14.

“Qualcuno di voi tre si è mosso da questa camera?” Lui stesso fu meravigliato del suono metallico, tagliente della propria voce. Essa lo raggiunse come dall’esterno e lo obbligò a farsi rigido, a contrarre i muscoli del volto. Madama Firmino, abbandonato ogni languore, balzò in piedi, mentre Prospero O’Lary sussultava, sbiancandosi in volto. La sola Cristiana si limitava a volgersi verso di lui, senza alcun segno di sorpresa.

“Io no di certo!”

Dolores si era resa conto di colpo che quell’uomo apparso sulla soglia non era il medesimo di quando aveva conversato con lei.

“Che cosa è accaduto ancora?” aggiunse con ansia. Cristiana guardò la ragazza, fece scorrere lo sguardo sopra Prospero e chiese con quella sua inalterabile voce gutturale, aspra e ingrata:

“Avete trovato l’assassino di Valerio?”

De Vincenzi non raccolse le due domande, andò diritto verso l’uomo, lo afferrò per i risvolti della redingote, lo scrollò:

“Rispondetemi voi. Da quanto tempo siete in questa stanza?”

“Ma non so... Da quando son disceso... Mi avete pur /eduto entrarvi... e poco dopo mi ha raggiunto la signora...”

Indicò Cristiana e si liberò dalla presa di De Vincenzi, lisciandosi i risvolti per ricomporli.

“Avete udito qualche rumore proveniente dalla stanza attigua?”

“Nessun rumore. Non abbiamo neppure udito voi, quando avete aperto la porta. Stavamo parlando e ammetterete che avevamo il diritto d’esser tanto compresi delle nostre occupazioni da non far caso a quel che poteva avvenire fuori di qui...”

“Allora, nessuno di voi tre può dirmi chi ha ucciso la signorina Evelina?”

Il cranio di “Oremus” si fece di fuoco.

“Che dite?”

A ogni emozione gli s’illuminava la testa come un segnale elettrico. Le due donne fissarono De Vincenzi con incredulità. Sembrava che nessuna di esse riuscisse a realizzare dentro di sé il valore delle parole udite. Cristiana si alzò e schiacciò la sigaretta accesa contro il fondo di una piccola coppa di cristallo.

“Non credo che in tutto quel che è accaduto possa entrarci Evelina, commissario!”

“Infatti, non potrà entrarci mai più, dal momento che l’hanno uccisa.” Fece una pausa. Fissava i tre volti, uno dopo l’altro, con tale intensità che lui stesso ne soffriva. E vide che, sotto il suo sguardo, le due donne comprendevano finalmente l’orrore del suo annunzio e venivano invase dalla paura, dalla semplice e nuda paura animale. In quanto all’uomo, i suoi occhi che tentavano sfuggirgli apparivano colmi di terrore. “Questo è tutto per il momento. Voi due, signore, rimanete qui... E voi seguitemi, signor O’Lary....”

Andò alla porta, l'aprì, fece passare per primo O’Lary, poi la richiuse dietro di sé. L’ometto aveva fatto qualche passo verso la scrivania e si era fermato. Guardava il cadavere. Quel suo rossore apoplettico era scomparso. Si aggiustò gli occhiali sul naso. Fece un altro passo. E, come se fosse finalmente sicuro di veder giusto, ebbe un gesto di desolazione e scosse lentamente il capo. Lentamente e continuamente, traendolo un poco fuori dal colletto, sicché De Vincenzi, al veder quel cranio nudo e lucido che si dimenava ritmicamente, ebbe netta la visione d’una tartaruga nera ammalata di meningite.

“Che ne dite, signor O’Lary?

“Dico che occorre scoprire l’assassino con la massima urgenza! Qui corriamo tutti il pericolo d'essere strangolati...”

Lo spavento di Prospero O’Lary gli sarebbe sembrato comico fino all’ilarità, se non avesse avuto davanti il cadavere della donna.

“Oh non credo tutti...”

“Che volete dire? Ma non vedete che questi sono i delitti d’un maniaco pazzo?... Delitti simili avvengono solo in Europa!”

E si mise a scuotere il capo con una specie di frenesia epilettica.

“Vi sembra? È una teoria... Ma volete dirmi come avete fatto voi a sapere che anche Evelina è stata strangolata?”

Il capo si fermò istantaneamente. Le palpebre di Prospero batterono.

“Come?”

“A guardar quel cadavere si capisce che è morto per strangolamento?”

“Certo che si capisce!...”

E “Oremus” tese il dito verso il collo della donna. La testa poggiava con un’orecchia sul registro e si vedeva difatti l’altro lato del volto e del collo coi segni nerastri lasciati dalla collana. Nessuna possibilità per De Vincenzi di segnare un punto. Ma egli aveva ritrovato tutta la sua lucidità e anche quella facoltà di distacco e di sdoppiamento che gli permetteva di farsi l’osservatore degli altri e di sé, quasi l’azione e il dramma che stava vivendo si fossero svolti in un piano diverso, sopra un palcoscenico immaginario.

“Tra poco parleremo, signor O’Lary... Prima lasciate che dia qualche disposizione...”

Andò nel corridoio e chiamò due agenti.

Ne mise uno di piantone nel corridoio, diede all’altro le istruzioni perché avvertisse per telefono San Fedele del nuovo delitto e facesse venire in Corso del Littorio il vice-commissario Sani con altri agenti della Squadra Mobile.

“Telefona anche per il dottore... Che torni qui subito... E di’ a Sani che conduca il fotografo...” Dopo aver dato quegli ordini, ebbe l’impressione che sempre aveva in quei casi: l’assoluto suo dovere di mettere in moto la macchina ufficiale della giustizia - con tutte le sue regole e i suoi metodi, con le pastoie della burocrazia e con l’ausilio dei ritrovati scientifici - non gli impediva di pensare quanto quella macchina fosse impotente a scoprire l’autore di quei delitti, dato che l’assassino doveva essere presente visibile conosciuto e soltanto chi avesse saputo leggergli nell’anima avrebbe potuto smascherarlo. Non era un pazzo, colui che aveva ucciso Valerio ed Evelina, come Prospero O’Lary credeva o voleva far credere; De Vincenzi ne aveva la sicurezza.

“Cercate un lenzuolo, un drappo... una coperta... signor O’Lary... È inutile lasciar quell’infelice a dar spettacolo del proprio corpo senza più anima...”

O’Lary si precipitò nel corridoio. De Vincenzi chiuse a chiave la porta per la quale l’ometto era uscito. Aveva bisogno, adesso, di qualche minuto di osservazione, senza testimoni. Si assicurò che anche la porta della direzione fosse chiusa, poi andò rapidamente alla scrivania. Osservò il corpo e il piano del tavolo. Evelina stava scrivendo le sue cifre, quando l’avevano uccisa. Era evidente, indiscutibilmente evidente - data la posizione in cui aveva trovato il cadavere e l’espressione del volto della morta, che appariva normale, placido, seppure naturalmente un poco congestionato - che l’assassino doveva essere conosciuto da lei, sì da non destarle alcuna diffidenza. Qualcuno aveva potuto parlarle, avvicinarsi a lei, passarle alle spalle, afferrare all’improvviso la collana che aveva attorno al collo e strìngergliela alla gola fino a ucciderla. De Vincenzi osservò la posizione della poltrona nella quale Evelina era seduta. Essa poggiava con lo schienale quasi contro il muro, dacché la scrivania si trovava parallela alla linea delle finestre e proprio nello spazio tra una finestra e l’altra. Com’era possibile che l’assassino avesse potuto mettersi dietro quella poltrona, senza che Evelina glielo avesse permesso espressamente e perché mai avrebbe dovuto permetterglielo?

Il problema sembrava senza risposta, quando la vista dell’apparecchio telefonico chiarì di colpo il mistero. Qui - come nello studio di Cristiana - il telefono poggiava sopra un piccolo tavolo, posto di fianco alla poltrona, un poco indietro, esattamente contro il muro. La spiegazione era ovvia: l’assassino aveva fatto mostra di telefonare - o aveva effettivamente telefonato - e, approfittando del fatto che Evelina non gli badava, intenta forse ai suoi conti, aveva agito rapidamente e con tutta facilità. E tale ipotesi - che era l’unica plausibile - confermava l’altra che si trattasse di persona tanto conosciuta da avere il diritto di telefonare, senza che la donna potesse o impedirglielo o meravigliarsene al punto di tenersi in avviso. Si, tutto questo era chiaro e nel medesimo tempo sconvolgente... Se il numero delle persone sospette veniva a restringersi, si faceva sempre più arduo individuare fra di esse l’assassino. A meno di trovare la causale del delitto. Per quale ragione Evelina era stata uccisa? De Vincenzi sulla scrivania non vide nulla che potesse costituire comunque un indizio interessante. Oltre agli oggetti usuali, null’altro. Rapidamente, senza toccare il corpo, apri i cassetti laterali della scrivania. Carte, fatture, conti. Alcuni libretti di assegni e di conti correnti sopra due banche cittadine, intestati naturalmente a Cristiana O’Brian. Nell’ultimo cassetto di destra, trovò una borsa di pelle nera, che evidentemente doveva essere quella dell’uccisa. L’aprì.

Il fazzoletto, uno specchio, un portamonete, un piccolo mazzo di chiavi, una fialetta di sali, un pettine... Un abbonamento tranviario intestato a Evelina Rossi... E due lettere indirizzate allo stesso nome e naturalmente aperte... Fece appena a tempo a osservare che provenivano entrambe da Milano, perché all’uscio del corridoio picchiavano con insistenza, dopo averne tentato la maniglia. Si mise in tasca le due lettere, richiuse la borsa e il cassetto, andò ad aprire la porta.

"Venite, signor O’Lary... Soltanto per distrazione, macchinalmente, avevo girato la chiave nella serratura...”

“Oremus” recava un grande lenzuolo. De Vincenzi ne ricoprì il cadavere. “Ecco fatto, signor O’Lary.”

Il sudario bianco dava alla scrivania e al corpo enorme di Evelina l’apparenza d’uno strano monumento, in attesa dell’inaugurazione. E l’orchidea che era rimasta nell’angolo, al di fuori del lenzuolo, contribuiva ad aumentare il grottesco di quello spettacolo.

“Che incubo, commissario!”

“Per esserlo, lo è infatti!... Ma potete sedere, O’Lary... Non vi avevo detto che avremmo dovuto chiacchierare un poco?” Depose il bicchiere. Finalmente, disse con dolcezza: “Perché, signor O’Lary, non mi parlate un poco di Sage o se preferite di Edward Moran?... Voi che venite dall’America dovete certamente saper qualcosa di lui!”

Questa volta gli occhiali dell’omino caddero e lui non fece a tempo a riprenderli a volo, sicché le lenti s’infransero sul pavimento.