22. IL QUESTORE
Quando De Vincenzi passò per corso Umberto, all'altezza di via dell'Umiltà, era mezzogiorno. Disceso da via Veneto a piazza Colonna in autobus, adesso si dirigeva lentamente in Questura. Inutile affrettarsi. Il Questore lo attendeva per la mezza; in quanto a D'Angelo sarebbe tornato chissà quando e lui non poteva far nulla prima di sapere se l'ampolla era stata ritrovata e se aveva realmente contenuto il veleno. C'era il cablogramma da inviare a Los Angeles, è vero; ma anche per questo impossibilità assoluta d'affrettare i tempi: soltanto il Questore poteva ordinare una spesa di quel genere.
Traversò la piazza affollata di studenti che uscivano rumorosamente dal liceo e dal ginnasio, e salì i due gradini che conducono al lungo e tetro corridoio d'ingresso alla Questura.
Nel suo ufficio, nessuno. Ma era pieno di sole e questo lo rallegrò. Sedette al suo tavolo e cominciò a disegnare teste di cavallo sopra un foglio, destinato evidentemente a ben altro uso. Ma le teste di cavallo lo riconciliavano con gli uomini, sebbene naturalmente i cavalli valessero di più.
Davanti a lui erano un portafogli e vari altri oggetti trovati nelle tasche di Boldviski; un portafogli e vari altri oggetti trovati nelle tasche di Nicholson; e c'era il grande fazzoletto a colori che il maresciallo aveva rinvenuto in terra nell'anticamera di Cobina de Kergorlay.
I due portafogli e gli altri oggetti – pipa, portasigarette, borsa da tabacco, accendisigari, matite, temperino, moneta spicciola – non avevano nessun interesse per De Vincenzi. Il fazzoletto poteva averne, se era stato veramente perduto dall'assassino.
Abbandonò un istante i suoi cavalli e trasse di tasca il libro che aveva trovato nella valigia di Boldviski. Quello era un indizio prezioso, messo in correlazione con le elucubrazioni ebdomadarie del regista... a meno che lui non fosse impazzito. A ogni modo, quelle carte con gli appunti gli occorrevano e certo le avrebbe sequestrate la sera stessa. Ma non ne avrebbe parlato ancora a nessuno. E ripose il libro nel cassetto del tavolo, che chiuse a chiave.
Guardò l'orologio e, toltosi il soprabito che appese all'attaccapanni sotto al cappello – abbastanza fredda quella stanza terrena – uscì dall'ufficio. Alle dodici e trentuno picchiava alla porta del Questore.
Uno sguardo melanconico, e un cenno. "Sedete, commissario."
De Vincenzi gli sedette di fronte, dall'altra parte della scrivania. Il Questore lo guardava, e lui si sentì lacero, affamato, tisico al terzo stadio, un essere insomma degno di tutta la pietà umana, tanto quello sguardo era carico di pena. "Ebbene? Come Ippolito e come Bellerofonte, avete cominciato a sperimentare l'astuzia e la perfidia delle donne?"
De Vincenzi sussultò. Quello era l'uomo delle sorprese! Si limitò a sorridere.
"Poiché immagino che in questo affare, di donne ce ne debbano entrar molte! Vi ringrazio, a ogni modo, di avermi evitato di conoscerle. In fondo, se si tolgono le telefonate notturne e diurne di Sangalli, io finora di noie, grazie a voi, ne ho avute poche." Diceva tutto questo con un accento da spaccare il cuore ai sassi.
"Credo che le noie ci cadranno addosso tutte assieme, commendatore, quando dovremo confessare che non siamo riusciti a scoprire l'assassino o gli assassini!"
"Difficile; eh? Un bel pasticcio... ma voi lo sbroglierete. A che scopo vi avrei fatto venire a Roma, altrimenti? Ditemi intanto a che punto siete." Si prese la fronte fra le mani e coi gomiti sul tavolo si dimostrò pronto ad ascoltarlo.
De Vincenzi fu laconico e preciso. Nessun bisogno d'infiorare i fatti: gli occhi del Questore erano eloquenti. Perbacco! Aveva trovato un Capo degno di lui, e quasi cominciò a sentirsi riconciliato con Roma. Ma la felicità perfetta sarebbe stata se, invece di far venire lui a Roma, avessero mandato quel Questore a Milano.
Quando tacque, l'altro annui col capo. "Vedo... Boldviski può essere stato ucciso da una qualsiasi delle persone che gli stavano accanto, e Nicholson... dovrebbe a rigore essere stato avvelenato da Boldviski, se il regista non fosse stato reso cadavere prima del tempo."
"Ecco!" esclamò De Vincenzi, e scrutò con intensità il volto del Questore. Era davvero meraviglioso, quell'uomo!
"E allora?"
"Non mi resta che sondare le anime, commendatore."
"Lo sapete quel che ha detto Terenzio? L'uomo è tutto pieno di fessure invisibili, dalle quali la vita fugge. Cercate quelle fessure, De Vincenzi!"
Decisamente la cultura del suo Capo era classica... "È quel che farò, commendatore. Ma mi occorrerebbe anche saper qualcosa di quel che pensa il Procuratore Distrettuale di Los Angeles circa i signori Caienni e Vernieri."
"Già. Temo sia indispensabile. Scrivete voi il testo del cablogramma." E spinse verso di lui un blocco di carta e una penna stilografica. De Vincenzi scrisse. "Volete che ve lo legga?"
"Date qua..." Diede un'occhiata al foglio, poi premette il bottone d'un campanello.
"Come ha fatto l'assassino di Boldviski ad entrare nell'anticamera della de Kergorlay?"
"È un circolo vizioso. Quando saprò chi è l'assassino, saprò come ha fatto; se sapessi come ha fatto, saprei chi è."
"Triste... E se nemmeno l'ampolla di terracotta avesse contenuto il veleno?"
"Questo non credo sia possibile. È possibile, invece, che quell'ampolla non si trovi più, nel qual caso l'assassino di Nicholson non sarebbe colui al quale io penso."
Il Questore chiuse gli occhi. "Credete a quel che ha raccontato Cobina de Kergorlay?"
"Se avesse mentito, il mistero non sarebbe un mistero!"
"Che cosa farete, adesso?" E riaprì gli occhi, perché avevano bussato all'uscio. "Avanti!" Consegnò il testo del cablogramma all'usciere: "Subito all'Italcable..."
L'uomo scomparve col foglio.
De Vincenzi si alzò. Aveva compreso che quell'ultima domanda era una specie di congedo. "Debbo parlare ancora con qualcuna di quelle persone. Poi cercherò di tirare le somme dentro di me... Quando sarò convinto che la conclusione alla quale sono giunto è la buona, cercherò il mezzo di procurarmi le prove che la dimostrino, e con queste prove alla mano, confonderò l'assassino... Dopo, il mio compito sarà terminato."
"Amen!" fece il Questore. "Iddio vi assista. Ho visto che questi delitti vi turbano, e che il vostro cervello lavora affannosamente. Affidatevi alle vostre cellule grigie. Ma non vi fidate delle apparenze e non rigettate alcuna ipotesi per assurda che vi sembri. Ricordate Anassagora, il quale insegnava che la neve è nera." E gli fece un cenno stanchissimo di saluto.
De Vincenzi uscì dall'ufficio del Questore abbastanza turbato. Con quella sua aria lontana e assorta, dando l'esatta impressione di un vedovo inconsolabile o di un uomo orbato dal terremoto o dall'inondazione di ogni proprio bene terreno, il Capo gli si era rivelato di una perspicacia e di una profondità di giudizio veramente impressionanti. Dopo il breve e succinto resoconto che gli aveva fatto, il Questore aveva mostrato di saperne quanto lui, e aveva intuito tutto quello che lui gli aveva taciuto!
Ma non era questo, naturalmente, che avrebbe potuto turbare De Vincenzi. Quei due delitti – anche se privi dei foschi caratteri dell'orrore e dell'incubo, come altri di cui lui si era dovuto occupare – gli apparivano disperatamente misteriosi. L'ambiente stesso contribuiva a dare al mistero un carattere stranamente paradossale.
Eppoi sentiva – e raramente i suoi presentimenti lo avevano tradito – che il dramma non era finito, ch'esso avrebbe avuto, improvvisamente, sviluppi impensati e forse sorprese tragiche. Vassilli Boldviski aveva seminato attorno a sé troppo male, perché la fioritura non fosse tossica! È un male mortale avvelenare le anime, e quell'uomo lo aveva fatto!
Occorreva far presto, fare molto presto per fermare la vendetta, che l'assassinio del regista non aveva forse completamente placata!
Ma, pur dicendosi tutto ciò, De Vincenzi non pensava a nulla di preciso. C'era in lui una sola convinzione, ed essa, senza alcuna prova, sarebbe stata rifiutata da tutti!
In ufficio trovò un fonogramma sopra il tavolo. Il commissario D'Angelo lo avvertiva che aveva rinvenuto l'ampolla nell'armadio, e che si recava al Gabinetto Chimico con essa. Calcolava di poter essere in Questura verso le quattordici.
De Vincenzi andò a mangiare in una trattoria vicina – una specie di simpatica osteria dove fu servito da una esuberante servotta che gli sorrideva con gran fulgore d'occhi e di denti – e alle due era di nuovo in Questura.
D'Angelo non tardò molto. Giunse affannato e sorridente. Gli porse l'ampolla, togliendosela dalla tasca del pastrano, e gli annunziò con aria trionfante: "Neh, cavalié! Chista è stata!"
"Analisi positiva?"
"Certo! Mo' ve spiego... La stricnina, il cloridrato di stricnina per essere precisi, è stato messo nell'acqua. Era una specie di sale, cristallino..."
"Avanti, D'Angelo! Tutto questo purtroppo lo so... I prismi quadrilateri cristallini non si sono sciolti interamente, e qualcuno è rimasto nell'ampolla, questo volete dirmi?"
"Ebbé, cavalié, medico siete! Proprio comm'o dicite vuie! Di modo che l'analisi è stata facile e concludente: state attento, perché quella è un'ampolla avvelenata!"
"Grazie!" Si mise l'ampolla in tasca assieme al fazzoletto colorato, e si diresse all'attaccapanni.
"Cavalié, e io?"
"Andate a mangiare, prima di tutto!"
"Già fatto! Mentre il medico faceva l'analisi, io mangiavo..."
"Allora, rimanete qui. Se avrò bisogno, vi avvertirò."
In piazza prese un tassì: l'uso continuato dell'autobus lo avrebbe reso nevrastenico.