3.

Le ragazze si volsero alla porta che si apriva. Irma, con un asciugatoio sulle ginocchia, si stava facendo le unghie. Anna, in sottoveste di seta bianca, leggeva il fascicoletto del film romanzato: Sogno d’amore. Gioia, le mani abbandonate sulle ginocchia, il volto dal mento quadrato, a cui soltanto gli occhi azzurri, nettamente disegnati dalle ciglia lunghe, e la freschezza giovanile della pelle davano interesse, lo sguardo fisso dinanzi a sé e così cupo da sembrar che la ragazza stesse per piangere, non si mosse. Clara, apparsa sulla soglia, diede un’occhiata a un cartoncino che aveva tra le mani e ordinò: “Svelte, ragazze!... C’è gente... Anna metti il 2412... Irma il 2437... e tu Gioia infila il 75 degli abiti da sera con la cappa...” Si volse e gridò nel corridoio: “Papina, vieni ad aiutare le indossatrici...”

Scomparve, dopo aver ripetuto i tre numeri, che aveva verificati sul cartoncino. Irma lanciò in aria l’asciugatoio e la limetta per le unghie.

“Ve l’avevo detto!... Sono le undici e mezzo, e già cominciano... Vedrete che allegria, tutto il giorno!... Dopo i delitti di ieri, le clienti verranno in processione a farsi mostrare i modelli, per curiosare... Qui c’è puzzo di cadavere!...” Aveva aperto l’armadio e faceva scorrere i cartellini coi numeri. “Lo sapevo!.,. Il 2437 è proprio l’abito che detesto!...”

Staccò la stampella e trasse il vestito, che gettò in terra sul tappeto. Con un movimento rapido si sganciò la sottanella che indossava, diede una tirata alla chiusura lampo del giubbonetto e apparve anche lei in sottoveste di seta bianca, alta e svettante come un giovane giunco. “Presto, Papina, preparami i pantaloni... È proprio la giornata adatta per mettersi in vestito da spiaggia!...” Papina aveva i capelli grigi, il viso paonazzo e sembrava un topolino ammaestrato, uno di quei topolini bianchi che si rizzano sulla coda e poi ricadono a piatto col ciac del pancino contro il pavimento. Lei si era rizzata sulla coda e ci rimaneva, per un miracolo di equilibrio che lasciava perplesso chi la vedeva muoversi su quelle sue gambette ad accento circonflesso e i piedini tondi e buffi. Ma aveva le mani così leggere rapide e destre, che non si sentivano neppure quando abbottonava un vestito o allacciava una cintura, tirando la gonna sulle anche per adattarvela.

Nel prendere dall’armadio i pantaloni azzurri e la fusciacca gialla per Irma, passò dietro alla seggiola di Gioia e scrollò la ragazza per le spalle.

“Presto, bellezza!... Se rimani incantata, il principe non ti porta allo sposalizio...”

Lei aveva letto le fiabe, si beava d’essere d’una facezia irresistibile e diceva sponsalinzio convinta d’imitar Macario, che aveva visto al cine. Gioia si scosse, si alzò e cominciò a togliersi l’abito nero che portava. Arnia le andò accanto:

“Coraggio, bambina!... Ti sei tolto un dente, tra poco non sentirai più nessun dolore... Che ci vuoi fare? Forse è meglio così...”

Gioia le diede un’occhiata da cane frustato e sospirò. “Dici così, perché non lo conoscevi come me. Ci dovevamo sposare...”

“Lui?!” e Irma che si stava infilando i pantaloni sbottò in una risata. Ma subito dovette appoggiarsi all’armadio per non cadere, Anna le aveva dato un urtone. “Non vedi che soffre sul serio?”

“È una cretina, se soffre! Valerio non valeva...”

“Ma taci, dunque!”

Gioia aveva gli occhi pieni di lacrime.

“Su, bellezza!..! Adesso, ti ci vorrà il truccatore. Sta’ a sentire che ti dico una branzenletta...” e Papina con una mano armata di fazzoletto le asciugava le lacrime» mentre con l’altra l’aiutava a togliersi il vestito.

In quel momento De Vincenzi sbucò nel corridoio, venendo dall’ascensore. Era arrivato in Corso del Littorio da pochi minuti e nessuno, tranne Cruni e il custode, lo aveva veduto ancora. Davanti alla porta aperta delle indossatrici, si fermò a guardare. Anna lo vide e fece: ssì... Le altre si volsero e ammutolirono. Lui sorrise.

“Buon giorno, signorine... Sono venuto anche per parlare un poco con voialtre...”

La voce di Marta gli risonò alle spalle.

“Buon giorno, commissario. Le ragazze sono attese in salone... Non potreste rimandare a più tardi l’interrogatorio?”

“Ma certamente!... Che cosa fate? Un’altra sfilata di modelli?”

“Oh! no... Ma ci sono clienti... Hanno chiesto di vedere alcuni abiti e noi li mostriamo sempre addosso alle ragazze...”

“Capisco,..”

Si avviò verso la porta dell’amministrazione, con a fianco Marta che lo sbirciava di sottecchi.

“Anche voi siete occupata?”

“No, c’è Clara che ci pensa... E, del resto, non credo che concluderà nulla... Quelle signore sono venute richiamate dallo scandalo... Avete letto i giornali?”

De Vincenzi sorrise.

“Era inevitabile... E la signora O’Brian?”

“È nella sua camera... Non l’ho veduta ancora stamane. Credo sia sofferente.”

“Inevitabile, anche questo... Posso entrare?” Teneva la mano sulla maniglia della porta, quella porta per la quale Evelina doveva essere entrata tante volte.

“Accomodatevi. In direzione c’è il signor O’Lary...”

Nella stanza di Evelina trovarono madama Firmino. Non era più in vestaglia, naturalmente; ma indossava un costume mascolino grigio ferro, coi pantaloni larghi sulle scarpe a suola di sughero. Andò incontro a De Vincenzi.

“Ho pensato tutta la notte a quello che può fare la polizia quando si trova due cadaveri addosso e nessun indizio sicuro che le permetta di procedere ad un arresto... Voi potete illuminarmi, commissario, perché per conto mio la domanda è rimasta senza risposta.”

Parlava con ironia, ma aveva lo sguardo febbrile. S’indovinava, sotto quella sua apparente indifferenza, uno stato di preoccupazione intensa e per di più i nervi di madama Firmino non dovevano essere dei più sani e dei più solidi, nonostante le sue cure elioterapiche.

“La polizia, madama Firmino, non può far altro che cercare e... aspettare. Ma chi vi ha detto che in questo caso non si abbiano indizi?”

“Una piccola impronta ben chiara? La cenere d’una sigaretta? L’assassino ha firmato, dunque, il suo delitto?” Rise falso e fece una giravolta su se stessa, per tornare verso il tavolo della contabile. “Intanto, Evelina non c’è più!... E non mi direte ch’essa occupava poco spazio!...” C’era una reale commozione nel suo accento e De Vincenzi pensò che la ragazza, più che sulla sorte della povera zitella, si commuoveva sulla propria. Era facile supporre che madama Firmino aveva paura e che doveva aver barricato la porta della propria camera, quella notte. Ma di chi aveva paura? Si era appoggiata con la schiena alla scrivania e fissava De Vincenzi. “Che ne direste, commissario, se io facessi le valige e me ne tornassi in Francia? Me lo impedireste?”

“Per qualche giorno ancora, credo di si, signorina...” Scosse la testa con desolazione: “Credo proprio che non potrei permettervelo...”

“Me lo aspettavo!...” Volse lo sguardo su Marta: “Allegria, Marta!... Sto pensando a un vezzoso modellino da lanciare... Una leggiadra cappa di seta nera con tanti piccoli teschi da morto sbalzati in argento... Farà impressione e le darete il numero tredici!...”

“Dolores!” esclamò Marta con rimprovero. E doveva essere molto turbata anche lei per chiamarla col suo nome vero. “Se andaste a fare la vostra cura di sole, invece di star qui a dir sciocchezze?”

Madama Firmino alzò le spalle e gettò la sigaretta per terra. In quel momento O’Lary apparve sulla soglia della direzione. Guardò le due donne e poi De Vincenzi: “Siete qui voi, per fortuna, commissario!” Parlava con voce interrotta e aveva qualche perlina di sudore sul cranio. “Cristiana mi ha telefonato adesso dalla sua camera... Vuole che salga da lei... Dice di aver trovato un’altra orchidea nella sua stanza da bagno. Un’altra orchidea che... prima non c’era!”

“Oremus” era livido.

“Vado io dalla signora O’Brian... Ma vi prego, O’Lary...” disse De Vincenzi, “non avvertitela per telefono della mia presenza... Vi proibisco di farlo!...”

La voce di De Vincenzi suonò così dura, che le due donne e Prospero, come sferzati, s’irrigidirono.