3. SID HA PAURA
I due gatti sonnecchiavano, uno per lato, accanto alla stufa.
Erano magri, le costole visibili, la pelle d'un color rosso indescrivibile, tra la foglia di tabacco marcita e il ciliegio d'autunno, acceso come un'innamorata.
Sid Renier, seduto accanto alla piccola stufa di ferro, tendeva le mani aperte verso lo sportellino mezzo scardinato e pendente, dal quale traspariva il rosso della legna in fiamme. La sua fronte a bauletto, allungata dalla canizie fino a mezzo cranio, era lucida con qualche perlina di sudore.
Il volto caprino del vecchio suonatore di batteria appariva illuminato da un sorriso faunesco, e il suo corpo magro si agitava percosso da un fremito, che si sarebbe potuto dire di letizia.
Eppure Sid non aveva alcuna ragione, quel giorno, per essere più allegro del solito. Almeno, una ragione contingente, esteriore, non c'era. Sì, Boldviski aveva finalmente acconsentito a scritturarlo per il primo film dell'Acidalia. Dopo averlo lungamente osservato, dal lucido cranio ai grandi piedi calzati di enormi scarpe a punta quadrata, il regista gli aveva scoperto una fisionomia e un fisico abbastanza ripugnanti e aveva deciso di affidargli il personaggio di Menico Sanguigni, il sicario di Cesare, che nel film doveva propinare il veleno ad Astorre Manfredi, signore di Faenza.
Per qualche settimana il pane era assicurato.
Ma non era del pane che si preoccupava. E non era a quella sua nuova carriera artistica che annetteva un interesse qualsiasi.
Il cinema per lui non costituiva che il mezzo per tenersi dentro il cerchio di alcune persone... E in quanto all'arte cinematografica, essa non aveva per lui alcuna attrattiva. Era sempre stato maestro di batteria e tale rimaneva nel profondo delle sue viscere di virtuoso. Quella era una professione! Misconosciuta, certo; ma quanto artisticamente aristocratica, e difficile a praticarsi con onore! Un maestro di grancassa e piatti diviene tale a forza di volontà, e per vocazione. Premeditatamente, anzi. Nessuno in casa propria, nascendo, trova di solito una batteria e, fattosi grandicello, per farne la conoscenza ed esercitarsi deve andarsela a cercare... Sid ricordava gli esordi, da fanciullo; e poi le gloriose tappe della sua carriera: le stagioni wagneriane a Bayreuth, a Lipsia, a Monaco. L'importanza di un maestro di grancassa e piatti nelle opere di Wagner è enorme. L'effetto culminante della marcia funebre di Sigfrido – il tema dell'orrore – è ottenuto con due sole note della grancassa e dei piatti...
A ogni istante gli sguardi di Sid correvano alla porta d'ingresso, ch'era aperta e che lasciava vedere il pianerottolo. Quindi si posavano sul quadrante di una vecchia sveglia, in mezzo al tavolo...
Erano trascorsi ormai più di dieci minuti... Poco probabile che tornassero... Alle sei avrebbero cominciato a "girare" e Assia entrava come lui nelle prime scene fissate da Boldviski per quel giorno... Doveva trovarsi a Cinecittà almeno alle cinque e mezzo, dunque, per potersi truccare e vestire in tempo... E adesso erano le quattro e tre quarti... Le due donne avevano attraversato il riquadro della sua porta per uscire esattamente alle quattro e trentatré... Dovevano certo essersi recate a Cinecittà. No, non sarebbero tornate...
Avrebbe atteso qualche altro minuto e poi sarebbe andato... Da troppi giorni attendeva quell'occasione per lasciarsela scappare adesso che gli si era presentata... La casa vuota! La possibilità di cercare il documento, d'impossessarsene... Con quanta astuzia, correndo quali pericoli, era riuscito a prendere l'impronta della serratura, per poi farsi fare una chiave che gli permettesse di entrare nell'appartamento durante l'assenza di Cobina de Kergorlay, senza lasciar tracce!
E, adesso, quella chiave l'aveva! Si cacciò una mano nella tasca della giacca e sentì il freddo del metallo. Era lì. Era sua.
Tutto semplice e facile, adesso. Purché... Il vecchio ebbe un fremito e si passò una mano sul cranio. E se l'atto di nascita non fosse stato in casa di Cobina? Se la donna avesse mentito, o avesse mentito Telma Zinger?
Scosse il capo con violenza e batté i piedi a terra. I gatti rossi diedero un balzo e lui li guardò.
"Buoni!" Li accarezzava con lo sguardo teneramente. "Buoni!"
Non era possibile che Telma avesse mentito; perché mai lo avrebbe fatto? Era stata lei a dirgli che Gita Garena era la figlia di Boldviski e di Lilli; della sua povera cara ingenua Lilli... Senza cervello, certo, ma non aveva forse scontato persino troppo duramente la propria leggerezza, con anni di indicibili sofferenze e poi con la morte?
Il ricordo di colei che era stata sua moglie lo intenerì. Con la punta dell'indice si asciugò due lacrime, una per occhio, che gli colavano lungo le gote flaccide. Quindi si aggiustò gli occhiali sul naso.
Doveva uscire dall'indecisione, impossessarsi di quel documento... Telma gli aveva detto di aver sorpreso un giorno all'Excelsior, nella camera del regista, un colloquio tra Cobina e Boldviski. Cobina aveva gettato in faccia al regista la sua bigamia, gli aveva gridato di avere il documento che la provava, aveva fatto il nome di Gita e di Lilli...
E lui, Sid, adesso doveva uscire dall'indecisione. Se quella che Telma gli aveva rivelato era la verità, avrebbe saputo costringere Boldviski a fare il suo dovere di padre... o lo avrebbe ucciso. Nulla e nessuno, se non la felicità e il benessere della figlia di Lilli, si sarebbe potuto frapporre fra lui e la vendetta. Venti anni erano trascorsi dal giorno in cui Lilli lo aveva abbandonato e aveva voluto il divorzio per sposarsi con quell'uomo. Venti anni scanditi, contati ora per ora dal suo dolore...
Si alzò e andò alla porta. Guardò le scale, prima in basso, poi in alto. Nessuno e silenzio. Prese a salire. Stringeva la chiave dentro la tasca. La scala era deserta. Né dal basso, né dall'alto veniva alcun rumore...
Ma perché non affrontare, invece, Cobina: non dirle chi era lui; non chiederle l'atto di nascita?
La donna era fuggita da Boldviski, lui lo sapeva. Doveva odiarlo... Certo, poiché era sua moglie, aveva in mano quanto occorreva per denunciarlo, e c'era anche da supporre che lo ricattasse... Avrebbe acconsentito a disfarsi di un'arma sicura, o non avrebbe piuttosto negato? No, preferiva agire da solo, sia pure illegalmente, sia pure macchiandosi di un furto... In fondo, Cobina de Kergorlay non era diventata la moglie di Boldviski mentre Lilli era ancora viva? Non era stato forse per colpa sua che Boldviski aveva martoriato e gettato sul lastrico Lilli, facendola morire di crepacuore? No, meglio non chiedere aiuti, non creare complicità... Lui solo, bastava lui solo!
Raggiunse l'ultimo piano, che era poi il terzo, mentre lui abitava al primo. Due porte per pianerottolo. Quella di Cobina era la prima, accanto alla scala. Si guardò attorno. Ascoltò. Poi, con decisione, trasse la chiave, la mise nella serratura, la fece girare. La porta si aprì: entrò rapido e la richiuse dietro di sé.
Appena dentro, diede un sospiro e si asciugò il sudore con un grande fazzoletto colorato. Ma interruppe il gesto a metà. Si rese conto che la lampada pendente dal soffitto dell'anticamera era accesa. Quel fatto gli tolse per qualche istante il respiro, e fu da quel momento che Sid cominciò ad avere paura: una paura senza possibilità di reazione, debilitante, che per qualche minuto lo paralizzò.
Non soltanto la luce era accesa ma Sid vide davanti a sé qualcosa di atroce e terrificante... Il grande fazzoletto a colori gli cadde dalla mano, e lui non se ne accorse...
Un uomo giaceva disteso bocconi sul pavimento.
Sid ne vedeva il corpo massiccio, vestito di grigio, schiantato contro terra, a braccia aperte. Il cranio calvo lucido, con appena una coroncina di capelli a mezza nuca, da un orecchio all'altro.
E, in mezzo alle spalle, proprio piantato tra le scapole, l'uomo aveva un coltello di cui era visibile il manico d'osso giallo, leggermente ricurvo e appuntito, come la zanna di un cinghiale. Tutto attorno la giacca grigia appariva immacolata: neppure una goccia di sangue doveva essere uscita dalla ferita.
Sid stava contro la porta d'ingresso, che lui si era chiusa alle spalle. Fissava il cadavere, senza riuscire a fermare dentro di sé il battito accelerato di cuore. Se lo sentiva alla gola. Finalmente, il cervello, in cui le idee si erano liquefatte, gli riprese a funzionare. Da quanto tempo se ne stava immobile in quella stanza? Forse un paio di minuti, forse uno solo; ma ebbe la sensazione che fosse trascorso un tempo infinito, e la prima idea concreta che gli venne fu di istintiva difesa di sé: "È trascorso tanto tempo, che certo arriverà qualcuno e mi troverà qui; mi accuserà di essere l'assassino."
Violentemente l'assalì l'impulso di fuggire, ma la nuca di quel morto, che adesso riusciva a vedere, rendendosi conto dei particolari di essa, lo attrasse irresistibilmente. Era una nuca che conosceva.
Una nuova sensazione lo invase, gli penetrò nel sangue, dandogli un'ansia febbrile. Una sensazione di gioia, squisitamente crudele. E anche provò un senso d'improvvisa liberazione.
Sì, conosceva quella nuca: apparteneva a colui che odiava, all'uomo che aveva ingannato e fatto morire Lilli, a colui che da lunghi anni seguiva ovunque, ben deciso a sopprimerlo.
Una straordinaria freddezza di ragionamento e di calcolo gli schiarì il cervello. Non poteva, non doveva commettere errori.
Avanzò nella camera e si chinò sul cadavere. La fronte poggiava contro il pavimento. Sid afferrò il cranio dai lati, alle tempie, e lo sollevò, fino a vedere i lineamenti del volto. Riconobbe subito la cicatrice sul sopracciglio destro e non ebbe più dubbi. Lasciò ricadere la testa del morto e si rizzò. Cercava di ragionare, di dominare la situazione; ma il suo raziocinio, anche adesso che era tornato padrone di se stesso, non riusciva a dargli la spiegazione di quella morte.
Chi poteva aver ucciso Boldviski? Oh, le persone che avrebbero potuto ucciderlo erano infinite; ma perché in quel luogo e in quel modo?
Andò all'uscio che introduceva nelle stanze interne, entrò, si aggirò per le tre stanzucce dell'appartamento. Nessuno. Possibile che a uccidere fosse stata Cobina de Kergorlay? E che poi si fosse data alla fuga, uscendo tranquillamente con sua figlia e abbandonando il cadavere in casa sua? Certo, era quella la prima ipotesi che veniva alla mente, e anche la più logica. Nulla di strano, per Sid, che una donna che era stata la moglie di Boldviski avesse poi sentito il bisogno di liberarsene, sopprimendolo! Strano, però, che una donna della tempra e dell'intelligenza di Cobina avesse compiuto una tale opera di giustizia a quel modo, in casa propria, senza lasciare a se stessa possibilità alcuna di scampo! Ma perché no, dopo tutto? Che cosa sapeva lui delle intenzioni e del piano di difesa che Cobina poteva avere? Soltanto perché una realtà si presenta come straordinaria, può essere ritenuta menzognera, appunto per la irragionevolezza delle apparenze. Forse che il cervello dell'ungherese non era capace di sottigliezze e di acrobazie?
Sid si guardava attorno. Gli sembrò che tutto nell'ingresso si trovasse come d'abitudine. Almeno per quanto ricordava lui, che in quella casa era stato un paio di volte soltanto. Comunque, nessuna traccia di lotta. Il morto giaceva con la testa rivolta verso la porta delle stanze interne. Era da presumere che a quelle stanze si fosse diretto quando qualcuno, forse nascosto dietro la porta d'ingresso, gli era saltato addosso e lo aveva colpito alle spalle. Un terribile colpo, a ogni modo, vibrato con sicurezza e con abilità davvero straordinarie. Il cappello di Boldviski era rotolato lontano, contro la parete di fondo. Sid rifletté: come mai il morto portava il cappello – in mano o sul capo, più probabilmente sul capo – ed era poi in giacca, senza pastrano? All'attaccapanni non c'era altro che un soprabito nero, da donna, e un grembiule azzurro. Che Boldviski se lo fosse tolto e lo avesse lasciato in una delle altre stanze non gli sembrò possibile, dato che il cappello era lì. No, evidentemente il regista, che andava spesso in giacca anche d'inverno, era entrato lì dentro così come era abituato ad andare in giro per gli studi e per i viali di Cinecittà durante il lavoro: mani in tasca, sigaro spento fra i denti, cappello sul cranio.
Il rumore di un passo che saliva le scale lo fece sussultare. Ecco! Quel che aveva temuto stava per accadere: qualcuno saliva e lo avrebbe sorpreso in quella stanza, solo col cadavere. Sid Renier fu di nuovo preso dallo spavento. Ma non lo paralizzò, questa volta. Andò all'uscio, mise l'orecchio contro il legno. Il passo saliva sempre. Non c'era dubbio: poiché quello era l'ultimo piano della casa, chi saliva avrebbe raggiunto il pianerottolo di Cobina. L'unica speranza era che il visitatore fosse diretto all'altro appartamento.
Speranza breve e vana: il trillo acuto e insinuante del campanello vibrò nell'aria.
Sid cercava di non respirare neppure. Certo, il visitatore, dopo qualche minuto di inutile attesa, se ne sarebbe andato. Ma quei minuti sembrarono durare un'eternità. Fuori della porta qualcuno si muoveva, come preso da impazienza. Un raschiamento di gola rivelò a Sid che il visitatore era sicuramente un uomo.
Il campanello trillò di nuovo, e a Sid sembrò che quel suono gli penetrasse nella carne come una punta d'acciaio arroventata.
Di nuovo l'uomo sul pianerottolo tossicchiò. Lo si sentiva anche ansimare, fare qualche passo sul pianerottolo, allontanarsi, tornare; poi suonò ancora.
Finalmente, sembrò prendere una decisione e Sid udì i passi che si allontanavano giù per le scale. Il vecchio si raddrizzò, passandosi una mano sulla fronte madida di sudor freddo. Non c'era da perder tempo. Diede un'ultima occhiata al cadavere e si volse per aprire la porta. Lo fece con cautela, senza rumore. Ascoltò. Poiché non udì nulla, uscì e non richiuse la porta dietro di sé, ma la lasciò soltanto accostata, né si accorse del fazzoletto a colori, che era rimasto in terra, là dove era caduto. Per le scale, Sid pensò che aveva commesso un'imprudenza imperdonabile. Aveva trovato la porta chiusa e adesso la lasciava aperta. Tutto era cambiato. Molte cose che prima avrebbero potuto avere un senso, adesso non lo avevano più. E, forse, aveva involontariamente mandato a monte il piano di difesa che Cobina de Kergorlay si era preparato.
Discese in fretta. Poco gli importava di far rumore, adesso. L'essenziale era di raggiungere le sue stanze, senza essere veduto. La fortuna lo assistette. E, dopo qualche minuto, il vecchio si trovava di nuovo davanti alla stufa, fra i suoi due gatti magri, e fissava il fuoco tendendo le mani tremanti verso lo sportellino sgangherato.
Vassilli Boldviski era stato assassinato.
Questo fatto risolveva tutto per lui. Tutto o, forse, nulla. Giacché non sapeva ancora se Gita Garena era davvero la figlia di Lilli, della povera Lilli e di quel Boldviski che lui non aveva fatto in tempo a uccidere...