Bugie e verità

 Mi sono impegnata ad annotare gli eventi della vita di mio padre, mentre li riversa nel drago-lupo. Intuisco, quando sono accanto a lui e scrivo, che sceglie quelli da raccontare con estrema cautela. Capisco che ha dei ricordi troppo intimi per condividerli con sua figlia.

 Oggi ha parlato soprattutto dei tempi passati con quello che chiama il Matto. È un nome ridicolo, però, tutto sommato, se io mi chiamassi Amato, considererei Matto un progresso. Che cos'avevano in testa i suoi genitori? Davvero immaginavano che chiunque lo avesse conosciuto avrebbe desiderato chiamarlo Amato?

 Ho notato una cosa. Quando mio padre parla di mia madre, è assolutamente certo che lei lo amasse. Ricordo bene la mamma. Sapeva essere aspra e pungente, critica ed esigente, ma era così proprio perché sicura che tra loro ci fosse un amore in grado di resistere alle difficoltà. Persino quando si arrabbiava con mio padre, lo faceva perché si sentiva oltraggiata dall'idea che lui potesse dubitare del suo amore. È questo che trapela quando papà parla di lei.

 Invece, quando parla della sua lunga e profonda amicizia con il Matto, avverto sempre una certa esitazione. Un'incertezza. Una canzone beffarda, un lampo di collera; mio padre si sentiva smarrito come chi viene respinto ma non capisce fino a che punto. Vedo un Catalizzatore usato dal suo profeta, sfruttato senza pietà. Può una persona fare una cosa del genere a un'altra che sostiene di amare? Credo sia questa la domanda che continua ad assillare mio padre. Lui si donava sempre, ma spesso aveva la sensazione che ciò che dava non bastasse, che il Matto pretendesse qualcosa di più da lui, qualcosa che travalicava quello che papà poteva concedergli. E quando il Matto se ne andò, senza mai voltarsi indietro, per mio padre fu una pugnalata che non si è mai rimarginata del tutto.

 È cambiato il suo modo di considerare il loro rapporto. Quando il Matto è ripiombato bruscamente nella sua vita, papà non se l'è più sentita di gettarsi anima e corpo nella loro amicizia. Si è sempre chiesto se il Matto non fosse tornato soltanto per usarlo ancora una volta per i propri scopi e poi abbandonarlo a cose fatte.

 A quanto pare, è successo di nuovo.

 Diario di Ape Lungavista

 "DOVREBBERO andarsene", bisbigliai a Urtica. "È nostro padre. Forse non vuole che nemmeno noi lo vediamo in questo stato." Io non volevo vederlo in quello stato, disteso sul lupo di pietra come un lenzuolo messo ad asciugare su uno steccato. Aveva un aspetto orribile, un mosaico d'argento liscio e carne consumata dai vermi. E il fetore che emanava era peggio dell'aspetto. La camicia che gli avevamo messo il giorno prima oggi era già sporca di tè e altre sostanze. Rivoli di sangue rappreso gli scorrevano dalle orecchie al collo. Una schiuma rossastra gli incrostava un angolo della bocca; eppure la metà del viso macchiata d'Argento era liscia e intatta, una parvenza dell'uomo che era stato fino a poco tempo prima.

 La notte precedente avevo osservato Urtica che, accigliata, gli bagnava le parti del viso che erano ancora carne. Mio padre aveva accennato una debole protesta, ma lei aveva insistito e lui si era arreso. Urtica era stata molto attenta: immergeva la pezzuola nell'acqua, lo tamponava e ripiegava la parte sporca all'interno, senza mai venire a diretto contatto con la sua pelle. Dalle piaghe erano uscite piccole creature formicolanti. Urtica aveva gettato tutte le pezze usate nel fuoco.

 "A quelli non interessa niente di lui. Vogliono soltanto essere presenti quando il lupo prenderà vita."

 "Lo so. Loro lo sanno. Anche papà lo sa." Mia sorella scosse la testa. "Non gl'importa."

 "A me importerebbe. Vorrei morire in privato. Non così."

 "Lui è un Lungavista. Un membro della famiglia reale. Non c'è niente di privato. Devi capirlo, Ape. Kettricken ha ragione. Siamo servitori del popolo, e il popolo prenderà da noi tutto quello che gli occorre. O che vuole."

 "Dovresti tornare a casa da tua figlia."

 "Se dipendesse soltanto da me, lo farei. Lei e Rompicapo mi mancano terribilmente. Ma non posso farmi vedere che abbandono mio padre e mia sorella in questo momento particolare. Lo capisci?" Mi guardò con gli occhi di nostra madre. "Non voglio coinvolgerti nelle politiche di palazzo, Ape. Cercherò in tutti i modi di proteggerti, ma per riuscirci devo chiederti una cosa. Fatti notare il meno possibile. Se mi disobbedisci, se ti comporti male, se mostri un atteggiamento di sfida, tutti gli occhi saranno puntati su di te. Cerca di apparire docile e insignificante, e potrai avere una vita tua." Mi rivolse un sorriso stanco. "Anche se tua sorella saprà sempre che sei tutt'altro che docile e insignificante."

 "Oh." Non le dissi che avrei voluto che qualcuno mi avesse avvertita prima, così non le avrei reso la vita difficile. Le presi la mano.

 "Barriere forti", osservò. "Ciocco ti ha insegnato bene."

 Annuii.

 La giornata si stava facendo sempre più luminosa. I lembi della tenda di mio padre erano stati sollevati per far entrare il tepore del sole e uscire il lezzo della morte. Sedevo ai piedi del lupo, stringendo al petto il quaderno dove avevo annotato i suoi ricordi. Erano passati due giorni dall'ultima volta che aveva parlato in maniera abbastanza coerente da poter capire quello che diceva, però non mi ero mossa, e avevo aggiunto qualche illustrazione alle memorie che mi aveva narrato.

 Urtica mi aveva spiegato quel poco che sapeva del procedimento. Un tempo i membri più vecchi delle confraternite dei Sei Ducati venivano in quel luogo per scolpire i draghi e immergersi in loro. Avevano imparato quell'usanza dagli Antichi, un piccolo assaggio d'immortalità. "La vitalità di una pietra non dura a lungo. Veritas combatté come drago finché le Navi Rosse non furono sconfitte. Papà riuscì a destare i draghi di pietra e a convincerli a schierarsi dalla parte di Veritas, ma non si è mai scoperto davvero come avesse fatto. Alcune delle confraternite che ho fondato dicono che, quando verrà il loro momento, forse proveranno a ripetere l'impresa. Papà una volta mi ha raccontato che la vecchia filastrocca Sei saggi vennero a Jhampee in realtà parla di una confraternita che sale sulle Montagne per scolpire i draghi."

 "Sono tutti morti in questo modo orribile e doloroso?"

 "Non credo. Purtroppo ogni traccia di quegli eventi è andata perduta quando Regal ha venduto la biblioteca d'Arte. Spero di trovare qualche informazione nei cubi di memoria di Aslevjal. Finora, però, nessun risultato."

 Le sue parole non mi furono di alcun sollievo. Il corpo straziato dai vermi di mio padre era in mostra come un criminale in gabbia in una piazza chalcediana. Se doveva morire, volevo che si spegnesse in un bel letto comodo, in una camera accogliente e tranquilla. Oppure come mia madre, di colpo, mentre faceva qualcosa che amava. Avrei voluto prendergli la mano e confortarlo. Sospirai e spostai il peso da un piede all'altro.

 "Non devi assistere a questo strazio. Posso chiedere a uno dei miei adepti d'Arte di riportarti alla Rocca di Castelcervo."

 "Mi hai già spiegato perché non posso."

 "Giusto."

 Venne la sera, riattizzammo il fuoco, e lui non era ancora morto. Quell'agonia avrebbe ucciso me prima di lui. Nell'aria aleggiava una tensione terribile. Volevamo che morisse, e ci odiavamo per questo.

 La sua vera famiglia, come mi piaceva considerarci, era seduta intorno al falò, con la schiena rivolta alla cava. "Non possiamo aiutarlo?" chiese Per all'improvviso. "Non possiamo cedere qualcosa di noi per riempire il suo lupo?" E pronunciò la prima bugia che gli avessi mai sentito dire. "Non ho paura di provarci." Si alzò.

 "Per!" lo ammonì Urtica, ma senza darsi il tempo di ripensarci, Per piazzò la mano sul lupo. "Non so come si fa. Voglio darti il ricordo di mia madre che non mi riconosce e mi scaccia dalla porta di casa. A me non serve. Non ho bisogno di provare quel dolore." La mano di mio padre fremette appena. Per rimase in attesa, poi tolse la sua. "Mi sa che non è successo niente", ammise.

 "Non prendertela", lo consolò Urtica. "Credo che ci voglia almeno un briciolo d'Arte per riuscirci. A ogni modo, hai avuto una buona idea. E lui non è in condizioni d'impedirci di farlo." Si alzò con la sua consueta grazia e appoggiò la mano sul muso del lupo. "Ombra del lupo, prendi quel dolce ricordo che ho di te." Non disse che cos'era, ma percepii dal suo atteggiamento che gli stava donando qualcosa di prezioso.

 Quando tornò a sedersi, fu il turno di Lante. "Voglio provarci", dichiarò. "Vorrei dargli la prima volta che lo vidi. Ero terrorizzato." Posò la mano sulla spalla del lupo e rimase a lungo in quella posizione. Poi sfiorò con un dito la parte della mano di mio padre non coperta d'Argento. "Tieni, Fitz", disse, e forse gli donò qualcos'altro.

 Fiamma tentò, ma inutilmente. Kettricken sorrise enigmatica. "Io gli ho già dato quello che desideravo riversare nel lupo", disse, lasciandoci tutti in sospeso.

 "No", annunciò Ticcio. "Io conserverò ogni ricordo e ogni emozione che ho di lui. Ne ho bisogno. Come pensate che facciano i menestrelli a comporre le loro canzoni? Lui lo sa. Non vorrebbe mai che me ne privassi."

 Devoto si alzò e fece cenno a Probo e Prospero di restare indietro. "Figlioli, dovete tenervi stretto quel poco che sapete di lui. Però io ho qualcosa. Una notte in cui litigammo e io lo odiai. Me ne sono sempre pentito. Forse adesso tornerà utile."

 Quando ebbe finito, si asciugò le lacrime che gli rigavano le guance e si rimise seduto. Io guardai il Matto ansiosa. Perché adesso era il Matto, dacché Messer Fato e dama Ambra e messer Dorato erano stati spazzati via dal cordoglio. E non era più l'Amato di nessuno ormai. Era un omino triste, un inutile giullare. Però non si alzò. Non disse che avrebbe dato qualsiasi cosa a mio padre. Io non mossi un muscolo; mi serviva una strategia, perché sapevo che mi avrebbero trascinata via prima che potessi toccare il lupo. Abbassai la testa come se avessi paura e, dopo qualche istante, gli altri si rilassarono e Fiamma si offrì di portare il tè a tutti.

 "E un po' d'acqua fresca", le chiese Kettricken. "Vorrei almeno inumidirgli le labbra. Sta soffrendo troppo."

 Non ora. Non dovevo provarci finché c'erano gli altri presenti. Si erano abituati a vedermi dormire accucciata accanto al lupo di mio padre. Alla fine si sarebbero addormentati. Non morire ancora, lo implorai con tutte le mie forze. Non osai trasmettergli quel pensiero con l'Arte e tenni le barriere sigillate nel timore che Urtica percepisse le mie intenzioni.

 La notte non era mai calata così lentamente. Bevemmo il tè. Kettricken passò un panno bagnato sulle labbra screpolate di mio padre. Lui aveva gli occhi chiusi e probabilmente sarebbero rimasti così. La sua schiena scheletrica si alzava e si abbassava in lenti respiri. Fiamma convinse Kettricken a dormire, poi, insieme a Lante, risalì il pendio della cava per montare di guardia. Devoto e Urtica si erano ritirati in disparte e conversano accalorati. Ticcio sedeva a distanza, strimpellando le corde del suo strumento. Sapevo che stava suonando i suoi ricordi e mi chiesi se la musica potesse filtrare nella pietra.

 Mi rannicchiai e finsi di addormentarmi. Soltanto dopo una lunga attesa decisi che potevo aprire gli occhi. Tutto tranquillo. Mi avvicinai al lupo come se mi stessi muovendo nel sonno. Piano piano allungai la mano verso la zampa. Nel momento stesso in cui allargai le dita per afferrarla, il Matto parlò. "Non farlo, Ape. Lo sai che non posso permettertelo." Non si precipitò a bloccarmi. Si limitò a piegarsi in avanti per aggiungere altri due ciocchi al fuoco.

 "Qualcuno deve farlo", gli dissi. "Si sta trattenendo, per continuare a soffrire e avere qualcosa da riversare nella pietra. Perché non ha più niente per riempirla."

 "Lui non vorrebbe mai che t'immergessi nel suo lupo!"

 Lo fissai dritto negli occhi. Mi folgorò una terribile certezza. Mio padre non mi avrebbe mai voluta nella pietra con sé. Avrebbe voluto il suo Matto. Per poco non lo dissi ad alta voce. Allora gli chiesi: "Perché non ci vai tu?"

 Volevo sentirgli dire che desiderava vivere, che aveva ancora tante cose importanti da fare nella vita. Che aveva paura. Invece mi rispose in tono sommesso: "Lo sappiamo entrambi perché, Ape. L'hai scritto tu stessa, e lui me l'ha detto. È una sua decisione, soltanto sua. Lo dice il tuo sogno. L'hai descritto tutto per farmelo leggere. Un topo bianco e nero che fugge da lui. La sua lettera finale in cui sosteneva che avrebbe voluto che non fossi mai tornato, che avrebbe desiderato poter prendere le proprie decisioni in santa pace, senza di me. Che sapeva che mi ero approfittato di lui tante volte". Trasse un respiro strozzato e si coprì il volto, scosso dai singhiozzi. "Se ha mai voluto vendicarsi di me per quello che gli ho fatto, questa è la sua occasione. È la punizione peggiore che potesse infliggermi. Adesso capisco che cosa significa sentirsi abbandonati. Come io ho abbandonato lui tanto tempo fa."

 Che cos'avevo fatto?

 Una vecchia frase mi tornò alla memoria. L'avevo sentita da mio padre, l'avevo letta, me l'aveva ripetuta qualcun altro. "Non fare mai una cosa finché non avrai considerato quello che non potrai più fare una volta fatta."

 Lui abbassò le mani dal viso. "Una citazione non perfetta, ma abbastanza fedele." Aveva l'aria sconvolta. "‘Non fare quello che non puoi disfare, fino a quando non avrai considerato quello che non potrai fare se lo farai.' Le parole che ho sognato tanti anni fa. Le parole che dissi a re Sagace, perché impedisse al principe Regal di uccidere il figlio bastardo di Chevalier. Sapevo che se fossi riuscito a ripeterle al re, avrei potuto salvare la vita a Fitz. Per la prima volta." Scosse la testa. "La prima di tante volte in cui sono intervenuto per spingerlo in quel minuscolo varco del suo destino. Per tenerlo in vita e usarlo per cambiare il futuro."

 Il mondo tornò a girare nel verso giusto. Scandii ogni parola nel dirgli: "Sei proprio stupido".

 Lo sbalordimento squarciò il sudario del suo dolore.

 Potevo ancora disfare quello che avevo fatto? Affinché lui facesse quello che doveva fare? "Ho mentito!" sibilai. "Sapevo che leggevi il mio diario. Sapevo che leggevi i miei sogni. Ho scritto quello che pensavo ti avrebbe ferito di più! Ho mentito per farti del male. Perché lo avevi lasciato morire mentre tu vivevi. Perché amava te molto più di me!" Trassi un respiro affannato. "Ti amava più di quanto non abbia mai amato tutti noi!"

 "Cosa?" La sua bocca restò spalancata dopo quell'unica parola, gli occhi sgranati in un'espressione ebete di stupore.

 Come se non avesse sempre saputo di essere amato più di tutti. Di essere il suo Amato.

 "Stupido che non sei altro! Con le tue stupide domande! Va' con lui. Adesso. È te che vuole, non me. Vai!"

 Quando la mia voce aveva cominciato a trasformarsi in grida? Non lo sapevo e non m'importava. Che si svegliassero pure tutti quanti per assistere allo spettacolo. Perché era questo che stava accadendo. Devoto si era alzato con la spada in pugno, guardandosi intorno in cerca di nemici. Il resto dell'accampamento cominciò a muoversi ancora assonnato, destato dalle mie urla. Ticcio mi fissava esterrefatto. Urtica si stringeva il volto tra le mani, inorridita dalle parole che aveva udito.

 E mio padre sollevò una mano. Aveva il viso così sfigurato che sembrava di vedere la morte stessa. Fatta eccezione per il lato d'Argento, liscio e intatto. Lenta, tremante, la sua mano si alzò e si girò, mostrando il palmo insanguinato. Le sue labbra screpolate si mossero.

 Amato.

 Non aveva più voce per pronunciarla, ma io la sentii lo stesso.

 Come pure il Matto.

 Si alzò. La coperta che si era drappeggiato sulle spalle gli scivolò ai piedi. Si sfilò il guanto dalla mano argentata e lo lasciò cadere. S'incamminò sulle gambe incerte, come una marionetta guidata da un burattinaio alle prime armi. Si avvicinò a mio padre e, con estrema tenerezza, gli mise la mano sul palmo aperto, quindi si sdraiò sul lupo, il viso rivolto verso quello di mio padre, il braccio sulla schiena ossuta. Lo attirò a sé, poi appoggiò le dita argentate sul lupo di pietra.

 Per un attimo tutto rimase immobile. Vidi le dita di Amato arruffare il pelo del lupo. I corpi sfolgoranti di mio padre e di Amato si sciolsero e si fusero insieme. Io sentii qualcosa di impossibile da descrivere. Come uno spiffero d'aria quando si spalanca una porta e la si chiude di colpo, ma era nella corrente d'Arte, così potente che persino Urtica trasalì. Per una frazione di secondo irradiarono una luce abbagliante: un nesso, uno snodo sul sentiero del fato. Che subito si spense. Qualcosa si era compiuto, com'era giusto che fosse.

 I loro colori sbiadirono e gli occhi del lupo scintillarono. Durò un'eternità, durò un attimo: mio padre e il Matto non c'erano più, restava soltanto il lupo. Il ringhio si addolcì. Le orecchie fremettero e si drizzarono. L'enorme testa si girò lentamente; alzò il muso e fiutò l'aria della notte. Che occhi aveva! Abissi di tenebra, scintillanti di vita. Per un attimo catturarono il bagliore del falò e brillarono di riflessi verdi. Eravamo tutti paralizzati, come davanti a un colossale predatore. Poi, quasi fosse un cane bagnato, il lupo si scrollò la pelliccia e minuti frammenti di pietra schizzarono in tutte le direzioni, come se si fosse rotolato a terra.

 Il suo sguardo vagò su tutti noi, soffermandosi su ciascun volto, fino a posarsi su di me. La sua espressione era dura, ma compiaciuta. Che bugie articolate, cucciola. E l'ultima, la più ispirata di tutte. Hai il talento di tuo padre per queste cose. Si diede una scrollata finale. Adesso vado a caccia!

 I suoi artigli lasciarono solchi profondi nella pietra quando spiccò il balzo. Superò in volo non soltanto il falò ma tutti noi, atterrò nella tenebra dall'altra parte e, in un attimo, si dileguò.

 "Ce l'ha fatta!" gridò Devoto. "Ce l'ha fatta!" Afferrò le mani di Urtica e la fece girare in tondo.

 Ticcio si alzò e, con la sua voce melodiosa da menestrello, declamò ai presenti: "Il Lupo dell'Ovest è sorto dalla pietra! E tornerà a sorgere se mai i Sei Ducati dovessero chiamarlo in aiuto".

 "I Sette Ducati", lo corresse Kettricken.