8.
Marta e madama Firmino erano rimaste immobili, come paralizzate. De Vincenzi, dopo una brevissima esitazione, stava lanciandosi giù per la scala, quando dalla parte opposta del corridoio venne il rumore dell’ascensore che arrivava e subito dopo lo scatto della porta. Cristiana apparve e, appena vide il gruppo delle persone, si avviò verso di esse. De Vincenzi le si fece incontro.
“Di dove venite, voi?”
Cristiana indossava una pelliccia di castoro e aveva sul capo un berretto rotondo dello stesso pelo. Il suo bizzarro volto pallidissimo riceveva un rilievo impressionante dalla luce livida del corridoio. Fissò De Vincenzi con tale stupore che i segni neri e sottili delle sue sopracciglia sembrarono proprio due interrogativi.
“Dalla strada... Sono uscita... Non me lo avevate vietato!”
“Infatti!... Ma dovrete dirmi...”
I singhiozzi di Rosetta lo interruppero e lo fecero voltare.
“Aspettate... Nessuna di voi deve muoversi di qui!...” E corse alla scala. Dovette scendere soltanto fino al pianerottolo del secondo piano per trovare qualcosa e questo qualcosa era il cadavere di John Bolton, alias Russel Sage, alias Edward Moran. L’uomo era caduto quando stava per arrivare al pianerottolo, sicché il suo corpo giaceva per metà ripiegato sulle lastre del pianerottolo e per metà riverso sui gradini. La porta del secondo piano, quella porta che doveva presumibilmente mettere nella cucina e nel refettorio delle operaie, era chiusa. De Vincenzi si chinò sul cadavere. L’uomo giaceva con la faccia contro terra. Né poteva essere altrimenti, d’altronde, perché un foro nero gli si apriva sulla nuca rossigna, al principio del collo, e un rivoletto di sangue gli rigava la guancia destra, andando a formar pozza sulla pietra. Gli avevano sparato alle spalle, dal basso. Gli toccò una mano. Era ancora calda. Per quel che lui se ne intendeva, lo dovevano aver colpito da poco, forse soltanto da alcuni minuti. Si rialzò e andò ad aprire l’unica porta del pianerottolo. Come lui aveva supposto, essa dava sopra una stretta anticamera, per la quale si accedeva alla cucina e poi a una sala non molto vasta, che aveva tavoli lunghi e stretti allineati alle pareti e panche: i tavoli erano coperti da tovaglie d’incerata bianca. Tutte le porte di comunicazione erano chiuse. De Vincenzi attraversò il refettorio e andò ad aprire la porta di fondo. Vide lo stanzone del laboratorio. Le operaie lavoravano. Qualcuna si volse al rumore della porta e lo fissò meravigliata. Tutto in ordine lì dentro. Gli sembrò persino inutile chiedere se avessero udito il rumore dello sparo. Adesso, sapeva perfettamente quel che doveva fare e tutti i suoi movimenti erano rapidi e calcolati. La porta di Valerio era chiusa. Quella di Verna Campbell aperta invece, e la donna stava mettendosi il grembiulino bianco sull’abito nero.
“Siete uscita con la signora O’Brian?”
Verna diede un’occhiata al cappello e al mantello deposti ancora sul letto.
"Torno adesso infatti...” disse.
“Ma siete stata con la signora?”
“Chiedetelo a lei...”
“Glielo chiederò. Ma voi rispondetemi. Di dove siete passata per venire qui?”
Fece un gesto di meraviglia e rispose:
“Siamo salite con l’ascensore... La signora ha proseguito...”
“Eravate sole voi due?”
“E chi altri?”
“Prospero O’Lary...”
“No. Non lo abbiamo veduto.”
“Non muovetevi da questa camera. Avrò ancora bisogno di parlarvi.” Girò su di sé e tornò rapidamente nel laboratorio. Vide un’operaia, che, in piedi presso un tavolo, stava misurando un taglio di seta - colori, fiori, arabeschi, un senso di pesantezza molle si sprigionava da quella seta - e si rivolse a lei. “È passato nessuno per questa sala?”
La donna aveva un volto slavato, occhi troppo chiari, la personcina grama. Le, pupille glauche le si accesero. Tutte le operaie guardavano curiosamente De Vincenzi. “Passato? Che cosa volete dire?”
“Sì. È entrato nessuno qui da voi? Avete veduto qualcuno attraversare il laboratorio?”
“No. Nessuno.”
Dalla stanza delle tagliatrici avanzò rapida Clara. “Che cosa c’è, commissario? Chi cercate?”
“Da quanto tempo siete qui, voi, signorina Clara?”
“Da molto tempo... Il mio posto è qui, sapete?, con le operaie.”
“Ebbene, ripeto a voi la domanda: avete veduto entrare qualcuno nel laboratorio? Qualcuno di estraneo alle operaie, intendo. La cameriera della signora O’Brian, per esempio...”
“No, commissario. Da un’ora almeno, nessuno è venuto.”
De Vincenzi diede un’occhiata attorno. Volti stupiti, volti maliziosi, volti incuriositi. Capelli biondi, neri, castani, rossi, in pettinature scomposte. Fece un cenno di saluto a Clara.
“Impedite a chiunque di uscire dal laboratorio... Per nessuna ragione chi si trova qui dentro deve uscirne.” E tornò nella cucina, poi sul pianerottolo. Passò accanto al cadavere, discese a precipizio la scala. In basso si trovò nell’atrio. Il portoncino di servizio era accostato. Chiunque avrebbe potuto entrare e uscire di lì... Risali. Si fermò al primo piano. Corse verso la direzione, spalancò le porte, traversò di volata l’amministrazione. In direzione trovò Prospero O’Lary. Stava seduto alla sua scrivania e consultava alcune carte. De Vincenzi non diede alcun segno di meraviglia.
“Già di ritorno?”
L’ometto era balzato in piedi.
“Voi qui, commissario? Che cosa è accaduto ancora?”
“Nulla! Non vi bastano i due cadaveri di ieri, signor O’Lary?”
Il tono di De Vincenzi era faceto. Egli fissava Prospero con bonomia. “Oremus” si passò una mano sul cranio. La mano discese poi a lisciare i risvolti della redingote.
“A me?... Oh! a me...”
“Dove siete stato, signor O’Lary?”
“Perché... perché mi domandate dove sono stato?” Decisamente non riusciva a ritrovare il suo equilibrio. “Bisogna che me lo diciate... anche la signora Cristiana O’Brian è uscita e tutti sono preoccupati per la sua assenza...”
Sul volto di Prospero passò un lampo. Subito dopo sembrò più sicuro di sé.
“Infatti, sono andato a cercare Cristiana. Chiedetelo a Marta e a madama Firmino. Esse vi diranno che...” De Vincenzi assentì dolcemente col capo.
“Lasciamo andare Marta e madama Firmino... Me lo hanno già detto... Non dubito affatto delle vostre parole, signor O’Lary. Voglio soltanto che mi spieghiate perché l’assenza improvvisa di Cristiana O’Brian vi ha preoccupato al punto, da farvi correre a cercarla...”
“Dopo tutto quello che era accaduto, la sua assenza non poteva non sembrarmi strana, no?”
“E dove l’avete cercata?”
Ebbe un’esitazione. Poi disse con forza:
“Vi chiedo di non insistere su questo punto, commissario. La vita privata della signora non deve interessarvi...”
“Credete?... E l’avete trovata?”
“No. Certamente mi ero sbagliato nelle mie supposizioni. Cristiana non era andata... là dove mi sono recato a cercarla.”
“All’Albergo Palazzo? Da suo marito?”
L’ometto sussultò.
“E come potevo sapere io che Moran sta all’Albergo Palazzo?”
“Naturalmente, voi non lo sapevate. Lo sapeva soltanto colui... o colei che gli ha mandato il biglietto di invito e la pianta di questa casa.”
“La pianta?...”
De Vincenzi si allontanò dal tavolo.
“Storia vecchia...”
Si diresse alla porta. Tornò indietro.
“Dove può essere andata la signora O’Brian? Bisognerà pure che voi ci aiutiate, se la dobbiamo cercare.”
“Ma davvero non è tornata?”
Il suo stupore era sincero.
“Vedete, O’Lary, io credo proprio che voi dovreste cominciare a dirmi qualcuna almeno delle molte cose che mi nascondete! Valerio non è stato ucciso nella stanza della signora... Lo hanno strangolato nel ‘museo degli orrori’... fra i manichini... e là dove lo hanno ucciso, io ho trovato una medaglia del Cinodromo di San Siro... che verosimilmente apparteneva a Cristiana O’Brian...”
“Oh!” fece “Oremus,” alzando le mani con un gesto di comica deprecazione. “Non supporrete adesso...”
“Se conosceste la quantità enorme delle cose che io suppongo, signor O’Lary, vi meravigliereste ch’esse possano rimanere tutte tranquille nel mio cervello!...” L’ometto tacque. Più che mai scrutava il volto di De Vincenzi. Parve prendere una decisione.
“Avete ragione. Bisogna cercarla!... Senza volerlo, può essersi messa in un pasticcio. In questi ultimi tempi, Cristiana era molto mutata. Faceva quel che non aveva mai fatto. Si era data... sì, insomma si serviva di Valerio... L’idea non deve esser stata sua... Vi dico che’era molto mutata, commissario!”
De Vincenzi sorrise.
“Tutto questo lo so, ormai, signor O’Lary. Come lo sapeva Evelina. L’hanno strangolata perché lo sapeva...”
O’Lary fece un gesto di rassegnata disperazione.
“Che orrore.”
Non sembrava disposto a difendere Cristiana.
“E allora, commissario?”
“Per adesso nulla, signor O’Lary! Adesso, è indispensabile ch’io mi occupi del terzo... cadavere...”
“Che dite?”
Si fece paonazzo; poi di colpo si sbiancò.
“Un terzo... cadavere?”
“Precisamente! Non sapevate che le orchidee erano tre?... E tre sono i cadaveri...”
Gli voltò le spalle e si diresse al telefono. “Oremus” cadde a sedere. Lo fissava come paralizzato.