piedi con dolcezza, senza dire niente. Insistetti molto sul fatto che il mio rapimento era stato un errore madornale. E quando terminai il racconto, tra lacrime e parole confuse, lui mormorò: "Povera creaturina. Tu non sei il Figlio Inaspettato. Lo so, perché io l'ho conosciuto… lui e il suo profeta".
M'impietrii. Era un trucco? Ma quanto disse dopo fu ancora più spaventoso.
"Ti ho sognata. Sei diventata possibile il giorno in cui Amato è stato strappato alla morte, sconvolgendo tutte quelle profezie. Quel giorno, ho capito che qualcosa aveva distrutto tutti i futuri per sostituirli con nuove possibilità. Ero terrorizzato. Avevo creduto che i miei giorni da profeta sognatore fossero finiti da un pezzo. Che il mio tempo si fosse concluso e che sarei potuto tornare a casa. Poi sognai di te. Oh, all'epoca non sapevo che fossi tu, ma rimasi turbato. E atterrito. Cercai di ridurre le probabilità che nascessi. Non appena Amato e il suo Catalizzatore tornarono da me, li persuasi a dividersi. Pensavo fosse stato sufficiente ad avviare il mondo su un sentiero migliore." Per un brevissimo istante, la sua grande mano mi strinse un piede. "Tuttavia, quando ricominciai a sognare di te, capii che era troppo tardi. Tu esistevi. E con la tua nascita, avevi creato molte possibili divergenze dal vero Sentiero."
"Mi hai sognata?" Mi asciugai il viso con il davanti della camicia.
"Sì."
"E che cos'hai sognato?"
La sua mano si rilassò sotto i miei piedi. Io non li spostai. Le sue parole fluirono lente come melassa. "Ho fatto molti sogni. Non sempre su di te, ma sui futuri resi possibili dalla tua esistenza. Ho sognato un lupo che smascherava un burattinaio. Una pergamena che si srotolava da sola. Un uomo che si strappava di dosso tavole di legno per trasformarsi in due draghi. Ho sognato…"
"Anch'io ho fatto quel sogno!" esclamai, ancora prima di considerare se fosse il caso di rivelarlo.
Calò il silenzio, interrotto soltanto dai lontani bisbiglii dei due prigionieri in fondo al corridoio. "Non mi sorprende. Però mi spaventa."
"Perché dici che quei sogni riguardano me?"
Lui proruppe in una risatina sommessa. "Ho sognato un vortice di fiamme, venuto a cambiare tutto. Allungavo un braccio per prendergli la mano. E sai che cos'è successo?"
"Ti sei bruciato."
"No. Invece della mano mi ha offerto un piede. Un piccolo piede scalzo."
Tirai indietro i piedi di scatto, quasi fossi stata io a bruciarmi. Lui rise di nuovo. "Quello che è fatto è fatto, piccolina. Adesso ti conosco. Sapevo che saresti venuta. Non mi aspettavo che fossi una bambina. Perciò, adesso, mi dici il tuo nome?"
Esitai. "Mi chiamo Ape."
Lui non disse niente. La sua mano era ancora aperta sul pavimento della cella. Pensai che doveva stare molto scomodo sdraiato lì, con il braccio storto per arrivare alla mia cella.
"Se mi hai sognata, puoi dirmi che cosa mi capiterà?"
La sua immobilità era come un sipario. La lampada nel corridoio stava esaurendo l'olio. Non occorreva che la vedessi per capire che la fiamma languiva sullo stoppino, succhiandone l'ultima goccia. Alla fine udii di nuovo la sua voce calda e profonda: "Ape. Non ti capiterà niente. Sei tu che capiterai a tutto".
Lentamente tirò indietro la mano e quella notte non parlò più.