13.

Alle diciotto e mezzo, i saloni di Cristiana O’Brian apparivano deserti. La sfilata delle indossatrici era cessata alle diciotto, quando ancora neppure la metà dei modelli aveva fatto la sua apparizione. De Vincenzi aveva pregato Marta di interromperla prima del fissato. Lui non avrebbe dato alcun disturbo alle signore intervenute, ché non gli sembrava necessario interrogarle; ma di aver le mani libere aveva bisogno. E, del resto, tra poco sarebbe giunto il giudice istruttore e subito dopo gli uomini dell’Obitorio con la lettiga. Marta e Clara avevano assistito sorridenti e ossequiose all’esodo delle clienti. Per i due Bolton Clara aveva avuto un sorriso e un inchino speciale e, nell’accompagnarli fino a metà della sala d’ingresso, aveva detto loro:

“Confidiamo che vostra sorella voglia onorarci di altre sue visite, mister Bolton...”

“Non dubitatene, signorina. Mia sorella ha molto ammirato i vostri modelli.” Nell’ascensore sorrideva ancora con compiacenza e, senza quasi muovere le labbra, aveva detto ad Anna: “La partita minaccia d’esser dura... L’ho veduta e le ho parlato...”

E Anna Sage, impassibile, gli aveva risposto:

“Non vedo l’utilità per te di giocare una simile partita... Ricordati che a Miami ti sei perduto per aver voluto offrire un pranzo ai tuoi parenti in occasione del 4 luglio...”

“Un pranzo memorabile fu quello!”

E Federico si era visto mettere nella mano altre dieci lire dal più straordinario visitatore che la Casa di Mode O’Brian avesse mai avuto.

Adesso, De Vincenzi si aggirava nei saloni vuoti. Aveva bisogno di coordinare le idee. Nessuna possibilità ancora di fare il punto... Gli elementi raccolti erano molti, ma non connettevano, non si completavano... Mentre contemplava in un piccolo armadio a cristalli una raccolta di fioriti gioielli di similoro e di strass, si mise a contarli. L’orchidea era uno di quegli elementi e forse il più segreto, quello che alla fine gli avrebbe mostrato uno sbocco impreveduto e imprevedibile. Subito dopo veniva l’ineffabile e fredda Verna Campbell, che aveva tenuto a dargli informazioni sconvolgenti, mettendolo alle prese con una storia di gangster. Aveva fatto di più quella ragazza: gli aveva rivelato l’importanza della rubrica verde che adesso si trovava in una delle sue tasche.

La crisi improvvisa dalla quale era stata presa Evelina era un altro di quegli elementi. Poi c’era il trasporto del cadavere sul letto di Cristiana... E l’enumerazione poteva non essere completa.

Con tutto questo, non un fatto preciso, non un indizio che indicasse il principio d’una traccia. Tutto era torbido, fuori luce. Perché Cristiana O’Brian aveva sentito il bisogno di creare una Casa di Mode, lei che non era mai stata sarta e che della sarta non aveva le attitudini? Certo, il fatto in se stesso non avrebbe destato in alcuno la meraviglia, se Valerio non fosse stato strangolato: ma quel delitto e la messa in scena di esso gettavano una luce sinistra sull’attività della donna. Per di più, l’assassinio di Valerio non si accordava con tutto il resto. Se era un prodotto dell’ambiente esso appariva sproporzionato alla preparazione. Non era quello il delitto che doveva accadere. E De Vincenzi si sorprese a pensare quale sarebbe stato il vero delitto e quando sarebbe accaduto...

I saloni erano rimasti illuminati, mentre dalle finestre veniva ancora il chiarore del giorno. Il corridoio appariva deserto; ma egli sentiva il brusio che facevano le indossatrici nella loro stanza per quanto a sorvegliarle ci fosse Clara. Cristiana O’Brian si era chiusa nella direzione con O’Lary, e Marta stava con le lavoranti, a cui De Vincenzi non aveva permesso di andarsene. Evelina infine doveva trovarsi nel suo ufficio ad attendere con trepidazione che lui la interrogasse. Pensò alla quantità disperatamente grande di persone che doveva ancora interrogare. Tutte quelle donne gli avrebbero parlato di Valerio. Che cosa potevano dirgli che valesse a metterlo sulle tracce dell’assassino? Probabilmente, nulla. Ma per contro gli avrebbero rivelato ancora e sempre altri aspetti dell’ucciso, tali da non farlo rimpiangere... Trasse dal taschino la medaglia trovata in terra. Aveva appartenuto proprio a Valerio quella medaglia? Non si era dato neppure la pena di verificare se il morto avesse addosso una catena da cui potesse essersi staccata, tanto era sicuro che gli apparteneva... Varcò lentamente la porta della terza sala, l’ultima dalla parte dell’ascensore interno, e si avviò verso la direzione. Voci provenienti di dietro all’uscio chiuso delle indossatrici lo fecero fermare.

“Sei sciocca a piangerlo!... Si curava di te come del nodo della sua cravatta!... Gli piacevi, ma in quanto a volerti bene, ti sei illusa come mi sono illusa io e tutte le altre...”

“Taci, Irma!... Non vedi che Gioia soffre!... È un momento e poi le passerà... In fondo, è stato qui poco prima che lo uccidessero... e le ha parlato...”

“Scommetto che a fargli la festa è stata l’americana... Lei non si era rassegnata...”

“E adesso?... Hai visto che ci sono poliziotti da per tutto?... Chiuderanno la baracca e ci manderanno a spasso...”

“Oh! io me ne infischio... Fercioni mi sta appresso da un pezzo... Non ho che da andare da lui, perché mi prenda...”

De Vincenzi riprese a camminare per il corridoio. Poteva essere un delitto di gelosia, quello? Sì, sarebbe stato possibile ammetterlo, se il cadavere non fosse stato trasportato sul letto di Cristiana... ché una donna raramente trova la forza per compiere un macabro sforzo di quel genere, neppure se vuole vendicarsi di una rivale... E Cristiana, poi, poteva esser stata la rivale della propria cameriera, di una indossatrice o di un’operaia? Tutto molto semplice, se le cose fossero andate così! Ma le cose non erano andate a quel modo... Entrò nella stanza di Evelina. La porta di comunicazione con lo studio di Cristiana e di Prospero era chiusa. De Vincenzi fece prima tale constatazione e poi guardò la grande scrivania della contabile. Vide la testa della donna reclinata sul registro. Evelina doveva dormire o forse si era accasciata a quel modo per piangere... Ma perché avrebbe dovuto piangere? Che stranezza che gli si fosse presentata una simile ipotesi... Ma vide qualcos’altro e si sentì agghiacciare il sangue nelle vene. In un angolo della scrivania c’era un bicchiere e nel bicchiere un’orchidea. Con un balzo, De Vincenzi fu accanto alla donna. La scosse. La testa ondeggiò sul registro. Il corpo non si mosse. Le sollevò il capo ed esso ricadde. Ma lui aveva fatto a tempo a vederne il volto. Evelina era morta. Ancora calda, l’enorme donna non respirava più. Cercò di raddrizzarla, di afferrarla per i polsi, ma sentì subito che gli sarebbe stato impossibile muoverla, tanto tutta quella carne si era fatta pesante... De Vincenzi per qualche istante si sentì smarrire. Quest’altro delitto, compiutosi quasi sotto i suoi occhi, lo sconvolgeva, gli toglieva ogni forza di iniziativa, ogni facoltà di giudizio e di azione... Tutto quanto accadeva attorno a lui, dal momento in cui aveva messo piede in quella casa, era allucinante...

Si allontanò dal cadavere. Fece qualche passo disordinato per la stanza. Era già molto che fosse riuscito a non gridare, a non chiamar gente e soprattutto a non fuggire. Anche un commissario di polizia è uomo,, Si sarebbe schiaffeggiato. Da vent’anni faceva quel mestiere e non era riuscito neppure a rendersi tetragono alle commozioni. Un cadavere è un cadavere e null’altro... Perché mai quel lo doveva sconvolgerlo più di un altro? Si avvicinò alla finestra, scostò la tendina di seta e mise la fronte contro il vetro. Per qualche istante rimase in quella posizione. S’impose di ragionare e riuscì a trovare la causa del turbamento che lo aveva invaso. Nulla dava l’impressione della vita - vita molecolare, fervida, irrompente-- più del corpo di Evelina, quando lo aveva veduto muoversi, vivere. Adesso, quel corpo era immobile, pesante, massa tanto più enorme quanto più inerte, e il contrasto violento conferiva alla morte un significato pauroso, rendendola materiale, visibile. Questa e non altra doveva esser la ragione del suo momentaneo smarrimento. Più calmo, tornò accanto al cadavere e l’osservò. Sul collo le tracce dello strangolamento erano nette. Contro Evelina però l’assassino non si era servito delle mani. Il segno girava tutto attorno al collo: un segno largo, profondo, nerastro. Curiosamente composto di tante ecchimosi a catena. La donna era stata strangolata con un laccio...

Riuscì finalmente a raddrizzare il corpo, a tenerlo contro la spalliera della poltrona e sul petto della donna vide pendere una collana di vetro. I grani neri e lucidi erano tenuti assieme da un filo di seta assai grosso. Ne tentò la resistenza e si convinse ch’esso non si sarebbe certo spezzato per la sola trazione delle dita. Quella collana, senza dubbio, era lo strumento di cui si era servito l'assassino. Fece lentamente ricadere il busto contro il tavolo, depose il capo ciondolante su! registro e andò alla porta della direzione. L’apri di scatto. In piedi davanti al tavolo di palissandro, Prospero O’Lary parlava a Cristiana che lo ascoltava fumando. Sempre seduta nella poltrona in cui lui l'aveva trovata, madama Firmino appariva assorta a contemplare le spire del fumo che si alzavano dalla sua sigaretta. Prospero O’Lary diceva: “Vi ho detto, Cristiana, che ignoro il significato simbolico dell’orchidea e che conosco soltanto quello dell'àstero...”