27....PER PRENDERE UN TOPO
Erano le sei e un quarto quando De Vincenzi discese dal tassì davanti al portone della casa di Cobina de Kergorlay. Aveva l'impressione di conoscere ormai da un tempo infinito quel portone, le scale e l'ultimo pianerottolo coi due appartamenti... e non erano neppure ventiquattr'ore che vi aveva messo piede per la prima volta!
Pioveva a lunghi fili, come se l'acqua scendesse da una doccia... Trovò D'Angelo seduto in una seggiola nell'atrio, vicino alle scale. L'agente s'era seduto su di uno scalino, al suo fianco. Tutti e due si alzarono quando lo videro, e l'agente tirò qualche calcio per sgranchirsi le gambe.
"Niente, cavalié! Nessuno è venuto..."
De Vincenzi ringraziò la sorte. Se l'assassino avesse affrettato i tempi, con la consegna che lui aveva dato a D'Angelo, gli avrebbe impedito di commettere un altro delitto, ma non avrebbe forse potuto dimostrare la sua colpevolezza.
"Adesso, bisogna che vi togliate di qui. Rimanete in portineria e cercate di non farvi vedere. Il passaggio dev'essere libero. Chiunque vediate entrare o uscire, non muovetevi... Soltanto quando io vi chiamerò, accorrete..."
La faccia di D'Angelo si fece pietosa. "E ci vorrà molto, cavalié?"
"Oh, anche tutta la notte... Quando avrete fame, mandate la portinaia a comperarvi qualche cosa..."
Cominciò a salire le scale. Erano così buie che, appena terminata la prima rampa, ebbe l'impressione di trovarsi in un tunnel. La portinaia coi suoi libri si era dimenticata di accendere la luce. Si sporse dalla ringhiera: "D'Angelo, fate accendere le scale!"
Quando fu sul primo pianerottolo, le lampade si accesero. La porta di Sid era accostata. De Vincenzi esitò. Povero vecchio! Gli aveva fatto una promessa, che adesso era in grado di mantenere... ma di quanto la notizia che poteva dargli avrebbe migliorato la sua sorte? Sid non s'era mosso di dove l'aveva lasciato, e i due gatti gli stavano ai piedi. La stanza era rischiarata soltanto dai bagliori che mandava la legna accesa attraverso lo sportellino sgangherato della stufa.
"Sid Renier, adesso posso dirvi quel che voi volevate sapere..."
"Ebbene, commissario?"
"Gita Garena è la figlia di Lilli e di Boldviski..."
"Ah!"
Una specie di gemito. I bagliori illuminarono il suo cranio calvo. Certo piangeva.
A un tratto, senza sollevarsi disse lentamente: "Vedete, commissario? In ogni caso, io non lo avrei ucciso prima di saperlo..."
"Di questo sono sicuro, Sid..."
"Allora, mi credete?"
"Sì, vi credo." Si volse per andarsene, poi tornò verso il vecchio: "Se qualcuno vi minacciasse, sapreste difendervi, Sid Renier?"
"Perché me lo chiedete?"
"Perché vorrei essere sicuro che voi sapreste difendervi."
"Commissario, oggi non credo che mi difenderei..."
"Invece, voglio che lo facciate. È necessario. E, in tutti casi, dovete chiudere la porta e far scorrere il catenaccio. Se suonano, non aprite, a meno che non sentiate la mia voce. Lo farete, se vi dico che questo può essere utile alla figlia di Lilli?"
"Sì, lo farò, commissario."
"Adesso, ditemi da chi vi siete fatto fare la chiave che apre la casa di Cobina de Kergorlay."
"A Cinecittà c'è un'officina... Chiedete di Ettore... è il garzone, ed è molto devoto a Telma Zinger. Se ne è incaricato senza sapere a che cosa servisse."
"Ho capito! Qualunque cosa accada questa notte, non vi muovete."
Udì che il vecchio metteva il catenaccio e riprese a salire. Un'altra sosta, prima di bussare all'uscio di Cobina. Non doveva lasciar nulla alla sorte, o per lo meno soltanto una piccolissima parte di quel che sarebbe accaduto. E se non fosse accaduto nulla?
Premette il campanello dell'appartamento di miss Llewellyn.
"Non suonate Scarlatti, questa sera?"
La giovane indossava un pigiama di seta nero listato di rosso. Quando lo vide, mandò un'esclamazione che sarebbe stato difficile definire. E lo guardò ironicamente. "Siete tornato per sentire se so affrettare i tempi del minuetto?"
"Oh, non ancora. Non entrerò neppure: ho fretta. Desidero chiedervi soltanto quel che fareste, se tornasse il fattorino con un altro mazzo di fiori."
L'idea di avere a che fare con un pazzo si concretò e prese forza nel cervello di miss Mary. Sapeva che è pericoloso far mostra di non seguire i pazzi nelle loro manie. Quella del fattorino doveva essere la mania del commissario. "Perché? Credete proprio che tornerà?"
"No... Il pretesto dei fiori è un po' troppo sfruttato, oramai... Ma, in ogni caso, voi sareste capace di fermarlo?"
"Chi? Quel ragazzo?"
"È un ragazzo maledettamente temibile, miss Llewellyn! Avete una rivoltella?"
"Sì..."
"Ebbene, quando udrete suonare, sempre che ciò avvenga, aprite la porta tenendo la rivoltella pronta, e se vedete il fattorino, spianategliela contro e gridate il mio nome."
"Il vostro nome, commissario?"
"Sì, mi chiamo De Vincenzi. È un nome facile da ricordare."
"E voi mi sentirete?"
"Sì, miss Llewellyn."
"Okay! Griderò il vostro nome, mister De Vincenzi..." E chiuse la porta, perché lei dei pazzi aveva paura.
De Vincenzi sorrise: era sicuro adesso che miss Llewellyn, se avesse veduto il fattorino, avrebbe gridato come una forsennata, non perché le aveva detto lui di farlo, ma perché lei avrebbe creduto di vedersi davanti per lo meno un fantasma.
E bussò tre volte alla porta di Cobina de Kergorlay.
Cristarello passeggiava sotto la poggia da circa un'ora. Poiché era costretto a tenersi da quella parte della strada che era priva di case, non aveva neppure i tetti a ripararlo. Ma non per nulla si era fatta una reputazione di ragazzo furbo. Dopo un'ora di vana attesa, cominciò a dirsi che quella situazione andava risolta in modo alquanto meno umido per lui. L'acqua gli grondava dalle tese del cappello sull'impermeabile, che colava tutto. Forse, a servizio terminato, gli avrebbero fatto un elogio; ma in ogni caso si sarebbe presa una polmonite. Si guardò attorno e non vide nulla che potesse servirgli da riparo. Sì, c'era un piccolo caffè di fronte, ma poiché si trovava dalla stessa parte della porta che lui doveva tenere d'occhio, se fosse uscito qualcuno da quella porta avrebbe corso il rischio di non vederlo...
Quand'ecco che notò sullo sterrato un'ombra nera, piuttosto grande e certamente consistente. Si avvicinò: erano cinque carrette di ferro, di quelle che gli spazzini pubblici spingono davanti a sé quando raccolgono le immondizie per le strade. Accatastate una all'altra, lasciavano un certo spazio vuoto sotto di esse. Cristarello non chiedeva di più. Magro com'era, quello spazio fra la terra e il fondo delle carrette gli bastava. Ci si introdusse con agilità e si sentì al coperto. La posizione per guardare dinanzi a sé non era delle più comode, ma comunque il torcicollo era da preferirsi alla polmonite...
"Commissario, credete proprio che questa veglia sia necessaria?"
"Lo credo fermamente, signora de Kergorlay..."
Cobina era sul divano, con le mani in grembo, vestita come sempre di nero. De Vincenzi si era seduto al suo posto preferito, davanti al tavolo, e aveva dovuto tirare da parte il vaso di fiori per vederla. "E sapete perché io lo credo, signora?"
"Non ne ho la più pallida idea, commissario."
"Perché sono sicuro che voi avete mentito, quando avete detto di aver sentito soltanto un tonfo."
"Il tonfo del corpo di Boldviski?"
"Sì, prima di cadere, Boldviski deve aver parlato, e voi avete udito quel che ha detto."
"Come fate a sapere che ho udito?"
"Perché altrimenti sareste corsa dietro all'assassino..."
Cobina tacque per qualche istante, poi disse: "Non è proprio sicuro che lo avrei fatto. La morte di Boldviski risolveva molte cose per me... e per Assia..."
"Ma l'assassino... quell'assassino, era una minaccia anche per voi... sapevate che lui era entrato in casa vostra per uccidere voi e non Boldviski... Sarebbe stato un voler provocare il Destino corrergli dietro..."
"Come potevo saperlo?"
"Le parole di Boldviski vi avevano illuminata in un lampo... e con voi c'era vostra figlia, per la quale temevate..."
Cobina si agitò un poco. Chiese con voce tremante: "Siete sicuro che Assia non corra alcun pericolo in questo momento?"
"Vergolli è con lei, e l'Excelsior è guardato dagli agenti di polizia, che sorvegliano Vernieri e Caienni... Ho chiesto a Vergolli di non allontanarsi da Assia Paris neppure per un momento, e lui mi ha ringraziato..."
La voce tornò indifferente. "Così l'Acidalia ha finito di vivere!"
"Era condannata... L'Acidalia voleva dire Boldviski, e Boldviski si era scavata la fossa, quando..." S'interruppe e tamburellò con le dita sul tavolo.
"Quando, commissario?"
"Quali sono state le parole esatte di Boldviski prima di morire? Io posso essere sicuro che ha parlato, ma non posso sapere quel che ha detto..."
Cobina si alzò e andò a vedere l'ora a una piccola sveglia sulla consolle. "Sono le nove e tre quarti, commissario. Perché pensate che debba venire proprio questa sera?"
"Perché ha assoluta necessità di chiudere la partita, e perché... piove."
Lei lo guardò e tornò al divano. Mentre sedeva, disse: "Boldviski ha detto: 'Questo è-troppo! Domani vi farò rinchiudere in un manicomio... Ho sopportato troppo a lungo la vostra persecuzione.'"
De Vincenzi assentì col capo. "Sì, non poteva aver detto che qualcosa di simile, e nella orgogliosa sicurezza che aveva di sé volse le spalle all'assassino, che approfittò del momento per pugnalarlo... Era bastata la parola manicomio a segnare la sua condanna di morte..."
"Perché si tratta davvero di un pazzo, commissario?"
"No, signora. Perché non si tratta di un pazzo. Ma quella parola era troppo definitiva... troppo conclusiva, per non togliergli tutte le speranze!"
Cobina guardò De Vincenzi con ammirazione; ma egli non se ne accorse. Rivedeva dinanzi a sé un volto bianco e riudiva scandite alcune parole che erano state per lui la rivelazione di un abisso mostruoso. Se quelle parole non fossero state dette, Gita Garena sarebbe morta e lui non si sarebbe trovato in quella camera ad attendere l'assassino...
Cristarello riuscì a trarsi fuori dalle carrette e dovette far qualche salto e lanciar pugni all'aria per ritrovare l'uso di tutte le sue membra. Pioveva sempre, ma lui pensava che tra poco gli sarebbe stato permesso di andarsene a casa e di ficcarsi in letto, subito dopo aver mangiato. Intanto, però, la cosa più urgente di cui aveva bisogno era un telefono... Se quel piccolo caffè avesse posseduto un apparecchio, magari a gettone!
Non soltanto lo possedeva, ma possedeva anche una cabina. Il caffettiere gliela indicò, mentre lo fissava con gli occhi arrotondati dallo stupore. Anche se non avesse colato acqua, Cristarello sarebbe stata abbastanza impressionante di per sé solo...
"Siete voi, commissario? Sono le dieci e mezzo. È uscito in questo momento. Almeno credo che si tratti di lui: impermeabile e cappuccio, sì... ma non erano neri, erano bianchi... No, cavaliere, ve lo garantisco, non ho mai sofferto di daltonismo. Come dite? L'ho visto prendere un tassì... Sta bene, cavaliere, buona notte!"
Uscito dalla cabina, Cristarello pensò che era venuto il momento di regalarsi almeno due grappini.
"Tra poco avremo qualche cosa di nuovo, signora Kergorlay."
"Credete, commissario?"
"Sì. Gli impermeabili da donna non sono talvolta a double-face?"
28. DELIRIO
Pensava: "Vassilli è morto e nessuna delle donne che ha amato deve sopravvivergli. Niente di lui! Io l'ho adorato in silenzio, ho vissuto delle briciole che le altre mi lasciavano, mi sono nutrita di lacrime, di beffe e di speranza. Quando ho visto che una nuova donna era nel suo cuore e che soltanto sua moglie si frapponeva tra lui e la sua felicità momentanea, ho voluto sopprimere sua moglie per dimostrargli che da me, da me sola, poteva venirgli la felicità! Mi ha impedito di farlo, mi ha negato il diritto di esistere e di amare e io l'ho ucciso, perché morto lo avrei avuto tutto per me sola.
"Era rimasta sua figlia, quella che lui, pur avendola appena conosciuta, proclamava veramente sua, figlia del suo amore migliore, e io l'ho soppressa...
"Adesso, vado a uccidere sua moglie.
"Poi scomparirò. Vivrò del suo ricordo.
"Una volta, a Hollywood, qualcuno mi disse che il mio amore era un'ossessione! In ogni caso, è un'ossessione che mi ha fatto vivere, e che mi permette adesso di sopravvivergli! Poiché per me non è morto... e non morrà, se non quando io morrò."
Il tassì correva e la pioggia sottile frustava i vetri dei finestrini. Si prese la fronte fra le mani, si compresse le tempie che le ardevano. "È così semplice uccidere," pensava. "Così semplice e così sicuro... Chi può sospettare che sia stata io a conficcare il coltello nella schiena dell'uomo che adoravo? Chi penserà che la scatola avvelenata è stata portata da me a Gita Garena? Domani sapranno che Cobina de Kergorlay è stata uccisa nella sua casa, e supporranno che la stessa persona che ha ucciso Boldviski abbia ucciso lei. La stessa persona, vale a dire nessuno..." Rise silenziosamente.
Si tolse l'impermeabile, se lo rimise. Aveva fatto il minor numero di movimenti possibili, abbassandosi sul sedile, perché l'autista non potesse vederla nello specchio retrovisore. Si strinse la cintura alla vita, toccò nella tasca l'arma e la sentì liscia, agevole alla stretta delle sue dita. Da un'altra tasca trasse un berretto con la visiera e se lo mise, ricoprendo col cappuccio.
Un nuovo sorriso che le scavò innumeri brevissime rughe agli angoli degli occhi, le apparve sulle labbra sottili mentre stringeva il calcio d'avorio della piccola rivoltella. Pensava: arma fredda, veleno e rivoltella... Non bisogna dare la stessa morte... E poi lei si serviva delle armi di cui disponeva, di cui il Destino le permetteva di disporre.
Il tassì spinto a velocità eccessiva per quella strada periferica, piena di buche e di ostacoli, slittò con le due ruote di destra sui lastroni del marciapiede che aveva risalito e cozzò contro un fanale. L'urto violento fece balzare dal sedile la donna, che batté il cranio contro il soffitto e di rimando la nuca contro la spalliera di cuoio duro. Le uscì un piccolo gemito dalla gola. Ma fu tutto. Si passò la mano sulla nuca. Il dolore fisico è nulla! Gridò all'autista con voce limpida: "State attento e andate avanti, adesso!"
Il tassì si raddrizzò, riprese la corsa, quasi subito si fermò: era giunto alla meta indicata. Pioveva tanto che l'autista non si accorse neppure che l'impermeabile bianco della sua passeggera era adesso nero. Percepì appena una mano che gli tendeva il denaro, e poi un'ombra scomparire dietro la cortina luminosa della pioggia.
"Il portone è già chiuso," pensava. Si ripeté "Deve essere chiuso," per rassicurarsi; ma proprio tranquilla non fu, se non quando vide l'oscurità nera e fonda fra le due ringhiere del giardino.
Spinse adagio il cancelletto, molto adagio, appena quel tanto che le consentì di sgusciar dentro, e si mise a camminare leggermente, posando in terra soltanto la punta dei piedi perché la ghiaia non stridesse.
Raggiunse la porticina. Era aperta. Naturalmente! Non ne aveva mai dubitato.
Adesso, tutto facile... Che qualcuno potesse vederla, udirla salire le scale non pensò neppure. E in ogni caso, chi avrebbe potuto riconoscere in lei null'altro che un fattorino... Il fattorino fantasma, pensò con sarcasmo, e per la prima volta da che aveva dato inizio a quella nuova impresa delittuosa le apparve il volto del commissario di polizia da cui era stata interrogata.
"Deve star cercando l'ampolla," si disse, e un perverso brivido di piacere la percosse. "Lui non sa chi ha ucciso Nicholson, non sa chi ha ucciso Boldviski e non saprà mai chi ha ucciso Gita Garena e Cobina de Kergorlay..."
Per le scale nessuno e il silenzio.
Raggiunse l'ultimo piano. Guardò le due porte chiuse ed ebbe nello spirito la visione di un mazzo di rose gialle. A lei le rose piacevano... Anche a Gita aveva portato un mazzo di rose, color della carne, quelle... Amava le rose che sono fiori ipocriti, dal volto dipinto e dal cuore impuro... Chi in questo mondo ha il cuore puro?
Si tolse la chiave dalla tasca e la introdusse nella serratura. Udiva soltanto il proprio respiro che si era fatto leggermente più rapido. Diede un primo giro, poi un secondo; sotto la pressione delle dita sentì la porta cedere, docilmente. Trovò il buio. Non aveva previsto di trovare il buio. Adesso, doveva affrontare pericoli e ostacoli impensati. Nelle sue previsioni – così limpide, così fatali, e che del resto si erano tutte avverate – non c'era la visione dell'anticamera deserta e buia, ma della stanza da pranzo illuminata. Sarebbe scivolata silenziosamente sino alla porta di quella stanza e, a un tratto, rapida come la folgore, sarebbe apparsa e avrebbe sparato.
Questa era la visione ed ecco che la realtà le portava il buio dovunque. Il buio e il silenzio. Avanzò lentamente, penosamente, con le braccia tese davanti a sé e le mani annaspanti, pronte a toccare, ad afferrare. Mani sottili, nervose, vibranti nell'oscurità. Nessun bisogno di estrarre la rivoltella... Occorreva prima vedere!
Il tac netto di un interruttore. La luce.
E una voce gelida alle spalle che ordinava: "Ferma, Telma Zinger! Ferma o sparo."