3.
“Numero 2472... 24... 12... Vestito da sera in organza bianco con intramezzature di merletto nero...”
Irma uscì dalla stanza delle indossatrici, traversò il corridoio. La gonna a crinolina le si apriva ad ombrello attorno alle gambe. Provò il passo, osservando l’ondeggiamento rigido della gonna. Per esser Settecento, lo era... E adesso si sarebbe dimenata graziosamente dinanzi a tutte quelle cocorite nere gialle verdi... Era il quattordicesimo vestito che indossava in meno di due ore e ne aveva per altre due ore almeno. C’era abituata, ma che martirio... Marta, che la osservava, le intimò:
“Sorridi!”
Irma sorrise, aprì le braccia, sollevò una mano con la palma all’infuori, nel gesto schifiltoso del “non toccarmi, ma toccami!”... ed entrò nel salone. La direttrice sospirò, crollando il capo, e fece per tornare nella stanza delle indossatrici. Ma in fondo al corridoio la porta dell’ascensore si aprì e Marta vide la più inaspettata apparizione. Capelli platinati in disordine, volto livido e lucente, vasta e drappeggiata vestaglia nera stretta da un cordone d’oro alla cintola. Madama Firmino! Che cosa diavolo veniva a fare la direttrice artistica nei saloni pieni di pubblico e in quel costume? Un’altra delle sue stranezze, evidentemente; ma troppo pericolosa questa volta perché lei non dovesse impedirle di commetterla. Le si precipitò incontro.
“Madama!... Madama Firm...” S’interruppe. L’espressione del volto e degli occhi della donna era di quelle che spengono le parole sulle labbra. E, del resto, madama Firmino parlò subito.
“Marta, è avvenuto qualcosa di molto grave... Chi c’è di là?” e indicò la porta dell’amministrazione.
“Mister Prospero... la signorina Evelina... le ragazze...”
“Venite con me!”
L’afferrò per un braccio e la trascinò dentro gli uffici. Traversarono la prima stanza, che era divisa a metà da una traversa di legno lucido sulla quale si aprivano gli sportelli della Cassa e dei Fornitori. Una matrona vestita di nero - centoventi chili di carne fresca insaccata nella seta e nel raso fino a tenderli, compressa in un busto di stecche di balena - alzò stupita il rotondo faccione da un enorme registro e coi suoi occhietti che foravano la grascia le guardò passare. Entrarono in direzione. La sala era vasta, ammobiliata con lusso. Una grande scrivania di palissandro, tersa come specchio, fra i tendaggi pesanti delle due finestre. Un’altra scrivania assai più piccola nell’angolo di fondo. Molte poltrone, tante poltrone e accanto ad ognuna di esse un microscopico tavolo con un portacenere d’argento e un vaso di cristallo contenente una rosa gialla. Dalla scrivania d’angolo sorse di scatto, come il diavoletto dalla scatola, un fragile signore tutto nero, tranne nel cranio, che era d’avorio levigato. La prima impressione che si riceveva nel guardarlo era che si trattasse d’un soprammobile di porcellana. Uno di quegli ometti di Capodimonte o di Copenaghen così lustri, lisci e verniciati, che anche i colori scuri che hanno addosso appaiono stranamente sfolgoranti...
“Signorine!... Oh! signorine!... M’avete fatto paura!... Se cercate la signora Cristiana non c’è...”
Si avvide della vestaglia nera e trasalì. Abbassò lo sguardo e gli si presentarono i piedi nudi nei sandali di corda. La più viva e fiera disapprovazione gli si dipinse sul volto.
“Madama Firmino... Ma è inconcepibile che voi osiate...”
“Tacete, ‘Oremus’!...” gridò Dolores. “Abbiamo ben altro da fare che ascoltare le vostre geremiadi!”
Ebbe di colpo la sensazione di aver ritrovato tutta la sua energia. Quel comico ometto aveva il dono di esilararla e irritarla appena lo vedeva; ma questa volta aveva operato da eccitante sui suoi nervi, fino al punto da farle uscir di bocca il soprannome burlesco con cui il segretario di Cristiana veniva chiamato dalle operaie e dalle indossatrici. “Oremus” si fece scarlatto, le vene della fronte gli si gonfiarono. Per fortuna di madama Firmino gli occhiali gli caddero dal naso e il diversivo di doverli riafferrare, annaspando sul tavolo, evitò che la sua collera esplodesse contro l’imprudente.
“Damn!”
Marta guardò il segretario, poi madama Firmino.
“Ma che cosa è accaduto, insomma?”
Dolores si era appoggiata alla scrivania di palissandro.
“Che cosa è accaduto?... ah! semplicemente questo...” Teneva gli occhiali di celluloide con due dita per una stanga e li faceva roteare. “Semplicemente questo! Sul letto della signora Cristiana c'è un cadavere... e la signora giace in terra svenuta...”
Prospero mandò una specie di ruggito e usci di dietro alla scrivania, avanzando verso la donna.
“Siete pazza.”
In quanto a Marta si contentò di scuotere dolcemente il capo. Che madama Firmino fosse pazza lei ne era convinta da molto tempo.
“Ripetete!...” gridò il segretario. “Ripetete un poco questa storia!”
“Rendetevi conto, madama Firmino, che oggi è giorno di "collezione"... e che non sempre gli scherzi sono opportuni...” sospirò Marta. “Dovreste sapere che io ho troppo da fare, per perdere il tempo con le vostre stramberie...”
Dolores sedette sull’angolo della scrivania di palissandro e nel movimento la vestaglia le si aprì ed ella mostrò le gambe nude, così abbronzate da sembrare d’ottone. Marta vide quelle gambe e le vide anche il signor Prospero, il quale batté rapidamente le ciglia.
“Tornate ai vostri bagni di sole, madama Firmino... e non disturbate chi lavora...”
_ “Credete che non lo vorrei, Marta? Credete che sia proprio indicato per me interrompere bruscamente la cura?... Il cadavere c’è, non lo invento io... e in quanto alla signora O’Brian ritengo proprio che sarebbe ora di andarla a soccorrere... Io ero sola lassù e non vi nascondo che la vista del cadavere mi aveva troppo sconvolta perché potessi farlo... E del resto non valgo nulla3 io, come infermiera e non avrei saputo da che parte cominciare per farla rinvenire...”
“Un cadavere? Ma di chi, benedetto Iddio? Qui ci siamo tutti e siamo tutti vivi.” Prospero cessò di battere le ciglia.
“Ci siamo tutti? Le persone che appartengono alla Casa O’Brian sono molte! Andate lassù e vi convincerete che una di esse è stata uccisa...”
Il volto di Marta si colorì.
“Uccisa, dite?... Ma allora è proprio vero?” Madama Firmino si frugò addosso alla ricerca di tasche che la sua vestaglia non aveva, poi guardò sulla scrivania. Vide una scatola di legno di sandalo e la raggiunse con una mano. Ne trasse una sigaretta.
“Datemi un fiammifero, mister O’Lary... Sono sicura che, se non fumo, svengo anch’io... No, non è affatto piacevole contemplare il cadavere d’uno strangolato...”
“Oremus” trasse un accendisigari dalle profonde falde, della sua redingote attillatissima. Mentre teneva la fiamma davanti al volto della ragazza, la osservava con attenzione.
“Come fate a sapere che è stato strangolato?...” chiese con sospetto.
Dolores trasse avidamente qualche boccata di fumo. “Ha due macchie sul collo... due cattive macchie visibilissime...”
Marta si diresse al telefono che si trovava sopra una piccola scansia di fianco alla poltrona di Cristiana.
“Che cosa fate, signorina?...” gracchiò la vocetta di mister Prospero.
“Telefono al dottore... Che altro volete che faccia?”
“E non vi rendete conto che, se veramente si tratta di un cadavere, bisognerà prima di tutto telefonare alla polizia?”
Marta si arrestò di colpo.
“La polizia?... Coi saloni pieni di signore!...”
La catastrofe si era abbattuta su di lei.
“Ma sarebbe la rovina...”
“Ho ragione di credere che essa sarebbe alquanto maggiore, se non ci rivolgessimo subito alla Questura... nel caso che veramente il cadavere ci sia... E per accertarcene, vi prego di seguirmi lassù... Potremo dare i primi soccorsi alla signora Cristiana, mentre attenderemo l’arrivo delle autorità.”
E fieramente “Oremus” si diresse alla porta, seguito da Marta, che gemeva. In quanto a madama Firmino, si fece scivolare dolcemente dalla scrivania per andare a cadere in una poltrona.
“Avrei assoluto bisogno di togliermi l’olio dalla faccia...” mormorò a se stessa e riprese a fumare.