2. COBINA
Paolo Vergolli, disteso sul divano basso, che era il suo letto, con le mani dietro la nuca fissava la vetrata del soffitto. Il sole era scomparso, la luce lì dentro era divenuta livida, da acquario. Saranno le quattro, pensò, forse le cinque. Aveva dormito e adesso uno strano torpore dolce e spossante lo avviluppava ancora, togliendogli la forza di muoversi. Alle sei doveva essere a Cinecittà. Sì, Boldviski avrebbe cominciato anche senza di lui: se ne infischiava, Boldviski, del soggettista e di tutti! Ma voleva andarvi, trovarsi presente fin dal principio. Anche i dialoghi di quel film erano suoi, e sapeva bene che Boldviski non li avrebbe rispettati. E poi... era pur stato sciocco a innamorarsi di Assia. La conosceva da pochi giorni e non pensava più che a lei! Nulla di strano e di preoccupante, se si fosse trattato di un individuo normale, ma lui!
Aveva trent'anni ed era quella la prima volta che gli capitava. Meno male che non glielo aveva detto, non glielo aveva neppure fatto capire. Nulla di irrimediabile, se fosse riuscito a liberarsi dell'ossessione. Poiché non doveva essere amore, il suo. Desiderio, certo; ma anche uno strano pungente interesse, fatto di avida curiosità. Strana creatura! Da dove veniva? Doveva essere italiana, perché il suo accento era puro. Ma aveva una madre straniera, slava, ungherese, e quella madre pesava su di lei come un enigma. Forse, aveva cominciato a pensare ad Assia con continua e martoriante intensità proprio dal momento che aveva conosciuto Cobina de Kergorlay.
Dalla vetrata scendeva la luce livida del pomeriggio invernale sempre più cupo e grigio.
Paolo si agitò sul divano. Sì, doveva alzarsi, muoversi, andare. Rivide il volto duro, tagliato con l'ascia, di Vassilli Boldviski e un debole brevissimo brivido gli corse la schiena.
Si alzò. Camminò per la stanza ingombra di troppi mobili e carica di quadri, di damaschi, di oggetti disparati. Un candeliere da altare accanto a una Venere callipigia; un elefante d'avorio sopra un pesante messale rilegato in cuoio e chiuso da fermagli di ottone. E poi una collezione mostruosa di animali impagliati disseccati imbalsamati, d'ogni genere forma grandezza, sparsi dovunque. Dal minuscolo coleottero verdeazzurro al gatto, al pappagallo, al cane. C'era anche un piccolo canguro e una scimmiettina ghignante. Il tutto plastica rappresentazione di quel che doveva essere lo spirito di Vergolli, abitato da visioni bizzarre, ossessionato da incubi. Qualche rotellina fuori posto nel cervello. Un artista... Aveva cominciato col teatro: Bluff, L'uragano, Il redivivo, Il giullare... Adesso, s'era dato al cinema. Sognava nuove forme artistiche di larga coralità. Vedeva la realizzazione sullo schermo di una comicità nuova e pura, che derivasse unicamente dall'imprevisto e parlava a se stesso di una logica dell'assurdo, di cui non riusciva ancora ad afferrare completamente l'essenza. Tutto questo gli formava nel cervello un sentimento di preconcetti artistici assai interessanti seppure sterili. Ma non era meno vero che scambiava il sadismo per il talento, e che la normalità della gente giudicava lui un caso patologico.
Era questo, Paolo Vergolli? Questo e qualche altra cosa ancora. Nel fondo rimaneva un borghese, anzi un provinciale, in lite con il proprio mondo. E forse la ribellione in lui era tanto più forte ed esagitata, quanto meno sentita. Certo, il suo desiderio di volo era sincero. Ma nei momenti di amarezza era solito dire che anche Icaro aveva avuto quel desiderio, e che quindi non importava riuscire, se Icaro, pur fallendo, era rimasto comunque nella storia del mondo...
Davanti allo specchio, appeso alla parete di fondo fra l'impalcatura di un cervo e la maschera bianca di Beethoven, contemplò per qualche istante il proprio volto pallido e contratto, e si strinse il nodo della cravatta. Diede un'occhiata all'orologio che si trovava sopra un piccolo tavolo: le cinque e mezzo. Doveva andare. Ma qualcosa lo tratteneva. Qualcosa di oscuro e di tenace. Una sensazione, non un pensiero. Forse, un presentimento. Perché mai quell'impressione di pericolo? Nulla la giustificava se non forse quel suo innato bisogno di avventarsi contro l'ignoto. Ma quale ignoto, se tutto era adesso previsto e prevedibile?
Un bussare leggero alla porta, e poi subito un altro più sonoro, deciso.
Paolo sussultò. Si volse. Fissò attraverso la stanza, lunga più di dodici metri, la porta chiusa. L'unica porta di quell'ambiente, senza altre uscite, se non la finestra tagliata in alto, sotto la vetrata e che immetteva a una specie di terrazza e poi sui tetti.
Disse: "Chi è?"
Da lontano sentì un parlottare basso e confuso. Poi i colpi si ripeterono.
Paolo si diresse verso l'uscio. Camminava, fissando i battenti, come se avesse temuto di vederli spalancare, pur sapendo che li aveva sprangati.
Tirò il chiavistello, fece giocare la molla della serratura, che dall'interno si apriva senza chiave.
Una figura di una donna gli apparve, e lui indietreggiò riuscendo a soffocare un grido di stupore.
"Mi riconoscete? Ho bisogno di parlarvi."
"Entrate. Non avrei mai immaginato..."
"Naturalmente!"
Cobina de Kergorlay avanzò in fretta. I suoi movimenti, anche se rapidi, erano strettamente cauti e striscianti. Un gattone enorme, pensò Paolo. A ogni modo, era un gatto nero, lucido nella pelliccia di lontra, con un rotondo cappello di velluto privo forse di forma ma non di grazia. Dietro di lei veniva armoniosa, bellissima, assolutamente degna di figurare fra le stelle del cinema mondiale, sua figlia Assia Paris.
Paolo le osservava, trasecolato. Non sapeva rendersi ragione di quella visita. Nessuno aveva mai osato recarsi da lui, né i suoi amici né gli artisti con cui aveva relazione di lavoro. Era già strano che avessero saputo dove abitava.
Il volto di Cobina era chiuso, ermetico. I lineamenti sottili, quasi diafani, eppure precisi, apparivano impenetrabili. La bocca formava una linea diritta, appena un poco più rossa delle gote esangui. Tre rughe profondamente segnate le tagliavano la fronte sino alla radice del naso.
Che cosa voleva?
Fissò Assia al fianco della madre, e ne incontrò lo sguardo smarrito, quasi supplichevole.
"Che c'è?" chiese con voce malferma. "Che cos'è accaduto?"
"Qualcosa è accaduto... ma per noi il peggio deve ancora accadere." Le parole di Cobina stridevano.
"Oh, mamma!" sussurrò Assia, e sembrò gemesse.
Paolo Vergolli reagì a se stesso. Indicò un divano, dicendo con freddezza: "Sedete!"
Assia si lasciò cadere sui cuscini. Cobina de Kergorlay non si mosse. Teneva le mani intrecciate contro il petto come se volesse comprimerselo o nascondere qualcosa contro di esso, e scrutava attentamente il giovane. Sempre più sembrava un felino in agguato. Il silenzio si prolungò per qualche istante.
Poi fu lei a parlare: "Vergolli, mia figlia crede che voi possiate difenderci."
Con un sussulto Paolo si voltò verso Assia. Gli occhi della ragazza si erano fatti ancora più supplici e tutto il corpo di lei era agitato da un leggero fremito.
"Difendervi?" chiese senza stupore, dato che da qualche minuto era preparato a tutto.
Cobina fissava lo scimpanzé impagliato. Il volto di lei appariva più che mai tagliente e le tre rughe della fronte profonde.
"Si può difendere due donne da un aggressore... da qualcuno che le minacci o le perseguiti... anche da un pericolo oscuro, da una vaga premonizione di vendetta o di castigo. Si può tentare di difendere due donne da un colpo di rivoltella, da una pugnalata, dalla morte, insomma, quando si presenti in forma concreta, visibile. Questo lo so... Ma per noi il caso è diverso." La voce sembrò le si spezzasse in un breve ghigno amaro e stridente.
Assia gemette: "Mamma!"
La donna sciolse le mani intrecciate e tagliò l'aria con un gesto breve. "Vergolli, un enorme pericolo, viscido, informe eppure preciso, minaccia mia figlia e me!"
Si udì un singhiozzo di Assia.
Paolo si passò una mano sulla fronte. Certo, doveva essere un incubo. Tutto irreale. Adesso, si sarebbe accorto di essere solo e di aver avuto una visione. "Non c'è senso..." mormorò.
"Quando mai la vita ha un senso?" chiese freddamente Cobina.
"No... Non c'è senso nell'essere venute da me..."
"Credete?" Fece qualche passo per la stanza; la ragazza si era ancor più curvata su se stessa, col volto fra le mani; non si vedeva che la massa dei suoi capelli biondi. "Siete il più umano di tutti! Per questo siamo venute da voi. E poi, non c'era scampo, qualcuno aveva da sapere... per poterci difendere..." Si era fermata e aveva parlato senza voltarsi. Girò improvvisamente su di sé e fissò Vergolli. "Voi dovete sapere tutto. Potrete così dire che io avrei dovuto ucciderlo, ma che non l'ho ucciso. Quando troveranno il cadavere in casa mia, voi direte questo. E quando troveranno il mio cadavere, dopo il suo, voi potrete dire che io sapevo di doverlo seguire."
Paolo non dubitò un istante che la tragedia fosse reale e che un cadavere giacesse in quel momento in una casa di Roma, una qualsiasi casa.
Guardò la ragazza. I capelli ondulati avevano la densità del metallo fuso; le spalle armoniose sussultavano, e l'agitazione compressa nel suo corpo perfetto non faceva che aumentarne la bellezza. Anche in quel momento Paolo si sentì sferzato, quasi dolorosamente. Con sforzo, riuscì a chiedere: "Un cadavere? Dove? Di chi?" Poi, subito, con affanno, aggiunse: "La vostra casa è anche la casa di... Assia?" e indicò con lo sguardo il divano.
Un rapidissimo sorriso passò sulle labbra di Cobina. "No. Non è la sua casa. Mia figlia non abita con me. Ma è lei che porterà il peso di tutto, se non riusciamo a difenderla."