1.

Quel principio di giornata marzolina fu piovoso, ventoso e per alcune strade della periferia dove la polvere si era fatta fango, anche lutulento. De Vincenzi alle sette si trasse dal suo letto, nell’appartamento che aveva a subaffitto in via Massena, al Sempione, perfettamente riposato, se pure non di spirito sereno. Rincasato alla mezzanotte, i delitti della Casa di Mode O’Brian gli ossessionavano il cervello; ma egli, obbligatosi a scacciarne il ricordo, si era immerso nella lettura di un volume di Anatole France - adorava quei libri che già allora gli altri avevano dimenticati - e ben presto si era addormentato. Destatosi, subito i due cadaveri gli riapparvero e, assieme a quel macabro ricordo, la vista del cielo plumbeo, della pioggia sottile che si gettava a folate contro i vetri della finestra, gli tolsero ogni serenità. Di proposito, durante la notte, non aveva voluto analizzare l’aspetto dei due delitti, meditare sui vari punti dello sconvolgente problema che essi presentavano. Egli, come credeva soltanto nel valore degli indizi psicologici, così soleva affidarsi all’ispirazione. I suoi colleghi, che lo chiamavano beffardamente poeta, in fondo non s’ingannavano, anche se erano convinti di non fargli lode. Immerso nella vasca da bagno, pensava a questo suo benedetto bisogno di scavar nel profondo delle anime, e poiché il suo spirito era depresso, sogghignava di se stesso. Un povero imbecille e nient’altro... Tutta la sua psicologia gli era servita soltanto a permettere che uccidessero quasi sotto i suoi occhi quella povera Evelina, che non meritava certo una così triste fine e che con altrettanta certezza doveva detenere almeno una delle chiavi del mistero... Quelle chiavi ch’egli adesso avrebbe dovuto cercare nel fondo di chissà quale oscuro pozzo.

Stava vestendosi e sorbiva in pari tempo il caffè portatogli dalla materna Antonietta, quando si ricordò delle due lettere trovate nella borsetta dell’uccisa. Se le era messe in tasca e ve le aveva dimenticate. Una di esse proveniva da una biblioteca circolante alla quale Evelina era abbonata e che le richiedeva un libro datole in lettura da due mesi. La lettera era cortese ed esprimeva la meraviglia che una lettrice rapida e appassionata come la signorina Rossi potesse questa volta trattenere un volume tanto a lungo. Il volume richiesto era un romanzo d’amore della Mura. De Vincenzi rimise il foglio nella busta. Nessuna luce o forse soltanto un barlume: negli ultimi due mesi Evelina aveva avuto tale lavoro o tali preoccupazioni da non potersi dedicare alla lettura, che pure doveva essere il suo svago preferito di anziana e sognante zitella. La seconda lettera gli apparve a prima vista più promettente, anche se non potè rendersi subito conto della sua reale importanza. Era scritta a macchina su carta non intestata e, dopo l’indirizzo e la data, recava queste parole: Il nostro breve colloquio telefonico gentile signorina, non è stato esauriente. Ritengo che voi possiate essermi assai utile, se lo volete realmente come mi avete affermato. Vi attendo perciò domani sera alle 21 nel mio studio privato in via Catalani 75, a Loreto. Il disturbo che vi siete presa e vi prenderete per me vi sarà largamente ricompensato. Distinti saluti. Nessuna firma. La data era quella dell’8 marzo. Evelina si sarebbe, dunque, dovuta recare a quell’appuntamento proprio la sera del giorno in cui era morta. L’avevano uccisa per impedirglielo? Nulla poteva avvalorare una simile ipotesi; ma De Vincenzi si disse che gli era indispensabile ritrovare l’ignoto corrispondente, anche se il farlo si fosse risolto in una inutile perdita di tempo.

Indispensabile e urgente, più ancora della conoscenza, che si era ripromesso di fare quella mattina, dei signori Bolton. I due fratelli - che abitavano all’Albergo Palazzo, come aveva appreso dall’invito mandato ad Anna Bolton e che Clara aveva ritirato - potevano attendere... Per De Vincenzi, non era Russel Sage, fattosi John Bolton, che aveva potuto uccidere Valerio ed Evelina, anche se attorno a lui sembrava gravitare tutto il mistero... come le due orchidee si sforzavano di dimostrare... Egli non credeva alla colpevolezza del bandito, anche per la presenza simbolica e teatrale di quei due fiori davanti ai cadaveri... Telefonò a Sani, a San Fedele, e ne ebbe l’assicurazione che durante la notte nulla aveva turbato la quiete della Casa di Mode O’Brian. Sani se ne era allontanato alle sette, quando ancora tutti dormivano, e vi aveva lasciato Cruni con gli agenti.

“Vattene a riposare per qualche ora. Ne avrai bisogno. Di Corso del Littorio mi occuperò io.., Ritorna in ufficio nel pomeriggio...”

Al vice-commissario egli voleva bene e nelle sue parole aveva vibrato una premura fraterna. Facendo un lunghissimo tragitto e prendendo due tranvai uno più dell’altro gremito, alle nove De Vincenzi si trovava in via Catalani. Sotto la pioggia, guazzando nel fango, trovò il numero 75, che era una villetta, senza targa e indicazione alcuna all’uscio. Non cercò neppure un pretesto per presentarsi all’ignoto corrispondente di Evelina e, affidandosi all’ispirazione del momento, premette il campanello. Gli apri una donna anziana, in grembiule bianco sulla veste nera e con faria sufficiente e altezzosa. Col raccontarle una storia di villetta da prendere in affitto, riuscì a sapere che quella villa apparteneva a un commendatore, il quale se ne serviva per i suoi comodi riposi e vi andava saltuariamente, trattenendovisi qualche ora soltanto. Insistendo e infine mostrando il distintivo della polizia alla donna esterrefatta, riuscì a conoscere il nome dell’uomo. Era quello di un banchiere assai noto, presumibilmente ricco a milioni. De Vincenzi si ritrovò in mezzo alla strada, con i piedi nel fango e con un’indicazione che, se pure forse significativa, costituiva certamente per lui una gatta arrabbiata da pelare. Comunque l’accoglienza che avrebbe ricevuta non sarebbe stata migliore s’egli avesse procrastinato una visita, che a ogni modo gli appariva sempre più urgente. E per recarsi in piazza della Scala, questa volta, prese un taxi.

Il commendatore lo ricevette immediatamente, per quanto il vasto salone d’attesa della direzione di quell’istituto bancario di solida fama internazionale fosse gremito di persone. Era un omone massiccio e mal squadrato, tutto linee e rombi, d’un pallore acquoso da diabetico. De Vincenzi si accorse subito che la sua qualifica di commissario di polizia era stato l’apriti Sesamo e che il commendatore era preoccupato e aveva soprattutto paura. Gli fece cenno di sedere e lo fissò.

“Mi sono affrettato a ricevervi, per quanto occupatissimo, ma non capisco...”

“Naturalmente...”

De Vincenzi, sempre molto cortese per abitudine, appariva adesso d’una soavità disarmante.

“Non potete capire!... Ma forse questa lettera vi aiuterà...” e gli tese la lettera trovata nella borsetta di Evelina.

Il commendatore la riconobbe senza leggerla e la sua inquietudine aumentò.

“Come mai questa lettera si trova nelle mani della polizia?”

“Oh! per una tragica ragione. Colei alla quale era diretta è stata uccisa...”

L’uomo sussultò. Per un istante sembrò smarrirsi; ma fu rapido a ritrovare tutto il suo sangue freddo. Un leggero colorito gli ritornò alle guance, gli occhi gli si fecero d’acciaio, il volto gli si tese. Mosse qualche oggetto sulla scrivania, come per ristabilire l’ordine davanti a sé. Ma era nel suo spirito che riordinava idee e calcolava.

“Vi rendete conto, commissario, che questo è un affare da condurre con molto tatto, con molta delicatezza?”

“Oh! se sapeste fino a che punto me ne rendo conto!” sospirò De Vincenzi.

“Come avete fatto a sapere che quella lettera proveniva da me?”

“Essa contiene un indirizzo...”

“E la vecchia Sofia vi ha detto...”

“Vecchia? Non molto. Ma insomma la vecchia Sofia mi ha dovuto dire, commendatore!”

“Capisco.”

Spostò un poco una grossa palla di cristallo, alzò una penna e la spostò.

“Che cosa volete da me?”

“Che mi aiutiate a capire! Null'altro. Riflettete che quel che vi chiedo è assolutamente privo di pericoli per voi. Il solo mio scopo, venendo qui, è quello di trovare una traccia che mi conduca all’assassino.”

Il commendatore lo scrutava. Cercava di leggergli nel fondo. E traeva dentro di sé le sue deduzioni rapidamente. Aveva ritrovato, con una certa freddezza, il suo metodo, quel metodo che adoperava negli affari di denaro e che lo aveva portato alla ricchezza.

“E io?”

“E voi potete farmi comprendere facilmente la ragione per la quale hanno ucciso una tranquilla e pacifica signorina che pesava oltre cento chili e che soffriva di attacchi cardiaci... A noialtri la causale occorre sempre.”

“Che cosa volete sapere, in conclusione?”

Un sorriso umile e impacciato precedette la risposta di De Vincenzi.

“Tutto, commendatore... tutto.”

“Quella donna si era rivolta a me per telefono...”

“Quando?”

“Circa una settimana fa.”

“E voleva?”

“Sì, ve lo dirò. Ma mi occorre la vostra discrezione... il vostro silenzio. Assoluto. Posso contarci?”

“Credo di sì. Voglio dire che credo di capire quel che state per dirmi e che, quindi, posso impegnarmi a non far mai il vostro nome nel corso dell'inchiesta.”

“Che cosa credete che stia per dirvi?”

Il suo metodo. Far parlare gli altri, per avvantaggiarsi... De Vincenzi sorrise.

“Ho veduto la vostra villa segreta, commendatore... ho conosciuto madama Cristiana O’Brian... e la sua Casa di Mode...”

“E ne avete dedotto che Cristiana mi ricattava!” Era esploso. “Sì! Lo sta facendo da un anno. Avevo accompagnato da lei una mia amica... e avevo commesso la maledetta imprudenza di pagarle le fatture direttamente... Dopo il saldo della seconda fattura, quella... donna, la O’Brian, mi telefonò. Mi disse che conosceva il mio indirizzo privato... l’indirizzo della mia famiglia... e che temeva proprio che un suo impiegato maldestro avesse mandato per errore il duplicato di quella fattura a mia moglie... Abile, no?”

“Piuttosto.”

“Pagai. E naturalmente proibii alla mia amica di mettere piede ancora in quel sudicio covo di ricattatori... Ebbene, lo credereste?”

"Lo crederei, commendatore!”

"Dopo un mese, altra telefonata. La O’Brian mi avvertiva di aver notato che la mia amica non si serviva più da lei e si diceva dolente che quel suo solito maldestro impiegato stesse per scrivere al mio domicilio privato per propormi alcuni modelli che avrebbero certamente appagato il ben noto gusto della persona che io proteggevo... Che potevo fare?... Pagai ancora...”

De Vincenzi si alzò.

"Grazie, commendatore, e perdonatemi il disturbo.”

“Non volete sapere altro?”

"Il resto lo immagino. La signorina Evelina aveva scoperto il maneggio della sua padrona e vi aveva telefonato alla sua volta, offrendosi di farlo cessare.”

“Precisamente. Un altro ricatto.”

"Ma no! Non credo... Quella disgraziata doveva essere in buona fede... Riteneva di potere o forse poteva realmente far cessare l’attività criminosa di Cristiana O’Brian. Può darsi che alla sua volta avesse scoperto un segreto con cui influire su Cristiana, fino al punto da renderla innocua a voi come agli altri. Poiché naturalmente voi non dovete essere il solo che sia caduto in quel tranello di stile prettamente americano...”

“In buona fede,” esclamò con sincero stupore il commendatore.

"O altrimenti perché l’avrebbero uccisa? Sì, capisco, per eliminare una concorrente. Ma io propendo per la buona fede... Non si pesa più di cento chili senza aver poi in compenso una coscienza leggera!” Quando fu all’uscio, si ravvisò e tornò alla scrivania. “Scusatemi! Un’ultima domanda. A ritirare il denaro per conto della O’Brian veniva un giovane bruno, piuttosto bello?...”

“E spudorato!... Oh! sì, proprio lui...”

"Vedo... Ebbene, vi conforti sapere che hanno ucciso anche quel giovanotto spudorato...”

In ascensore, davanti a un ragazzo vestito di marrone, che lo osservava cacciandosi un dito nel collo troppo stretto dell’uniforme, De Vincenzi trasse dalla tasca della giacca la piccola rubrica verde di Cristiana O’Brian... All’enne, trovò il nome del commendatore dal quale si era appena congedato.