5.

Alle 16 e 30 entrò nel portone della casa di Corso del Littorio segnata col numero 14 e calpestò il tappeto rosso dell’atrio uno strano, signore, che certo non aveva l’apparenza di un cliente di una Casa di Mode. Federico, splendido nella sua uniforme verde bottiglia con gli alamari d’argento - un figurino di madama la direttrice artistica - gli sbarrò il passo.

“Desiderate?”

E aveva l’aria di dirgli: Avete certamente sbagliato portone. L’altro lo guardò benevolmente. Era alto, massiccio e sorridente. Lo si sarebbe detto un ricco contadino. Aveva una voglia di vino rosso sulla fronte, capelli di un biondo rossiccio, il petto ad armadio, un’espressione dolce e innocente di uomo abituato a vivere all’aria aperta.

“Non è questa la Casa di Mode O’Brian?” chiese con tormentato accento straniero.

“Precisamente! Ma non è martedì, oggi!”

“Martedì?” chiese il signore con sbalordimento.

“Soltanto il martedì si ricevono i fornitori. E in ogni modo il passaggio di servizio è in via San Pietro all’Orto...”

“Capisco...” e sorrise con indulgenza. “Ma io non sono un fornitore...”

Trasse dalla tasca del pastrano color castagna, un vasto pastrano a campana, troppo ornato di cuciture a giorno e di ribattiture, una busta azzurra, l’aprì e mostrò il cartoncino con la bianca colomba trafitta. Federico non credeva ai propri occhi. Quello un cliente invitato alla esposizione dei modelli... Ma si disse che certamente doveva essere uno straniero e chissà come ricco. E i ricchi stranieri, per Federico, potevano, essere anche tanto strambi da assistere a una esposizione di modelli.

“Scusatemi, signore!... La sfilata è cominciata da un’ora... Favorite!...”

Lo accompagnò all’ascensore. Il signore, quando fu per varcare la soglia della cabina, gli mise in mano un foglio da dieci lire e gli sorrise paternamente. Federico nell’ansia di chiudergli la porta e il cancelletto, inciampò nello zerbino e poco mancò non si tuffasse a pesce dentro un vetro. Nell’ascensore il signore sorrideva ancora. Tirò fuori dal taschino del panciotto un astuccio d’argento, ne trasse un paio di grandi occhiali cerchiati d’oro e se ne passò le stanghette dietro alle orecchie. Adesso il suo aspetto era più che mai bonario e rispettabile. La porta dell’ascensore, al primo piano, gli fu aperta da Rosetta, in grembiule bianco sull’abitino nero. La “piscinina” aveva una treccetta di capelli biondi girata attorno alla testa, che sembrava la coda di un topo; i piedi e le mani troppo grandi e due gambette ercoline che mostravano i muscoli dei polpacci sotto le calze di seta artificiale, striate e brillanti come se vi avessero sbavato le lumache. Sbirciò il nuovo arrivato dalla testa ai piedi e tese le mani per prendergli il cappello. Sulla porta della vastissima sala d’ingresso era apparsa Clara, la prima lavorante, che nei giorni di esposizione coadiuvava Marta. Coi cartoncini e le matite nelle mani, Clara avanzò. Era anche lei vestita di seta nera e procedeva su certi sandali di laminato d’argento con suole e tacchi di sughero alti più di dieci centimetri. Non disse nulla, ma il suo sguardo e le sue labbra strette le rendevano il volto un poema di perplessità interrogativa. Il signore si tolse lentamente il pastrano, si passò le mani sulla giacca e sul panciotto con un gesto di soddisfatta sicurezza. Poi trasse dal pastrano appeso all’attaccapanni la busta azzurra e la porse alla ragazza.

“Oh, non crediate, miss, che io possa interessarmi ai vostri modelli!... Ma ad essi s’interessa mia sorella e io sono venuto a prenderla...”

Clara guardò la busta.

“Mister Bolton?”

"Effettivamente, cara figliuola, è questo il mio nome? John Bolton... e quello di mia sorella è miss Anna Bolton...” Tese la mano, si riprese la busta azzurra col cartoncino e se la mise in tasca.

Clara, che l’aveva guardato fare, gli fece un cenno di invito col capo e si avviò, precedendolo.

“I signori sono stranieri di passaggio a Milano?”...

Dentro di sé, pensava: la trovata di Evelina di farsi dare gli indirizzi dei passeggeri dal portiere dei grandi alberghi dà i suoi frutti. Di questi due dovrebbe proprio occuparsi Marta; chissà quanto denaro hanno.

“Di Topeca...” concesse mister Bolton.

“Come?”

“Topeca... È una città del Kansas e il Kansas è uno dei quarantacinque Stati dell’Unione Americana, precisamente quello che ha le più grandi siccità, inverni brevi e rigidi, estati lunghe e torride... Siamo stranieri, ma non di passaggio...” e sorrideva, mentre alla luce delle -lampade inseguentisi nel lungo corridoio bianco le lenti degli occhiali gli brillavano quanto i denti d’oro.

La ragazza, ferma davanti alla porta del corridoio che dava sul primo dei tre saloni -- divisi fra loro soltanto da grandi arcate, sicché apparivano come uno sterminato salone unico - lo attendeva perché entrasse. Mister Bolton si guardava curiosamente attorno. S’era avviato verso la porta dell’amministrazione, che faceva fronte a quella del salone e stava per aprirla, quando la ragazza lo richiamò,

“Mister... Mister Bolton!... Dove andate?”

Lui si scusò sorridendo, ma aveva fatto a tempo ad aprire quella porta e a dare un’occhiata nell'interno. La richiuse e si diresse verso il salone.

In quel momento l’altoparlante gracidò:

Maggio vuole vestiti eseguiti in tessuti stampati di vivacissimi colori che riproducano allegorie di fiori, di piume, di paesaggi sottomarini... Tale è il delizioso modello che vi presentiamo... Numero 2479... 24... 79... "

L’americano si era fermato ad ascoltare. Scosse la testa con indulgente comprensione.

"La moda!...” mormorò. “Oggi le donne vivono per indossare vestiti... E non potrebbero far nulla di più utile e di più piacevole per noi uomini...”

Clara gli disse:

“Volete indicarmi vostra sorella, mister Bolton?... Vi condurrò accanto a lei...”

“Grazie...” mormorò e si mise a ispezionare la lunga fila delle poltrone e dei divani pieni di donne. Le signore erano occupate a guardare l’indossatrice che avanzava lentamente dal fondo. Qualcuna si protendeva con l'occhialetto. Altre affettavano un’indifferente lassitudine e facevano filtrare gli sguardi attraverso le palpebre socchiuse. Dall’angolo che la prima parte del salone faceva col muro della facciata, presso alla finestra, si levò una figura nera e avanzò rapidamente verso la porta.

“Ecco mia sorella...” disse mister Bolton. “Non occorre che vi disturbiate ancora per noi, signorina...” Miss Bolton poteva dirsi senza dubbio impressionante. Il suo volto, incorniciato da un piccolo "cappello nero da cui ricadeva un pesantissimo velo di crespo vedovile, aveva tutte le caratteristiche del musetto d’un soriano. E gli occhi, tagliati nettamente a mandorla e rialzati alle tempie, avevano le iridi d’un verde fosforescente. Bianco di pelle, d’un biancore latteo, quel volto appariva livido a contrasto col nero dell’abbigliamento. Alta e snella, miss Bolton procedeva con la leggerezza sfuggente d’un fantasma. Clara, pur colpita dal suo aspetto, notò la ricchezza e il taglio dell’abito che doveva uscire certamente da una grande sartoria. Bolton si ritrasse nel corridoio e la sorella lo raggiunse. Si scambiarono poche frasi e lentamente si diressero all’ingresso. In quel momento il campanello trillò, col suono sordo di una raganella. Rosetta accorse ad aprire la porta. E sulla soglia apparve un signore vestito con sobria eleganza, dall’aspetto distinto e piacevole, che appena dentro si tolse il cappello e cominciò a sfilarsi i guanti. Ma egli era seguito da altri quattro uomini, assai meno eleganti e piacevoli di lui, i quali in un primo momento il cappello non se lo tolsero affatto. Clara, di fronte all’invasione, cominciò a dirsi che decisamente quella era la giornata delle sorprese. E per di più Cristiana e Marta avevano trovato il modo di scomparire proprio al momento buono. Avanzò incontro al signore piacévole e continuò a guardare i quattro uomini che si erano fermati - minacciosa barriera --davanti alla porta.

“Non vi hanno detto che potevate passare dalla scala di servizio?”

“Infatti...” e il signore che sembrava comandare quella piccola truppa si volse e fece un segno a uno dei quattro.

L’uomo allungò un passo e si immobilizzo. Era basso, tarchiato e aveva le gambe troppo corte per il suo corpo massiccio.

“Dottore?” disse, togliendosi il cappello duro, che era ancora un decente esemplare di copricapo d’altri tempi.

“Cruni, fatti indicare la porta di servizio dal custode... Nessuno deve uscire neppure di lì.”

Il maresciallo Cruni scomparve giù per le scale.

“Dico, signore...” esclamò Clara, che cominciava a sentirsi uno strano senso di sgomento.

Ma non fece a tempo a formulare per intero la protesta. Dal corridoio giungeva caracollante Prospero O’Lary. Si precipitò incontro ai sopravvenuti, allontanando con una mano la ragazza.

“Polizia?”

“Commissario De Vincenzi...”

“Sono Prospero O’Lary, il segretario amministrativo della ditta...”

“Ho ricevuto la vostra telefonata, signor O’Lary...”

“Naturalmente... Ma potrei pregarvi di usare la massima cautela? Oggi è giornata di esposizione... Abbiamo i saloni pieni di pubblico... Uno scandalo sarebbe la rovina per noi. Comprendete?”

De Vincenzi gli sorrise con affabilità. Comprendeva. Quante mai volte gli era accaduto di dover comprendere, nella sua carriera di commissario!

“Dov’è il morto?”

“In alto... al terzo piano... Potrete benissimo non farvi accorgere di nulla.”

“Sicché voi siete già in grado di dirmi chi è l’assassino? -”

Prospero ebbe un sussulto.

“Io?” Aveva il fiato mozzo. “Come potrei?”

“Poiché, vedete, se è stato ucciso in questa casa, non mi sarà possibile fame uscire alcuno prima di avere esperito alcune indagini indispensabili...” Clara guardava i due e gli occhi le si dilatavano. Un morto... Dietro di lei, Rosetta le si aggrappava alla gonna. Il cranio di “Oremus” s’era fatto paonazzo. De Vincenzi ebbe pietà del pover’uomo. “Non dubitate! Se appena mi sarà possibile, eviterò di disturbare la gente raccolta nei saloni. I miei uomini possono rimanere qui, nell’ingresso... nessuno si accorgerà di loro.”

E un lieve sorriso ironico gli aleggiò sul volto: come credere che nessuno si accorgesse di quella presenza? Appese il cappello all’attaccapanni.

“Sedete, voialtri, e non muovetevi da questa stanza. Nessuno deve uscire...” Si volse al segretario: “Questa è la consegna, signor O’Lary... fate in modo voi che nessuno tenti di forzarla e che quindi i miei agenti non si trovino nella necessità di farla rispettare... E ora andiamo...”

Prospero lo precedette. Passarono davanti a Clara. De Vincenzi osservava attorno a sé. Vide i due Bolton che si erano fermati nel corridoio e gli occhi verdi della donna lo colpirono, non meno del suo velo di crespo. Dal canto suo Bolton lo fissava senza più sorridere. Quando i due uomini furono scomparsi nell’ascensore, l’americano diede un’occhiata alla sorella e con un impercettibile movimento del capo le indicò il salone. Lentamente, i due vi entrarono.

Anche la moda balneare risente di certe bizzarre infiltrazioni ottocentesche, viste però attraverso il poliedrico cristallo del nostro secolo... Osservate, per esempio, l’originale modello che vi presentiamo...”

Attraverso i cristalli - non poliedrici e neppure graduati a lente - dei suoi occhiali d’oro, mister Bolton potè osservare infatti un costumino da spiaggia, con la sottanella cortissima e un bolero aderente che si andava appena a chiudere sotto il petto della bellissima indossatrice.

“Che cosa hai fatto, Anna?” mormorò, senza che le sue labbra si muovessero.

“L’ho veduta.”

“Ti ha riconosciuta?”

“Credo.”

“Qui c’è odore di bruciato...”

Anna Bolton sedette in una poltrona e il fratello le sedette accanto.