16. IL PORTIERE DELL'EXCELSIOR
Il capo portiere dell'Excelsior era biondo, piccolino, miope. Due occhi di vetro in un volto d'anuro. Questo non gli impediva di veder tutto, di dietro al suo banco a pulpito. Dotato di un fiuto infallibile, non commetteva mai un errore di valutazione, e sapeva giudicare con un'occhiata l'importanza, il grado e le possibilità economiche di ogni cliente.
Alle dieci e dieci di quella mattina, dopo averli letti, depose sul ripiano interno del suo banco i giornali, nei quali la morte di Vassilli Boldviski era annunciata in un trafiletto assai oscuro, che parlava di pugnalata e non accennava affatto ad Assia Paris (vero è che a quell'annuncio seguivano due colonne di necrologi), mentre l'avvelenamento di Set Nicholson veniva presentato come morte naturale, per quanto improvvisa e violenta, soprattutto notevole per essersi verificata proprio nel momento in cui l'attore stava interpretando una delle sue scene più impressionanti e più riuscite.
Si diede un colpettino col pollice e con l'indice prima a una e poi all'altra delle chiavi d'oro che gli adornavano i rovesci della palandrana attillata – movimento che in lui indicava un certo nervosismo – e staccò il ricevitore dal telefono interno. "Camera numero 54" sussurrò nel microfono. Aveva il dono di parlare al telefono dal suo banco, alla presenza di tutti, senza che nessuno potesse afferrare e comprendere una sola delle parole che diceva. "Siete voi? No, non c'è nessuno che vi cerchi. Sono io che desidero sapere... Naturalmente! Sì, i giornali sono discretissimi, ma questo non impedirà alla notizia di circolare in un baleno per tutta Roma. Ci siamo messi in un maledetto impiccio..." Coprì con la mano il microfono, mentre continuava ad ascoltare, e torcendo la bocca da una parte diede un ordine a uno dei ragazzi vestiti di verde e oro che erano nell'atrio. "Sì, tutto questo sta bene. Ma, numero uno, il colpo per l'Acidalia è di quelli che si sentono. Lo scandalo è sempre una pessima e dannosissima pubblicità. Numero due, non si sa mai fin dove si spingeranno le indagini della polizia. A che cosa voglio arrivare? A questo: voi e il vostro socio muovetevi con molta prudenza, non fate il mio nome neppure se vi mettono sulla ruota. Questa sera, quando smonterò, verrò nella vostra camera... fatevici trovare..." Riappese il ricevitore in fretta e si voltò a fissare un signore che, uscito dal risucchio della bussola a vetri dell'ingresso, si dirigeva lentamente verso di lui. Ci siamo, si disse dentro di sé, e di nuovo la mano gli salì a toccare le chiavi d'oro.
De Vincenzi, sebbene avesse dormito quattro ore in tutto – alle nove era già nel gabinetto del Questore – non accusava alcun segno di stanchezza. Le sue virtù di recupero erano fenomenali, e assai spesso aveva potuto ritrovare tutte le sue forze fisiche e intellettuali anche dopo ventiquattr'ore filate di lavoro, soltanto immergendosi in un bagno caldo e poi mettendosi sotto una doccia. Per cui, quella mattina appariva sorridente ed elegante, e nulla rivelava in lui il funzionario di polizia. Ma gli occhi miopi del portiere, lo abbiamo detto, avevano facoltà straordinarie di percezione: a lui era bastato il modo con cui De Vincenzi si era guardato attorno, per fiutare l'avvicinarsi del pericolo. Sicché fu senza sussiego che chiese, "Desiderate?" e spinse la cortesia fino ad alzarsi dal pulpito e a discenderne.
De Vincenzi desiderava molte cose, troppe anzi per il gusto del portiere. Chiedeva che Blanca Vertua, Sibylle Wirtz, Micheluccio Vernieri e Giucé Caienni fossero avvertiti del suo arrivo e pregati di attenderlo nelle loro camere. Voleva essere subito accompagnato nella camera di Boldviski – piantonata, naturalmente – e in quella di Set Nicholson, piantonata anch'essa. Avvertiva il portiere che sarebbe stato raggiunto in albergo dal suo vicecommissario. E per ultimo chiedeva che ogni chiamata telefonica a suo nome gli venisse trasmessa immediatamente dovunque si trovasse.
Il portiere annuì col capo a ogni richiesta. Tutto quanto aveva previsto si avverava. Ma il colpo finale fu quello che lo atterrò, anche se non lo fece impallidire o arrossire o vacillare, il controllo delle sue reazioni lo aveva ancora tutto.
"Sono da poco passate le dieci," gli disse De Vincenzi, consultando con lo sguardo l'orologio elettrico sopra l'arcata d'ingresso del salone. "Io ne avrò per un paio d'ore almeno, ma desidero ritrovarvi quando discendo. Credo che avrò proprio bisogno di far quattro chiacchiere con voi. Come vi chiamate?"
"Filiberto Rossi."
"Bene, signor Rossi, ci rivedremo tra poco." Fece qualche passo dietro al ragazzo verde e oro che, per ordine del portiere, lo doveva accompagnare; ma tornò indietro. "Anche Assia Paris abita in questo albergo?"
"Camera numero 388."
"Grazie."
"Debbo avvertirla?"
"No. Credo proprio che non ce ne sia bisogno." E questa volta De Vincenzi entrò nell'ascensore.
Il portiere tornò al suo banco e si attaccò di nuovo al telefono per eseguire le istruzioni ricevute. Non fu un lavoro lungo, e dopo poco Filiberto Rossi poté mettersi a riflettere intensamente. Il risultato di quelle riflessioni fu tale, che ruppe per un pomeriggio almeno il perfetto ordine del grande albergo di lusso e costrinse parecchi clienti a protestare.