11.
Nell’armadio di Cristiana O’Brian, De Vincenzi trovò solo molti abiti e indumenti femminili d’ogni specie. Vide la tavola sporgente per qualche decimetro dal muro di fondo e pensò logicamente ch’essa avesse ufficio di mensola; ma era vuota. Le tracce della permanenza e del passaggio di “Oremus” fra quei vestiti erano invece manifeste. Ma De Vincenzi non potè dedurne se non quanto aveva detto: una persona si era celata in quell’armadio e lui ignorava chi fosse tale persona. Suppose ch’essa potesse essere l’assassino e quasi immediatamente scartò l’ipotesi poiché essa non si accordava con la sua convinzione del delitto compiuto fuori da quella stanza. Non era ammissibile che l’assassino, dopo aver deposto il cadavere sul letto, si fosse attardato nella camera e avesse trovato comodo nascondersi dentro l’armadio. Lo avrebbe potuto fare se sorpreso dal rumore dei passi di qualcuno che si avvicinava - quelli di Cristiana per esempio - ma in tal caso avrebbe dovuto trovarsi ancora fra quei vestiti, dato che la stanza era stata sempre piena di gente. Sempre? E il tempo in cui Cristiana aveva giaciuto svenuta in terra, sola? De Vincenzi alzò le spalle. La questione era di quelle che non si risolvevano col ragionamento e che, anche risolta, non poteva essergli di alcun aiuto. Il fatto che qualcuno si fosse nascosto in quell’armadio aveva importanza in se stesso, come elemento caratterizzante... E lui aveva appunto bisogno di raccogliere la maggior quantità possibile di tali elementi, per poter ricostruire il quadro di quel delitto. Un altro di essi era indubbiamente l’orchidea. Quale ragione avrebbe avuta Cristiana O’Brian ad affermare che il fiore non c’era prima del cadavere e che lei se lo era trovato davanti agli occhi quando aveva fatto la macabra scoperta, se questa non fosse stata la verità? Sospirò. Come discernere il vero dal falso nelle affermazioni di una donna e come rintracciare la ragione delle sue azioni e delle sue parole? Il centro focale di tutta la storia era certamente Cristiana...
“Non ti muovere di lì...”
L’agente, che lo aveva seguito in tutti i suoi movimenti per la stanza, annuì vigorosamente col capo.
“Sì, dottore.”
“E non preoccuparti del cadavere. I morti sono innocui.”
“Lo spero, dottore!”
De Vincenzi sorrise e girò il saliscendi della porta che si trovava fra l’armadio e il caminetto. Era il gabinetto da bagno. Un vasto ambiente con le pareti coperte di maiolica azzurrata, scintillante di nichelature e di porcellane. Un forte odore di creme, d’acqua di colonia e di lavanda aleggiava lì dentro e lo avvolse caldo e acre, quasi dolcigno. Egli si ripetè una riflessione già fatta altre volte: il gusto e l’odorato sono due sensi che operano in simpatia, sicché ci sono odori che feriscono il palato non meno delle nari. E la riflessione non gli diminuì il fastidio prodottogli da quell’aria pesante e umida. Ma subito un terzo senso entrò in gioco in lui ed assorbì ogni sua attenzione. Aveva veduto qualcosa che lo interessava e lo indusse a traversare la stanza da bagno e ad avvicinarsi a un’altra porta di fronte a quella per la quale era entrato. Una porta bianca, laccata, con la maniglia e un piccolo catenaccio lucenti. Si chinò a osservare il catenaccio, che era costituito da un breve cilindro d’acciaio nichelato scorrente dentro anelli fissati a due placche di metallo avvitate ai battenti di legno e combaciami. Per aprire la porta - e i battenti giravano verso il bagno - occorreva che il catenaccio non fosse messo. Orbene quell’aggeggino pretenzioso dimostrava adesso tutta la sua impotenza ad adempiere al proprio ufficio, pendendo miserevolmente inutile da uno dei battenti, non più unito al legno che da qualche vite ormai allentata e spannata. Una delle due placche -quella con gli anelli - giaceva in terra davanti alla porta. Con tutta evidenza qualcuno era entrato da quella porta, forzandola e facendone saltare il catenaccio. De: Vincenzi abbassò il saliscendi e tirò a sé il battente. La stanza che gli si presentò era proprio quella ch’egli cercava e che aveva desiderato di visitare dal momento in cui madama Firmino gli aveva disegnato la pianta del terzo piano, indicandogli quel locale come il “museo degli orrori.” L’ambiente era vasto e rettangolare. Illuminato da due finestre, rivelava subito il suo strano e grottesco contenuto. Allineati lungo le pareti, s’inseguivano i corpi delle clienti di Cristiana O’Brian. Ogni manichino, ricoperto di tela grigia, recava appeso sul petto un cartoncino con un nome e poggiava sopra un piede di legno a tre pioli. Ve n’erano di tutte le specie. Grandi, piccoli, sottili, rigonfi, con petti protuberanti, con spalle disuguali, con ventri a palla. Un’esposizione anatomica da fare inorridire. E tutti quei corpi, uniformemente grigi e nudi, mancavano della testa.. La stanza, oltre alla porta comunicante col bagno di Cristiana, ne aveva un’altra che dava sul corridoio e che doveva essere quella abitualmente adoperata per accedervi. De Vincenzi cominciò a muoversi lentamente fra quei corpi decapitati. Si affrettò. Quella sua rassegna gli sembrava macabra. Era giunto al termine della parete più lunga, quando uno dei manichini rovesciato a terra lo obbligò a fermarsi. Era l’unico della fila che si trovasse in tale posizione ed evidentemente doveva esser stato urtato e fatto cadere di proposito o per inavvertenza. Notò allora che anche gli altri due che lo fiancheggiavano erano spostati e uno di essi poggiava contro il muro e aveva sollevati da terra due dei suoi tre sostegni. In quel punto si era prodotto un urto, vi era stato come un passaggio violento - qualcuno che fuggisse e avesse inciampato, cadendo addosso ai manichini - oppure addirittura una lotta.
La lotta di Valerio contro il suo aggressore? Il giovane era stato strangolato lì dentro; sorpreso forse alle spalle, afferrato dal di dietro alla gola, gettato e sbattuto prima contro il manichino, che si era naturalmente rovesciato, e poi contro il muro? De Vincenzi osservò in terra, attorno a sé, e vide un oggettino che brillava. Si chinò a raccoglierlo. Era una medaglietta d’oro. Da un lato recava incise le parole: Cinodromo di San Siro e dall’altra una data: 8 febbraio 1938 - XVI E. F. L’anellino destinato a tenerla appesa era aperto e contorto. Si mise la medaglia in tasca e uscì in fretta dal “museo degli orrori.” Gli sarebbe stato facile sapere se quell’oggetto aveva appartenuto a Valerio e farsi quindi una convinzione definitiva; ma fin da allora egli aveva la sicurezza che il delitto era stato commesso in quella stanza e che soltanto in un secondo tempo il cadavere era stato trasportato nella camera di Cristiana, da qualcuno che aveva dovuto forzare i battenti e far saltare il catenaccio per penetrare nella stanza da bagno. E questo qualcuno non poteva non appartenere alla casa, ché la sua conoscenza dei luoghi oltre che dei movimenti delle persone era troppo grande e sicura. Quando fu nel bagno udì la voce dell’agente.
“Attendete. Il commissario tornerà...”