Mendicante
Un sogno breve ma dai colori così vividi che non posso dimenticarlo. Sarà importante? Mio padre sta parlando con una persona che ha due teste. Sono talmente assorti nella conversazione che, sebbene io tenti d'interromperli a gran voce, non mi danno ascolto. Nel sogno dico: "Trovatela. Trovatela. Non è troppo tardi!" Nel sogno sono un lupo fatto di nebbia. Ululo forte, ma loro non si voltano.
Diario dei sogni di Ape Lungavista
NON ero mai stata tanto sola. E affamata. Persino Padre Lupo sembrava incerto sul da farsi. Cerchiamo una foresta. Là potrei insegnarti a essere un lupo come tuo padre insegnò a me.
Le rovine erano un enorme cumulo di pietra annerita e fusa. I bordi di alcuni blocchi erano arrotondati e sciolti come cubetti di ghiaccio al sole. Fui costretta ad arrampicarmi sulle mura diroccate, con la paura che un passo falso mi avrebbe fatta precipitare in una delle fenditure tra una pietra e l'altra. A un tratto scovai due blocchi inclinati l'uno addosso all'altro come una sorta di tenda e strisciai nel piccolo varco. Accovacciata all'ombra, cercai di raccogliere i pensieri e le forze. Non dovevo farmi vedere da Dwalia e dagli altri. Non avevo né cibo né acqua, soltanto gli indumenti che avevo indosso e la candela infilata nella camicia. Avevo perso lo scialle ammuffito l'ultima volta che mi avevano picchiata, insieme al berretto di lana. Come avrei fatto a ritrovare la strada per il Cervo o anche solo a raggiungere i confini dei Sei Ducati? Ripassai a mente la geografia del Chalced. Sarei riuscita a farcela a piedi fino a casa? Era una regione ostile, dove il calore saliva dalla terra stessa. C'era un deserto, mi parve di ricordare, e anche una catena di basse montagne. Scossi la testa. Era inutile. Non riuscivo a pensare con la pancia che brontolava e la bocca asciutta.
Rimasi nascosta fino al calare della notte. Tesi le orecchie, ma non udii nulla da parte di Dwalia e degli altri. Forse era riuscita a emergere dal cumulo di pietre e forse Vindeliar aveva manipolato ancora una volta la mente del chalcediano. Che cos'avrebbero fatto? Probabilmente si sarebbero diretti in città o a casa di Kerf. Oppure mi avrebbero cercata? Tante domande e nessuna risposta.
Non appena fu abbastanza buio, mi avventurai per una zona devastata dal fuoco dei draghi. Case un tempo eleganti avevano i tetti scoperchiati e buchi neri al posto di porte e finestre. Le macerie erano state in gran parte sgomberate dalle strade; razziatori e sciacalli si erano dati un gran daffare. Alle mura ancora in piedi mancavano parecchi blocchi di pietra, dove crescevano erbacce e cespugli scheletrici. Scavalcai i resti del muro di cinta di un giardino e trovai dell'acqua nella vasca verde di muschio di una fontana distrutta. Bevvi dalle mani a coppa e mi lavai il viso. L'acqua mi bruciò la pelle dei polsi escoriati. Mentre mi aggiravo tra le erbe aromatiche del giardino, fiutai odore di menta. Ne mangiai qualche fogliolina, tanto per avere qualcosa nello stomaco. Sfiorandole con le dita riconobbi le foglie a ombrello del nasturzio, ne strappai qualche stelo e me lo infilai in bocca. Dietro un graticcio sbilenco fitto di rampicanti scovai una capanna abbandonata.
Mi arrampicai attraverso una finestra bassa e alzai lo sguardo verso il cielo che si affacciava dal soffitto sfondato. Sarebbe stata una notte limpida e fredda. Trovai un angolino relativamente libero dai detriti e in parte coperto dal tetto crollato, m'infilai sotto e mi accoccolai al buio come un cane randagio. Chiusi gli occhi. Il sonno arrivò, ma fu interrotto da sogni tormentosi. Fette di pane tostato e tè a Giuncheto. Papà che mi portava a cavalcioni sulle spalle. Mi svegliai piangendo. Mi rannicchiai ancora di più e mi sforzai di escogitare un piano che mi riportasse a casa. Il pavimento era duro e mi doleva la spalla. Mi faceva male la pancia, e non soltanto per la fame, ma anche per i calci che mi avevano dato. Mi tastai l'orecchio e sentii i capelli incrostati di sangue. Probabilmente avevo un aspetto orribile, spaventoso quanto quello del mendicante che avevo aiutato a Querceto d'Acqua. L'indomani sarei diventata anch'io una piccola mendicante. Avrei fatto di tutto per procurarmi qualcosa da mangiare. Appoggiai la schiena al muro e mi raggomitolai stretta. Dormii a sprazzi in una notte che non sarebbe stata tanto fredda, se non l'avessi passata all'addiaccio coperta soltanto da logori cenci.
Quando sorse il sole, vidi un cielo azzurro solcato da nuvole bianche. Ero indolenzita, affamata, assetata, sola. E libera. Uno strano odore aleggiava nell'aria, oltre a quello dei focolari accesi, dei canali di scolo, della cacca di cavallo. Bassa marea, sussurrò Padre Lupo. L'odore del mare quando le onde si ritirano.
Mi arrampicai su quello che restava delle mura della casa per esaminare l'ambiente circostante.
Mi trovavo su una piccola altura nel cuore di un'ampia vallata. Scorsi il luccichio di un fiume oltre la città più in basso. Alle mie spalle, case, edifici e strade ricoprivano la terra come croste infette. Il fumo si levava dai comignoli. Nei pressi della città, lingue d'acqua marrone lambivano le numerose navi all'ancora. Un porto. Conoscevo la parola, ma finalmente ne vedevo il significato. Erano acque riparate, come chiuse tra un pollice e un indice di terra. In lontananza c'era altra acqua che si estendeva fino all'orizzonte. Avevo sentito parlare così spesso del mare blu che adesso non riuscivo quasi a concepire che quelle acque dalle mille sfumature di verde e azzurro, argento e grigio e nero fossero ciò di cui cantavano i menestrelli. I menestrelli parlavano anche della seduzione del mare, ma io non sentivo niente. Era soltanto una distesa enorme, vuota e pericolosa. Mi voltai. Scorsi una serie di basse colline giallastre alle spalle della città. "Non ci sono foreste", mormorai.
Ah. Questo spiega parecchie cose sui chalcediani, disse Padre Lupo. Attraverso i miei occhi, scrutò il territorio sfregiato da edifici e strade lastricate. È un tipo diverso e pericoloso di natura selvaggia. Temo che ti sarò di scarso aiuto qui. Sii prudente, cucciola. Molto prudente.
Il Chalced si stava destando. C'erano lunghe strisce di città danneggiata sotto di me, ma i draghi avevano concentrato la propria furia sull'area intorno all'edificio crollato. Il palazzo del duca, aveva detto Kerf. Frugai tra i ricordi. Avevo sentito parlare di quella devastazione in una conversazione tra mia madre e mio padre. I draghi di Kelsingra erano piombati sul Chalced e avevano attaccato la capitale. Il vecchio duca era rimasto ucciso e la figlia era subentrata come duchessa di Chalced. Nessuno ricordava un'epoca in cui avesse regnato una donna. Mio padre aveva detto: "Dubito che ci sarà la pace con il Chalced, ma almeno saranno talmente impegnati nella guerra civile che non ci daranno troppo fastidio".
Io non vidi traccia di guerra civile. Gente ben vestita camminava lungo i viali tranquilli. Carretti trainati da muli o grosse capre cominciarono a invadere le strade, in un andirivieni di sottane morbide e pantaloni neri. Vidi scaricare reti colme di pesci argentei da una barca tirata in secco e rimorchiare una nave in mare aperto; la guardai allontanarsi silenziosa con le vele spiegate come ali di uccello. Vidi due mercati, uno nei pressi del porto e l'altro su un ampio viale. Quest'ultimo aveva bancarelle dai tendoni variopinti, mentre il primo era più modesto e scialbo. La fragranza del pane appena sfornato e l'odore pungente della carne essiccata mi solleticarono le narici e, sebbene fievoli, mi fecero venire l'acquolina in bocca.
Il mio piano era di presentarmi come una mendicante muta che elemosinava qualche moneta o cibo, tuttavia la casacca lacera, i pantaloni imbottiti e gli stivali di pelliccia avrebbero rivelato che ero una straniera in quella città d'indumenti colorati e leggeri.
Non avevo scelta. Potevo restare nascosta tra le rovine e morire di fame, o rischiare scendendo in città.
Mi diedi una ripulita. Sarei stata una mendicante, ma non ripugnante. Speravo che i capelli chiari e gli occhi azzurri mi facessero passare per una chalcediana e avrei finto di non avere voce. Mi tastai il viso, stringendo i denti quando toccai i lividi e i tagli non ancora guariti. Forse la compassione sarebbe servita alla mia causa, tuttavia non potevo contare soltanto sulla pietà.
Mi tolsi gli stivali di pelliccia. La giornata primaverile era già troppo calda per indossarli. Li spazzolai e li lisciai meglio che potevo. Srotolai i brandelli delle calze e mi fissai i piedi nudi e scorticati. Non ricordavo l'ultima volta che avevo camminato scalza. Avrei dovuto abituarmi. Mi strinsi gli stivali al petto e mi avviai verso il mercato.
Dove c'è gente che vende le cose, c'è gente che le compra. Avevo i piedi sporchi e piagati quando raggiunsi il mercato, ma la tortura della fame era più forte del dolore. Era un supplizio aggirarmi tra i banchi di frutta fresca, pane e carne. Ignorai gli sguardi curiosi dei passanti e mi sforzai di apparire calma e rilassata, non una straniera.
Trovai le bancarelle che vendevano stoffe e abbigliamento e poi i carretti che offrivano indumenti usati e stracci. Offrii gli stivali a gesti a diversi banchi prima che qualcuno mostrasse interesse. La donna che li prese se li rigirò tra le mani più volte, mi scrutò accigliata, poi tornò a esaminarli e infine mi porse sei monete di rame. Non avevo modo di contrattare. Giusta o ingiusta che fosse la sua offerta, era l'unica che avevo ricevuto. Intascai le monete, accennai un inchino con la testa e mi allontanai, cercando di mescolarmi tra la folla, ma sentii che il suo sguardo mi seguiva.
Offrii in silenzio due monete a una bancarella di pane. Il venditore mi fece una domanda e io risposi indicando la mia bocca chiusa. Il giovane fornaio guardò le monete, poi me, arricciò le labbra e si girò verso una cesta coperta. Mi porse un panino duro, probabilmente vecchio di qualche giorno. Lo presi con le mani tremanti e lo ringraziai con un cenno del capo. Una strana espressione gli solcò il viso. Mi afferrò il polso e io trattenni a stento un urlo, ma poi lui scelse dal banco della merce fresca un piccolo cannolo dolce e me lo diede. Credo che la mia espressione d'immensa gratitudine lo mise in imbarazzo, perché mi scacciò bonariamente come se fossi una gattina randagia. M'infilai il cibo nella tunica insieme alla candela spezzata e corsi in cerca di un posto sicuro dove mangiare.
In fondo al mercato scorsi una fontana pubblica. Non avevo mai visto una cosa del genere: un getto d'acqua tiepida gorgogliava in una vasca bordata di pietra, da dove l'eccesso veniva incanalato in un condotto. Vidi donne riempire i secchi e poi una bambina chinarsi a bere dalle mani a coppa. La imitai, inginocchiandomi a raccogliere l'acqua. Aveva uno strano odore e un sapore ferroso, ma non era velenosa e fondamentalmente era acqua. Bevvi a sazietà, poi me la spruzzai sul viso e mi lavai le mani. Evidentemente era un gesto inaccettabile, perché un uomo emise un verso di disgusto e mi rimproverò con lo sguardo. Mi affrettai a rialzarmi e corsi via.
Oltre il mercato c'era una strada di bottegai. Niente bancarelle, ma solide strutture di pietra e legno, con le porte aperte per accogliere il tepore della giornata. Nel passare fiutai l'odore della carne affumicata e udii il rumore di un carpentiere che piallava il legno. C'erano cataste di legname grezzo in uno spazio aperto di fianco alla falegnameria. Controllai da una parte e dall'altra, poi m'infilai all'ombra delle tavole per nascondermi dalla strada. Mi sedetti a terra e appoggiai la schiena a una pila di assi dall'odore dolciastro. Tirai fuori il panino vecchio: era duro e stantio… e squisito. Tremavo mentre mangiavo. Dopo averlo finito, rimasi seduta ad ansimare, gustandomi la sensazione dell'ultimo boccone che scendeva nello stomaco. Avrei potuto mangiarne altri dieci.
Presi il cannolo dolce e lo annusai. Mi dissi che avrei fatto meglio a conservarlo per l'indomani; poi però obiettai che, portandolo addosso, avrei potuto farlo cadere o perderne qualche briciola. Mi persuasi in fretta. Lo mangiai. Era ricoperto da un velo di miele che aveva intriso la pasta, farcita con pezzetti di frutta e spezie. Lo gustai con esasperante lentezza, a piccoli morsi, assaporandone la dolcezza piccante. Finì troppo presto. In qualche modo avevo placato la fame, ma il ricordo mi tormentava ancora.
Mi sovvenne un altro ricordo, un altro mendicante, sfigurato e lacero, che tremava di freddo. Probabilmente più affamato di quanto fossi io al momento. Avevo cercato di essere gentile con lui. Poi mio padre lo aveva pugnalato più volte, ma subito dopo mi aveva abbandonata per portarlo a Castelcervo e curarlo. Cercai d'incastrare quelle poche informazioni con quanto avevo sentito, tuttavia il quadro che si componeva non aveva senso. Allora mi domandai come mai nessuno mi guardasse – piccola, sola e affamata – e mi offrisse una mela.
Mi venne di nuovo l'acquolina al pensiero della mela che avevo donato a quel mendicante. Oh, le caldarroste di quel giorno, con la buccia bollente e la polpa dolce al palato. Mi piegai in due per i crampi allo stomaco.
Mi restavano quattro monete. Se il fornaio avesse continuato a mostrarsi gentile anche l'indomani, avrei mangiato per altri due giorni. Poi, o avrei ricominciato ad avere fame, oppure sarei stata costretta a rubare.
Come avrei fatto a tornare a casa?
Intanto il sole ardeva implacabile e la giornata si era fatta più luminosa. Abbassai lo sguardo. Avevo i piedi nudi incrostati di sporcizia e le unghie lunghe; i pantaloni sudici e la tunica verde di Giuncheto macchiata e sfilacciata sull'orlo. La camicia aveva i polsini luridi. Una mendicante molto convincente.
Sapevo di dover scendere al porto e informarmi se qualche nave fosse diretta nel Cervo o in qualunque altro approdo dei Sei Ducati. A ogni modo, come avrei fatto a chiedere un passaggio e che cosa avrei potuto offrire in cambio? Il sole scottava e i miei indumenti erano troppo caldi per quel clima. Mi spostai all'ombra e mi sdraiai rannicchiandomi contro una catasta di legna. Non volevo addormentarmi, tuttavia la stanchezza ebbe la meglio.
Mi svegliai che era pomeriggio inoltrato. L'ombra si era spostata, ma avevo dormito finché i raggi obliqui del sole non si erano posati sulle mie palpebre chiuse. Mi misi a sedere con un forte senso di nausea. Avevo sete e mi sentivo stordita. Mi alzai in piedi a fatica e m'incamminai. La mia piccola riserva di coraggio si era esaurita. Non me la sentivo di scendere al porto né di esplorare la città. Decisi di tornare alle rovine dove mi ero rifugiata la notte prima.
In una città straniera e sconosciuta, avrei trovato conforto in quel poco che avevo già visto. Alla luce del giorno l'acqua della vecchia fontana nel giardino abbandonato era verdastra e brulicante d'insetti neri. Ma era acqua e io avevo sete. Ne bevvi a piene mani, poi mi spogliai per lavarmi. Sciacquai anche i vestiti e scoprii che era un lavoro faticoso. Ancora una volta mi resi conto di quanto fosse stata facile la mia vita a Giuncheto, quando avevo dei servitori pronti a soddisfare ogni mia esigenza. Ero sempre stata gentile con loro, ma li avevo mai ringraziati davvero per quello che facevano? Mi tornò in mente Prudenza e la volta che mi aveva prestato i suoi polsini di merletto. Era ancora viva? Mi pensava qualche volta? Avrei voluto piangere, però le lacrime non vennero.
Ripresi a escogitare un piano mentre lavavo e strofinavo con foga i miei indumenti. All'inizio Dwalia mi aveva scambiata per un maschio. Sì, sarei stata più al sicuro se mi fossi presentata come un ragazzo. Chissà se una nave diretta nei Sei Ducati aveva bisogno di un mozzo? Avevo sentito parlare delle straordinarie avventure vissute da certi ragazzi. Nelle canzoni dei menestrelli alcuni erano diventati pirati, altri avevano trovato tesori o avevano assunto il comando di un vascello. L'indomani avrei speso altre due monete per comprare del pane e l'avrei mangiato. Questa parte del piano mi piaceva molto. Poi sarei scesa al porto e mi sarei informata se qualche nave era in procinto di salpare per i Sei Ducati e se erano disposti a darmi un passaggio in cambio di qualche lavoro. La mia parte razionale obiettò che apparivo piccola e gracile, non ero molto forte e non sapevo una parola di chalcediano, ma la misi a tacere. In qualche modo me la sarei cavata.
Dovevo farcela.
Stesi i panni ad asciugare su un muretto basso e mi sdraiai nuda sulle pietre riscaldate dal sole di un cortile deserto. La candela di mia madre era spezzata, tenuta insieme soltanto dallo stoppino, la cera sporca e graffiata, ma serbava ancora il suo odore. Sapeva di casa, di sicurezza, di mani delicate. Mi addormentai all'ombra screziata di un albero inclinato. Quando mi svegliai, il sole stava calando e i miei vestiti erano quasi asciutti. Avevo di nuovo fame e temevo il freddo della notte. Avevo dormito tanto, però mi sentivo ancora esausta; mi domandai se il viaggio nei pilastri di pietra mi avesse sottratto più energie di quanto avessi immaginato. Strisciai ancora più sotto il tronco inclinato dove le foglie di molti autunni avevano formato un soffice tappeto sulla pietra. Scacciai il pensiero dei ragni e degli altri insetti molesti che vi si potevano annidare all'interno. Mi rannicchiai e presi sonno di nuovo.
A un certo punto della notte mi venne meno il coraggio. Mi svegliai al suono del mio stesso pianto e, una volta sveglia, non riuscii più a frenare i singhiozzi. Mi morsi le nocche per attutire il rumore e piansi. Piansi per la mia casa perduta, per i cavalli bruciati nell'incendio, per Bagordo morto in una pozza di sangue ai miei piedi. Tutto quello che mi era successo, tutto quello che avevo visto senza avere il tempo di reagire mi invase la mente come un fiume in piena. Mio padre mi aveva abbandonata per il bene di un mendicante cieco, e probabilmente Perseverante era morto. Avevo lasciato Sciò indietro e speravo il meglio per lei. Chissà se era sopravvissuta ed era tornata a Giuncheto per raccontare che cosa ci era successo. Sarebbe venuto qualcuno a cercarmi? Rammentai FitzVigilante, il suo sangue rosso sulla neve bianca.
All'improvviso tornare a casa mi parve impossibile. Tornare dove? Chi avrei trovato? Forse soltanto persone che mi odiavano perché la gente pallida era venuta per me. D'altro canto, se anche fossi riuscita a tornare, Dwalia e i suoi lurik non avrebbero intuito dove sarei fuggita? Mi avrebbero rintracciata e di nuovo messo a ferro e fuoco la tenuta. Mi strinsi le ginocchia al petto e mi dondolai disperata, consapevole che non c'era nessuno a proteggermi.
Ti proteggerò io. Le parole di Padre Lupo mi giunsero più lievi di un sussurro.
Era soltanto nella mia mente, soltanto un'idea. Come poteva proteggermi? Che cos'era in realtà? Un'immagine che avevo evocato dai frammenti dei diari di mio padre?
Sono reale e sono con te. Fidati di me. Posso aiutarti a proteggerti da sola.
Mi pervase un improvviso impeto di rabbia. "Tu non mi hai protetta quando mi hanno rapita. Non mi hai protetta quando Dwalia mi ha picchiata e trascinata nel pilastro. Sei un sogno. Qualcosa che ho immaginato perché ero piccola e spaventata. Ma adesso non mi servi più. Nessuno può aiutarmi."
Nessuno tranne te stessa.
"Sta' zitto!" gridai, e subito mi coprii la bocca con la mano, inorridita. Dovevo nascondermi, non strillare contro una creatura immaginaria nel cuore della notte. Indietreggiai ancora di più sotto l'albero finché non incontrai l'ostacolo di un muro crollato. Mi raggomitolai, chiusi gli occhi e le barriere mentali, e mi addormentai.
Il mattino seguente mi svegliai con le guance rigate di sale per le lacrime versate. La testa mi martellava e avevo la nausea per la fame. Passò diverso tempo prima che mi convincessi a strisciare fuori dall'ombra dell'albero. Non me la sentivo di scendere al mercato, così vagabondai tra le rovine. Scorsi qualche lucertola e qualche piccola serpe che si crogiolavano al sole sulle pietre. Pensai di catturarne una per mangiarla, ma come feci per avvicinarmi, guizzarono leste sotto i sassi. Per due volte avvistai della gente che probabilmente viveva nelle case diroccate. Fiutai l'odore dei fuochi e vidi logori panni stesi ad asciugare. Mi tenni alla larga.
Alla fine la fame mi spinse a tornare al mercato. Mi aggirai barcollante tra le bancarelle in cerca del fornaio del giorno prima, ma non lo trovai. La fame sempre più incalzante mi costrinse ad avvicinarmi a un altro banco. Una donna dall'espressione arcigna stava preparando delle frittelle gonfie con un ripieno dal profumo stuzzicante che cuoceva su una griglia. Sul fuoco che ardeva in un largo recipiente di metallo c'era una padella dove sfrigolavano le frittelle. Usò un paio di lunghe pinze per farle dorare su entrambi i lati.
Le porsi una moneta, ma lei scosse la testa. Mi rintanai dietro una bancarella per poterne estrarre un'altra dalla camicia annodata. Per due soldi, la donna appoggiò una frittella su una grossa foglia verde, che poi richiuse legandola con un truciolo di legno e me la porse. La ringraziai con un cenno del capo, però lei stava già guardando oltre le mie spalle in attesa del prossimo cliente.
Non sapevo se la foglia fosse commestibile oppure servisse da tovagliolo. Ne mordicchiai il bordo; il gusto non era sgradevole. Ragionai che nessun venditore avrebbe avvolto del cibo in qualcosa di velenoso. Scovai un posticino tranquillo dietro una bancarella vuota e mi sedetti a mangiare. La frittella non era grande, mi entrava giusto nel palmo, e volevo assaporarla adagio. Il ripieno era friabile e sapeva vagamente di pecora bagnata. Non m'importava. Al secondo morso, mi resi conto di essere osservata da un ragazzino che sbirciava dallo spazio tra due banchi. Distolsi lo sguardo, staccando un altro morso, e quando rialzai gli occhi, vidi che si era aggiunto un secondo ragazzino, più piccolo e con una lacera camicia a righe. Avevano i capelli e i piedi sporchi, e i vestiti logori, gli occhi da predatori famelici. Provai un senso di vertigine nel guardarli, perché rammentai quando il mendicante di Querceto d'Acqua mi aveva preso la mano. Davanti agli occhi mi sfilò un turbinio di eventi possibili che non riuscivo a distinguere e a capire quali fossero positivi e quali negativi. Sapevo soltanto che dovevo evitarli.
Quando un carretto trainato da un mulo ci passò in mezzo, mi spostai carponi dietro l'angolo della bancarella e m'infilai il resto della frittella in bocca. Era un boccone troppo grosso, però almeno avevo le mani libere. Mi alzai e cercai di confondermi tra la folla.
In realtà il mio abbigliamento richiamò più di uno sguardo incuriosito. Io tenevo gli occhi bassi nel tentativo di non attirare l'attenzione. Mi lanciai qualche occhiata alle spalle, ma non vidi più i due ragazzini, anche se non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che mi stessero seguendo. Se mi avessero rubato le ultime due monete, non mi sarebbe rimasto più niente. Lottai contro il panico che minacciava di travolgermi. Non pensare da preda. Un avvertimento da parte di Padre Lupo o una riflessione mia? Rallentai il passo, trovai un posto dove rintanarmi dietro un carretto d'immondizia e mi misi a studiare la gente che passava.
C'erano altri come me al mercato, ma quei piccoli mendicanti erano molto più ferrati nel mestiere. Tre ragazzini, due femmine e un maschio, bighellonavano nei pressi di una bancarella di frutta, nonostante gli sforzi del venditore di cacciarli. All'improvviso i tre afferrarono ciascuno un frutto e sfrecciarono via in direzioni diverse, mentre il venditore imprecava e gridava al figlio di inseguirne uno.
Vidi anche quelli che mi parvero soldati della guardia cittadina. Indossavano corti mantelli arancioni che arrivavano appena alle ginocchia, pantaloni di tela grezza, leggere tuniche di pelle e stivali bassi. Erano armati di piccoli bastoni nodosi, mentre al fianco portavano spade rinfoderate. Marciavano a gruppi di quattro al centro del viale del mercato; i venditori offrirono loro spiedini di carne, pagnotte o tranci di pesce su piccole focacce non lievitate. Mi chiesi se tanta generosità fosse dovuta alla gratitudine o alla paura, e mi dileguai in fretta.
Alla fine scesi al porto, un luogo rumoroso e gremito di gente. Uomini che spingevano a mano piccoli carretti, tiri di cavalli che trainavano carri coperti, in un continuo andirivieni sulle passerelle delle navi. Gli odori erano forti, ma soprattutto c'era puzza di catrame e di alghe marce. Restai in disparte a osservare nel tentativo d'indovinare la destinazione di ciascun vascello. Non avevo alcuna intenzione di farmi portare oltre i Sei Ducati. Ammirai stupita un marchingegno di cui non conoscevo il nome sollevare dalla banchina una rete contenente diverse casse di legno per depositarla sul ponte di una nave. Vidi un giovane ricevere tre sferzate sulla schiena nuda mentre guidava la rete oscillante sul ponte di coperta. Non riuscivo a capire che cosa avesse fatto di male o perché fosse stato punito, ma mi rintanai nell'ombra immaginando quei colpi calare su di me.
Nessuno della mia corporatura minuta lavorava sulle banchine, anche se scorsi parecchi ragazzi della mia età. Lavoravano a torso nudo correndo a piedi scalzi sui pontili di legno, evidentemente per qualche missione urgente. Un ragazzo aveva una ferita purulenta sulla schiena. Un carrettiere mi gridò di spostarmi, mentre un uomo non si prese nemmeno la briga di avvertirmi, ma mi spinse da parte con una spallata, mentre trasportava due pesanti rotoli di corda.
Terrorizzata, risalii verso il mercato per tornare alle rovine.
Mentre lasciavo il mercato, un giovanotto con un elegante mantello decorato a rosette gialle mi chiamò con un sorriso. Mi fece cenno di avvicinarmi e quando mi fermai a debita distanza, chiedendomi che cosa volesse da me, si accovacciò per arrivare alla mia altezza. Piegò la testa da un lato e pronunciò con voce suadente alcune parole che non capii. Sembrava gentile. Aveva i capelli più biondi dei miei, tagliati corti, e indossava orecchini di giada. Un giovanotto facoltoso e di buona famiglia, pensai. "Non capisco", risposi esitante nella lingua comune.
I suoi occhi azzurri si ridussero a due fessure, poi il suo sorriso si allargò. Con un forte accento mi disse: "Bel mantello nuovo. Vieni. Tanto cibo". Fece un passo verso di me e io sentii il profumo dei suoi capelli impomatati. Mi tese la mano con il palmo rivolto verso l'alto, in attesa della mia.
Scappa! Presto! mi esortò Padre Lupo senza tante cerimonie.
Io scoccai al giovane sorridente un'ultima occhiata, scossi la testa e scappai a gambe levate. Udii che mi chiamava, ma io continuai a correre, pur non sapendo perché. Lui mi chiamò di nuovo, però io non mi voltai. Non dirigerti subito verso la tana. Nasconditi e guarda indietro, mi avvertì Padre Lupo. Io obbedii, tuttavia non vidi nessuno. Più tardi, quella notte, rannicchiata sotto l'albero inclinato, mi chiesi perché fossi fuggita.
Occhi da predatore, rispose Padre Lupo.
Che cosa farò domani? gli chiesi.
Non lo so, fu la sua risposta avvilita.
Quella notte sognai casa, pane tostato e tè bollente sul tavolo della cucina. Nel sogno ero troppo piccola per arrivare al piano del tavolo e non riuscivo a raddrizzare la panca capovolta. Chiamai Prudenza per farmi aiutare, ma poi mi girai e la vidi riversa sul pavimento in una pozza di sangue. Scappai dalla cucina urlando, però c'era gente morta ovunque. Provai ad aprire tutte le porte in cerca di un nascondiglio, però dietro ciascuna trovavo sempre i due piccoli mendicanti, con alle spalle Dwalia che sghignazzava. Mi svegliai singhiozzando nel cuore della notte. Con sommo terrore udii delle voci che si chiamavano. Soffocai i singhiozzi e trattenni il fiato. Scorsi una fievole luce e una lanterna passò in strada, al di là del mio giardino distrutto. Due persone che parlavano in chalcediano. Trascorsi il resto della notte nascosta e vigile.
L'indomani era quasi metà mattina quando ritrovai il coraggio di tornare al mercato. Individuai il banco del pane dove mi ero fermata il primo giorno, ma stavolta al posto del giovane c'era una donna, che mi scacciò con disprezzo quando le mostrai le due monete di rame. Gliele feci vedere di nuovo, pensando che ne avesse vista soltanto una, ma lei mi sibilò qualcosa e batté le mani minacciosa. Indietreggiai, decisa a procurarmi del cibo da qualche altra parte, però in quel momento uno dei due ragazzini laceri del giorno prima mi spintonò. Mentre cadevo, l'altro mi rubò le monete, e i due si dileguarono in un lampo tra la folla. Rimasi seduta nella polvere, senza fiato. Poi, nonostante la vergogna, scoppiai in singhiozzi. Mi coprii il viso con le mani e piansi senza ritegno.
Nessuno badò a me. Il flusso di gente del mercato mi aggirava quasi fossi un sasso nella corrente di un fiume. Anche dopo aver smesso di piangere, restai ancora lì seduta e smarrita. Avevo una fame terribile, mi doleva la spalla, il sole picchiava implacabile sul mio mal di testa e non sapevo più che cosa fare. Come potevo anche solo immaginare di tornare a casa quando non ero nemmeno capace di arrivare a fine giornata?
Un uomo che guidava un carro trainato da un mulo mi pungolò con il frustino. Non era una sferzata, ma un avvertimento. Mi affrettai a togliermi di mezzo. Lo guardai passare e mi asciugai le lacrime e la polvere dal viso con la manica. Mi guardai intorno. La fame che mi tormentava sembrava vecchia di settimane, non di un giorno appena. Finché avevo avuto la prospettiva di poter mangiare qualcosa ogni giorno, anche se poco, ero riuscita a gestirla, ma adesso era incontrollabile. Drizzai le spalle, mi asciugai di nuovo gli occhi e mi allontanai dal banco del pane.
Mi aggirai per il mercato a passi lenti, studiando ogni bancarella e ogni venditore. Il mio dilemma morale durò il tempo di deglutire la saliva che mi aveva inondato la bocca nel sentire il profumo dei cibi. Il giorno prima avevo visto come si faceva. Purtroppo non avevo nessuno con me per creare un diversivo e se qualcuno avesse deciso di rincorrermi, sarei stata l'unica lepre da inseguire. La fame accelerò i miei processi mentali. Avrei dovuto scegliere una bancarella, un obiettivo e una via di fuga. Poi mi sarei messa ad aspettare nella speranza che qualcosa distraesse il venditore. Ero piccola e veloce. Potevo farcela. Dovevo farcela. Non riuscivo più a sopportare i morsi della fame.
Battei il mercato in lungo e in largo, concentrata sul furto. Niente di piccolo. Non avrei rischiato per un misero frutto. Avevo bisogno di carne o di pane o di un filetto di pesce affumicato. Mi sforzavo di osservare senza darlo a vedere, ma un ragazzino mi agitò contro un bastone minaccioso quando fissai troppo a lungo il banco del pesce di sua madre.
Alla fine trovai quello che cercavo: un banco di pane, più grande e fornito dell'altro. Grosse ceste ricolme di pagnotte marroni e dorate erano allineate ai piedi del tavolone, dove il venditore aveva esposto la merce più pregiata: trecce di pane speziato glassate di miele, soffici tortini alle noci. Decisi che avrei preso una pagnotta dorata. La bancarella accanto vendeva sciarpe svolazzanti al vento che soffiava dal mare ed era circondata da un gruppetto di donne che esaminavano le stoffe e contrattavano animate. Dall'altro lato della strada, un lattoniere vendeva coltelli, mentre il suo socio arrotava lame di ogni genere su una ruota di pietra azionata da un apprendista madido di sudore. La cote strideva e a volte sprizzava scintille. Trovai un varco nella fiumana di gente e finsi di essere affascinata dalla ruota. Socchiusi la bocca come se non avessi altro in mente. Ero sicura che con un'espressione del genere e i miei abiti laceri, la gente non mi avrebbe prestato attenzione, ma continuai ad aspettare che accadesse qualcosa nel mercato che costringesse il fornaio a distogliere lo sguardo dalla mercanzia per poterne approfittare e rubare la pagnotta.
Quasi in risposta alle mie mute preghiere, udii uno squillo distante di corni. Tutti si voltarono in quella direzione, poi tornarono alle proprie attività. Un secondo squillo risuonò più vicino. La gente si girò di nuovo, qualcuno si scambiò un colpetto di gomito, e alla fine vidi quattro destrieri bianchi, bardati di nero e arancione, con in groppa soldati dalle sgargianti uniformi e gli elmi con il pennacchio simile a quello che svettava sulle testiere dei cavalli. Avanzavano verso di noi e i clienti del mercato si accalcarono contro le bancarelle per fare spazio. Quando i cavalieri si portarono ancora i corni alle labbra, capii che quella era la mia occasione. Gli occhi di tutti erano puntati su di loro. In un lampo mi slanciai su una cesta, afferrai una pagnotta dorata e tornai verso la strada.
Purtroppo ero talmente concentrata sul furto che non mi ero resa conto del vuoto che si era creato nel viale, mentre tutti s'inginocchiavano al passaggio dei soldati. Mi ritrovai al centro della strada deserta con il panettiere che sbraitava. Quando tentai di rientrare tra i cittadini genuflessi, qualcuno gridò cercando di afferrarmi. Altre tre schiere di soldati stavano marciando a piedi in fila per sei, e alle loro spalle incedeva una donna su un cavallo nero dai finimenti d'oro.
La folla inginocchiata era un muro impenetrabile. Un uomo mi strinse il braccio e mi tirò giù, ringhiandomi un ordine che non capii. Tentai di rialzarmi, ma lui mi mollò uno scappellotto sulla nuca. Vidi le stelle e mi arresi. Un attimo dopo mi accorsi che erano tutti zitti e immobili. Forse mi aveva intimato di stare ferma. Rimasi riversa nella polvere, con la pagnotta rubata stretta al petto. La fragranza del pane fresco era inebriante. Mi si annebbiò la mente. Abbassai il mento, aprii la bocca e staccai un morso. Accucciata a terra, rosicchiavo il pane come un topolino, mentre sfilavano il primo drappello di soldati, poi la donna sul cavallo nero e infine altre quattro file di guardie. Nessuno si mosse finché non passò una seconda schiera di uomini a cavallo. A intervalli regolari si fermavano per suonare delle campanelle di ottone. Soltanto quando furono passati tutti, i mercanti e i clienti si rialzarono in piedi per riprendere le loro faccende.
Io aspettai, continuando a masticare avida la mia pagnotta, poi approfittai dell'ultimo squillo di campanelle per tentare la fuga. Non appena provai a correre, però, l'uomo che mi aveva costretta a terra mi afferrò per il colletto della tunica e mi tirò i capelli. Mi diede una potente scrollata e gridò qualcosa. Il fornaio arrivò trafelato, mi strappò il pane di mano e urlò furibondo nel trovarlo sporco e sbocconcellato. Io mi feci piccola piccola, pensando che mi avrebbe picchiata, invece lui continuò a gridare un'unica parola e scagliò il pane a terra. Oh, quanto avrei voluto raccoglierlo, ma l'altro uomo mi teneva stretta.
La guardia cittadina. Ecco chi stava invocando l'uomo a gran voce. Arrivarono di corsa due soldati: uno sogghignò e alzò gli occhi al cielo, quasi non riuscisse a credere di essere stato chiamato per un banale furtarello, ma l'altro aveva l'aria severa e mi afferrò per la tunica, sollevandomi da terra. Cominciò a tempestarmi di domande, mentre il panettiere gridava la sua versione dell'episodio. Io scossi la testa e mi toccai la bocca nel tentativo di fargli capire che ero muta. Credevo di averlo convinto, ma quando la guardia più gentile si protese come se volesse parlare al suo commilitone e invece mi diede un pizzicotto forte, strillai di dolore.
Non avevo più scampo. Tremavo di paura e quando il soldato che mi teneva per la collottola alzò una mano per mollarmi un ceffone, urlai in lingua comune: "Avevo fame e così ho rubato. Cos'altro potevo fare? Ho tanta fame!" Poi, con mia grande vergogna, scoppiai in lacrime e indicai il pane caduto. L'uomo che mi aveva catturata per primo si chinò, lo raccolse e me lo diede. Il fornaio cercò di strapparmelo dalle mani, ma la guardia che mi tratteneva mi sottrasse alle sue grinfie, quindi, per colmo di umiliazione, mi appoggiò sull'anca e mi portò via sotto il braccio come una poppante.
Io stringevo la pagnotta tra le mani. Le lacrime e i singhiozzi non m'impedirono di ricominciare a mangiare il più in fretta possibile. Non avevo idea di che cosa stesse per succedermi, però di una cosa ero sicura: che mi sarei riempita la pancia con quel pane che mi era costato tutti quei guai.
Mi era rimasta appena una crosta con un po' di mollica quando la guardia salì tre gradini di un anonimo palazzo di pietra. Aprì la porta, mi condusse dentro e mi spinse sul pavimento, mentre l'altro soldato ci seguiva.
Un uomo più anziano, dall'uniforme azzimata, alzò gli occhi dalla scrivania dove si accingeva a pranzare. Parve alquanto seccato dall'interruzione. Le guardie discussero sopra la mia testa china, mentre io mi guardavo intorno di soppiatto. Addossata a una parete c'era una lunga panca: a un'estremità era seduta una donna con i piedi incatenati; dall'altra parte c'era un uomo con le spalle curve e la testa tra le mani. Quando alzò il viso per guardarmi, notai che aveva la bocca incrostata di sangue e un occhio gonfio e nero. Si prese di nuovo la testa tra le mani.
La guardia che mi aveva portata fin là mi scrollò per una spalla. Guardai gli uomini. Mi disse qualcosa. Io scossi il capo. Poi fu il soldato dietro la scrivania a rivolgermi la parola. Scossi di nuovo il capo. Allora mi parlò in lingua comune. "Chi sei? Ti sei smarrita, piccola?"
A quella semplice domanda, scoppiai ancora in lacrime. Lui parve vagamente sorpreso. Fece cenno agli altri due di andarsene e gli uomini obbedirono. Mentre varcava la soglia, il primo si girò a darmi un'ultima occhiata, quasi fosse preoccupato per me, ma l'uomo alla scrivania riprese a parlarmi.
"Dimmi come ti chiami. I tuoi genitori pagheranno per quello che hai rubato e ti riporteranno a casa."
Possibile? Trassi un respiro profondo. "Mi chiamo Ape Lungavista. Vengo dai Sei Ducati. Sono stata rapita e voglio tornare a casa." Una pausa e poi promisi avventata: "Mio padre pagherà qualunque somma per riavermi".
"Non ne dubito." L'uomo appoggiò un gomito sul tavolo, accanto a un piccolo formaggio rotondo da cui non riuscivo a staccare gli occhi. Il tizio si schiarì la voce. "Come mai stavi correndo per le strade di Chalced, Apelungavista?"
Pronunciò il mio nome come un'unica parola. Non lo corressi. Per quel che valeva. Se mi avesse ascoltata e avesse avvertito mio padre, sapevo che lui avrebbe pagato il riscatto. Oppure l'avrebbe fatto Urtica. Ne ero certa. E così cominciai a raccontargli la mia storia, omettendo le parti più incredibili e assurde. Gli dissi che i chalcediani avevano razziato la mia tenuta e mi avevano rapita. Non spiegai com'ero arrivata nel Chalced, soltanto che ero sfuggita alle grinfie di Kerf e dei suoi compari, che erano stati crudeli con me. E adesso volevo soltanto tornare a casa, e se lui avesse mandato un messaggio, mio padre sarebbe subito venuto con i soldi per riprendermi.
Lui si accigliò perplesso davanti al mio profluvio di parole, ma alla fine annuì serio. "Bene. Adesso capisco, forse anche meglio di te." Suonò una campanella in un angolo della scrivania. Si aprì una porta ed entrò una giovane guardia dall'aria sonnolenta e annoiata. "Schiava fuggitiva. Proprietà di un certo Kerf. Portala nella cella in fondo. Se entro tre giorni nessuno viene a reclamarla, vendila all'asta. Bisogna risarcire il fornaio Serchin di una pagnotta di polline. O pagherà questo Kerf, oppure sottrai il prezzo dalla somma che si ricaverà dall'asta."
"Non sono una schiava!" protestai. "Non sono proprietà di Kerf! Lui è stato complice del mio rapimento!"
L'uomo alla scrivania mi scoccò un'occhiata indulgente. "Preda di guerra. Bottino conquistato in battaglia. In buona sostanza, tu gli appartieni, comunque voglia chiamarti. Può tenerti come schiava oppure chiedere un riscatto. Dipende da lui, se mai verrà a reclamarti." Si appoggiò allo schienale con un sospiro e bevve un sorso dalla tazza.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, per quanto inutili. "Seguimi", mi disse la guardia annoiata in perfetta lingua comune. Mi alzai e schizzai verso la porta, ma lui mi fece lo sgambetto scoppiando a ridere. Mi afferrò per il dorso della tunica come se fossi un sacco e mi condusse oltre la porta da cui era uscito, senza badare al fatto che mi fece urtare contro lo stipite. Allungò indietro una gamba per richiudere l'uscio, mi lanciò sul pavimento e disse: "Puoi seguirmi oppure ti mando avanti a suon di calci nel sedere. Per me è uguale".
Per me non era uguale. Mi alzai, annuii in silenzio e lo seguii. In fondo al corridoio svoltammo un angolo e scendemmo una serie di gradini. Faceva più fresco laggiù ed era più buio. L'unica luce proveniva da alcune finestrelle che si aprivano a intervalli lungo la parete. Oltrepassammo diverse porte chiuse.
La guardia aprì l'ultima e mi ordinò: "Entra". Esitai un istante, ma lui mi diede uno spintone e richiuse la porta.
Udii lo scatto metallico di un chiavistello.
La cella era piccola ma non orribile. La luce proveniva da una finestrella talmente stretta che, se anche fossi riuscita a raggiungerla, non ci sarei mai passata. In un angolo c'era una stuoia per dormire, nell'angolo opposto un buco nel pavimento. Intuii il suo utilizzo dall'odore e dalle macchie intorno. Accanto alla stuoia c'era una brocca. Ne annusai il contenuto per assicurarmi che fosse acqua. Presi un lembo della tunica, lo bagnai e mi lavai quelle stupide lacrime dal viso. Quindi mi sedetti sul giaciglio.
Indugiai per un po'. Poi mi sdraiai. Forse mi appisolai. A un tratto udii ancora lo scatto metallico e mi alzai in piedi. Un uomo aprì la porta con cautela, si guardò intorno, quindi i suoi occhi caddero su di me. Parve sorpreso nel vedere una prigioniera così piccola. "Cibo", mi disse e mi porse una scodella di terracotta. Ero talmente incredula che rimasi impalata con la scodella in mano finché l'uomo non se ne andò, richiudendosi la porta alle spalle. Soltanto allora guardai il contenuto: una densa zuppa grumosa con dei pezzetti di ortaggio arancione. Mi portai la scodella sulla stuoia e cominciai a mangiare con le mani. Era una porzione per un adulto, più cibo di quanto ne avessi ricevuto da parecchio tempo. Mentre mangiavo con studiata lentezza, cercai di pensare a che cosa avrei fatto dopo. Una volta finito, bevvi qualche sorso d'acqua e mi pulii le mani sulla camicia. La luce che filtrava dalla finestrella si andava affievolendo. Mi domandai se sarebbe successo qualcosa, ma non venne nessuno. Quando si fece buio, mi sdraiai sulla stuoia e chiusi gli occhi. Pensai a mio padre e immaginai che cosa avrebbe fatto ai secondini. O a Dwalia. Me lo figurai che la strangolava e strinsi i pugni ansimando per la soddisfazione che mi avrebbe dato. Gliel'avrebbe fatta vedere lui! Li avrebbe uccisi tutti per me. Purtroppo mio padre non era lì. Non poteva sapere dove mi trovavo. Non sarebbe venuto nessuno a salvarmi. Per un po' piansi, poi mi addormentai stringendo tra le dita la candela di mia madre.
Quando mi svegliai, c'era un piccolo riquadro di luce lunare che pioveva sul pavimento dalla finestrella. Usai il buco nell'angolo della cella e bevvi altra acqua. Aspettai. Non accadde nulla. Dopo quella che mi parve un'eternità, cominciai a gridare e a tempestare di pugni la porta. Niente. Stanca di bussare e con la voce rauca, mi sedetti sulla stuoia. Provai a contattare Padre Lupo, ma non lo trovai. Fu un momento terribile. Decisi che era sempre stato frutto della mia immaginazione, qualcosa in cui avevo finto di credere. Adesso, però, ero troppo grande e il mondo era troppo reale per continuare a fingere. Proprio quando ho bisogno di te, non ci sei. Come tutti gli altri.
Quando mi blocchi, non riesco a farmi sentire.
In che senso ti ho bloccato?
Quando chiudi la mente. Eccoci qui, di nuovo in gabbia. Almeno questi carcerieri sono gentili. Per il momento.
Per il momento?
Sarai venduta.
Lo so. Che cosa devo fare?
Adesso? Mangia. Dormi. Recupera le forze. Quando ti faranno uscire per venderti, prestami attenzione. Possiamo ancora fuggire.
Le sue parole mi diedero ben poca speranza, ma prima non ne avevo affatto. Quella notte piansi finché non mi addormentai.
La mattina dopo mi svegliai sentendomi meglio di quanto non mi accadesse da tempo. Mi controllai i lividi sulle braccia e sulle gambe. Da neri e viola, stavano virando al giallo e al verde chiaro. La pancia mi doleva meno e riuscivo a ruotare il braccio completamente. Mi pettinai i capelli con le dita e mi accorciai le unghie rosicchiandole. Un'altra guardia mi portò la scodella di cibo e mi riempì d'acqua la brocca, poi se ne andò portandosi via la scodella vuota. Non mi rivolse la parola. Stavolta nella zuppa c'erano anche delle foglie verdi fibrose e un pezzetto di ortaggio giallo. Mangiai osservando il riquadro di sole spostarsi sul pavimento e risalire lungo la parete, fino a scomparire. Scese di nuovo la notte. Piansi e dormii ancora. Sognai che mio padre mi sgridava per non aver rimesso a posto gli inchiostri. Mi svegliai che era sempre buio e, pur sapendo che un episodio del genere non era mai avvenuto, avrei tanto voluto che fosse reale. Mi riaddormentai e feci un sogno importante su un drago che nuotava e catturava mio padre. Mi svegliai con il riquadro di luce sugli occhi e desiderai tanto avere qualcosa, una penna, dell'inchiostro, con cui annotare quel sogno. Trascorsi la mattina a escogitare un modo per fissare la candela spezzata nell'orlo della camicia per non perderla.
La giornata passò. Un'altra scodella di cibo. Presto mi avrebbero venduta all'asta. Come contavano i tre giorni? A partire dal giorno in cui ero stata catturata o da quello dopo? Mi chiesi chi mi avrebbe comprata e che tipo di lavoro mi sarebbe stato affidato. Sarei riuscita a convincerli a mandare un messaggio a mio padre? Forse sarei stata venduta come schiava domestica e avrei persuaso l'acquirente a chiedere un riscatto. Avevo sentito parlare di schiavi, ma non avevo idea di come venissero trattati. Mi avrebbero picchiata? Segregata in un canile? Stavo ancora riflettendo quando sentii lo scatto della serratura. Entrò un secondino e si fece da parte.
"Questo?" chiese a qualcuno, e Kerf fece capolino dalla porta. Mi fissò con occhi vacui.
Fui quasi contenta di vederlo, poi però udii la voce di Dwalia. "La piccola bastarda! Una vera piantagrane."
"È una femmina?" esclamò la guardia sorpresa. "Credevo fosse un ragazzo."
"Anche noi!" esclamò Vindeliar. "È mio fratello!" Si affacciò dalla porta e mi sorrise. Non aveva più le guance paffute come in passato e i capelli radi erano opachi, ma negli occhi gli brillava ancora la scintilla dell'affetto. Lo odiavo. Non mi avrebbero mai scoperta se non avesse manipolato la mente di Kerf per Dwalia. Mi aveva tradita.
Il secondino lo fissò a bocca aperta. "Tuo fratello. Sì, certo, due gocce d'acqua", commentò, ma nessuno rise.
Mi veniva da vomitare. "Non conosco queste persone", dissi alla guardia. "Ti stanno mentendo."
L'uomo si strinse nelle spalle. "Non me ne frega niente, purché qualcuno paghi l'ammenda." Si rivolse a Kerf. "È stata beccata a rubare una pagnotta. Dovete risarcirla."
Kerf annuì lentamente. Sapevo che Vindeliar lo stava controllando, ma, a quanto pareva, non troppo bene. Kerf aveva l'aria assente, quasi dovesse riflettere prima di parlare. Ellik era sempre stato sicuro di sé. La magia di Vindeliar stava perdendo effetto o c'era qualcosa che non andava in Kerf? Forse i due viaggi nei pilastri erano la causa del suo strano torpore. "Pago io", disse alla fine.
"Prima i soldi, poi potrai prenderla. E ci devi anche quattro giorni di mantenimento in cella."
Chiusero la porta e se ne andarono. Lì per lì provai una piccola soddisfazione per il fatto che gli avessero addebitato un giorno in più, poi però mi venne il sospetto di aver perso la cognizione del tempo. Aspettai che tornassero, da una parte spaventata alla prospettiva di ricadere nelle loro mani, però dall'altra sollevata che qualcuno tornasse a occuparsi di me. Passarono lunghi minuti, ma alla fine udii ancora il rumore del chiavistello.
"Cammina", mi ordinò Dwalia inviperita. "Mi costi molto più di quanto vali, sai?"
I suoi occhi promettevano nuove percosse, tuttavia Vindeliar sorrideva felice. Mi sarebbe piaciuto capire perché ci tenesse tanto a me. Lui era il mio peggior nemico, però anche il mio unico alleato. Pure Kerf si era mostrato gentile con me, ma finché era Vindeliar a impugnarne le redini, non mi potevo aspettare alcun aiuto da parte sua. Magari avrei dovuto coltivare l'amicizia di Vindeliar. Forse, fossi stata più saggia, avrei dovuto farlo fin dal principio.
Dwalia si presentò con una lunga corda attorcigliata; prima che avessi il tempo di protestare, me la infilò al collo. "No!" gridai, ma lei strinse il cappio. Kerf mi afferrò la mano sinistra, lei la destra e me le strattonarono dietro la schiena. Sentii che Dwalia mi girava la corda intorno ai polsi, con poche, abili mosse; senza dubbio era abituata a farlo. Mi dolevano le braccia per la posizione scomoda, ma non potevo abbassarle senza stringere il cappio che avevo al collo. Dwalia si avvolse l'estremità della corda intorno alla mano e diede uno strattone di prova. Fui costretta a tirare indietro la testa.
"Bene", sibilò soddisfatta. "Niente più trucchetti. Andiamo."
Dopo la fresca penombra della mia cella, il sole all'esterno mi abbagliò. Faceva già molto caldo. Kerf e Dwalia marciavano avanti, con la corda tesa, e io ero costretta a trottare per tenere il passo. Vindeliar camminava al mio fianco. Ancora una volta mi colpì la sua corporatura a fagiolo con le gambe tozze. Rammentai che Dwalia lo aveva chiamato "asessuato". Mi domandai se lo avesse fatto castrare come facevano gli uomini con le capre che allevavano per la carne o era nato così.
"Dov'è Alaria?" gli chiesi sotto voce.
Lui mi guardò rattristato. "Venduta a uno schiavista. Ci servivano i soldi per comprare da mangiare e un passaggio su una nave."
Kerf trasalì. "Lei era mia. Volevo portarla a mia madre. Sarebbe stata una brava ragazza di casa. Perché l'ho fatto?"
"Vindeliar!" ruggì Dwalia.
Stavolta aprii la mente e percepii che cosa stava facendo a Kerf. Mi sforzai di capire. Fin da piccola ero capace d'innalzare le barriere mentali; mi serviva per bloccare i pensieri di mio padre e avere un po' di pace. Ma adesso la sensazione era che Vindeliar stesse costruendo un muro intorno alla mente di Kerf per bloccargli i pensieri e influenzarlo con i propri. Provai a spingere la barriera di Vindeliar: non era forte, però non sapevo come aprire una breccia. Tuttavia, lo udii sussurrare a Kerf: Non preoccuparti. Segui Dwalia. Fa' come dice. Non farti domande. Andrà tutto bene.
Non toccargli la mente. Non penetrare la sua barriera, mi ammonì Padre Lupo. Ascolta, ma senza farti accorgere.
Perché?
Se ti apri un varco nei suoi pensieri, lui potrà entrare nei tuoi. Sii prudente.
"Dove stiamo andando?" chiesi ad alta voce.
"Zitta!" ribatté Dwalia, mentre Vindeliar rispondeva: "A imbarcarci sulla nave".
Per un po' rimasi in silenzio, ma non perché me l'avesse ordinato lei. Avevo percepito che per Vindeliar era difficile parlare, seguire Dwalia e gestire Kerf contemporaneamente. Era affamato, gli faceva male la schiena e aveva bisogno di riposarsi, però si guardava bene dal chiedere a Dwalia di fermarsi. Sentii che a poco a poco il suo controllo su Kerf si rafforzava. Ottimo. Bastava una lieve distrazione a fargli perdere la concentrazione. Un piccolo dettaglio, ma utile da sapere. La voce di Padre Lupo mi sussurrò nella mente. Zanne e artigli aguzzi. Impari in fretta, cucciola. Sopravvivremo.
Sei reale?
Lui non rispose, però Vindeliar piegò la testa e mi guardò incuriosito. Su le barriere. Tienilo fuori dai tuoi pensieri. Da quel momento in poi avrei dovuto usare la massima cautela. Schermai la mente, sapendo però che quando bloccavo Vindeliar, lo stesso accadeva per Padre Lupo.