21. L'AMPOLLA DI TERRACOTTA

 

Quando De Vincenzi, sceso dal primo piano, arrivò nell'atrio, il banco a pulpito del portiere era deserto. Udì le proteste impazienti di una vecchia signora e di un compito gentiluomo in ghette grigie e monocolo. Notò – in lui l'osservazione era meccanica e i suoi occhi raccoglievano da soli immagini che poi si fissavano nel suo subcosciente per affiorare in altro momento – che i ragazzi verde e oro si agitavano correndo in varie direzioni, e che un dignitoso personaggio in redingotte si affannava a dar loro ordini. Ma non si fermò a chiedere spiegazioni di quei fatti anormali, poiché era troppo preso, e nulla poteva sembrargli interessante in quel momento al confronto di un boccale e di una bottiglia di Malaga.

Uscì in via Veneto, e si mise a risalirla in fretta verso porta Pinciana. Davanti alle mura annose voltò a destra per via Campania. Fu quando vide il nome Aurora scritto sul fianco di una tettoia a vetri colorati, che rallentò per poi entrare nel vezzoso e infiorato atrio della pensione.

Una camerierina nera e bianca gli sorrise di lontano, mentre una signora vestita di seta arancione con un grosso cuore d'oro in mezzo al petto – simbolico forse, ma impressionante come un pezzo anatomico fuori di posto – gli si fece incontro amabilmente gelatinosa: "Was wünschen Sie, mein Herr?"

De Vincenzi, per quanto conoscesse abbastanza il tedesco, le rispose in italiano che desiderava conferire con la signorina Telma Zinger.

Il sorriso sparì dalle labbra carnose, abbondantemente laccate di tenerissimo carminio, e la signora chiese, aggrottando le sopracciglia delicate: "Polizia?"

De Vincenzi s'inchinò. Evidentemente, era bastato il nome di Telma Zinger a mettere in orgasmo la padrona della pensione.

Fu la camerierina ancheggiante che lo accompagnò al primo piano e lo introdusse in un piccolo salotto coi mobili di canna, il grande specchio, un diluvio di riviste arretrate sparse sui tavoli e un divanino costruito per due sole persone non troppo grosse e non eccessivamente pesanti. "Avverto subito la signorina Zinger. Accomodatevi." Un altro sorriso pieno di promesse, e svanì dietro la tenda a fiorami.

De Vincenzi sedette. Dalla finestra si vedevano le mura Aureliane e una delle due torri di Belisario: più lontano gli alberi di Villa Umberto. Il sole illuminava i massi secolari e le cime dei pini mediterranei e dei castagni. Roma è bella come una bellissima donna, pensò De Vincenzi, e come una bellissima donna affascina... Già per via Veneto aveva avuto la sensazione d'una città che non lavora, una città in festa sempiterna: i caffè pieni di donne elegantissime, un levriere bianco tenuto al guinzaglio da una mano guantata di rosso, un giovanotto col soprabito attillatissimo, una camelia bianca all'occhiello.

Si alzò di scatto. Telma Zinger era entrata, e lo fissava da qualche istante. Era vestita di grigio, con un abito da uomo rigido e diritto. I pantaloni lunghi avevano la piega impeccabile. La cravatta era nera, opaca. Al posto degli occhiali portava un monocolo scintillante, cerchiato di tartaruga.

"Scusatemi se vi disturbo a quest'ora..."

"Perché? Sono le undici."

"Siete andata via da Cinecittà alle cinque."

"Non mi corico mai prima dell'alba, e di giorno dormo pochissimo. È un'abitudine contratta a Hollywood, quando passavo le notti al Clover Club..." Lo fissò. "Sapete, è regola assoluta per chi voglia vivere a Hollywood di trascorrere le notti al Clover Club, ubriacandosi fino a star male." Era assolutamente seria e una ruga le solcava la fronte liscia. Quel suo volto da efebo impudico rifletteva una tristezza morbosa, quasi sinistra.

"Lavoravate con Boldviski, laggiù?"

"No. Lavoravo alla Fox. Boldviski era alla Metro."

"Ma lo conoscevate?"

"No." Rimaneva in piedi per costringere l'altro a capire che quel colloquio non la divertiva.

De Vincenzi si appoggiò al tavolo più grande, depose il cappello dietro di sé, cominciò a togliersi lentamente i guanti. "Se mi parlaste un poco di Boldviski..."

"Vi ho detto..."

"Sì. Ma qui lo avrete pure conosciuto. Voi, più di ogni altro, eravate a diretto contatto con lui."

"Era un uomo straordinario!" Questa volta aveva vibrato. Il volto le si era acceso.

"Me lo hanno detto!"

Fece una smorfia di disgusto. "Quel che possono avervi detto gli altri... e le altre... lo immagino!"

"Un po' violento, quasi brutale..."

"Se mi avesse battuta, gli avrei baciato le mani!"

De Vincenzi la osservò: si era rivelata. Un'altra vittima... E forse il regista non si era neppure accorto di lei, preso com'era di Blanca Vertua. Questa qui sarebbe stata capace di tutto! Se il veleno fosse stato propinato a Blanca, lui avrebbe saputo dove rivolgersi a colpo sicuro. Ma Nicholson... perché Telma Zinger avrebbe voluto disfarsi di Nicholson? "Sapete che la bottiglia di Malaga non conteneva veleno?"

Non comprese subito. "Eppure Nicholson è morto!"

"Sì. E quindi la stricnina deve essere stata messa nel boccale, quando era già pieno di vino."

"Non è possibile!" Si dondolò un poco sui talloni. Aveva le mani in tasca e, con la testa leggermente rovesciata all'indietro, lo fissava tra le palpebre socchiuse. "Non è possibile! Io ho versato il vino dalla bottiglia nel boccale alle dieci e un quarto circa, dopo aver mangiato in fretta al ristorante di Cinecittà. Erano con me l'architetto e il pittore... Dopo essermi occupata di qualche altro particolare, sono uscita per alcuni minuti dal teatro 5, ma nel salone lasciai gli operatori, l'ingegnere del sonoro, gli operai e i facchini. Senza contare gli attori che non dovevano truccarsi... C'erano Blanca Vertua, Gita Garena... Avevo messo il boccale sul tavolo ben visibile, e le luci erano accese. Pochi minuti prima delle dieci e tre quarti, sono rientrata nel teatro con Flauti e non ci siamo più mossi di lì. Alle dieci e tre quarti, Sid Renier ha fatto la sua scena. Subito dopo abbiamo girato la scena di Nicholson, e lui è morto... Chi volete che abbia potuto mettere il veleno nel boccale senza che gli altri lo vedessero?"

Infatti. Ma, quando Nicholson aveva bevuto, il veleno c'era!

"Sid Renier?"

"Già. Era Menico Sanguigni, il sicario di Cesare Borgia."

"Ho già sentito questo nome. Aspettate... Ma sicuro! Uno degli inquilini del primo piano, nella casa di Cobina de Kergorlay. Altra coincidenza!"

"Vi avranno detto che è stato lui a mettere il veleno nel boccale!"

"Come?"

Un sorriso ironico. "Naturalmente. La scena che ha girato consisteva proprio in questo. L'entrata nella Sala Rossa... Menico si avvicina al tavolo, versa il veleno nel boccale, si ritira..."

"Versa o fa finta di versare?"

"È ridicolo! Volete che versasse il veleno sul serio?"

"No! Vi chiedo se doveva effettivamente versare qualche liquido nel boccale, oppure se faceva il gesto soltanto."

"Un gesto a mani vuote avrebbe fatto ridere il pubblico. No! E poi si vede che non conoscevate Boldviski! Erano i particolari quelli che curava di più. Poiché il veleno che Menico si presumeva gettasse nel boccale doveva essere la cantarella, la celebre acquetta mortale dei Borgia, Boldviski aveva fatto cercare una piccola ampolla di terracotta. E mi aveva raccomandato che fosse riempita d'acqua, prima di darla a Renier. Credo volesse girare anche un primo piano della mano che teneva l'ampolla piegata sul boccale. Si sarebbe visto il liquido cadere."

"E l'ampolla... quell'ampolla... ieri sera?"

"L'avevo data io stessa a Sid Renier prima della sua scena."

"E l'avevate riempita voi di acqua?"

"No. Era già piena, quando la presi dall'armadio. Per esser sicuro che non me ne sarei dimenticata, Boldviski aveva voluto vederla piena d'acqua fin dal giorno prima, quando si era occupato di quelle scene."

"E dopo... dopo che Sid Renier l'ebbe adoperata, dove fu messa?"

"Certamente nell'armadio. Sid deve averla riconsegnata."

"A chi?"

"Oh, non so. Al primo che gli sarà capitato. Il costumista, la donna aiuto truccatore. Può darsi che lui stesso sia andato a rimetterla nell'armadio. Poiché si continuava a girare, io dovevo rimanere accanto a Flauti..."

Frau Cuordoro vide con spavento il cortese signore da lei fatto accompagnare nel salottino del primo piano scendere a rompicollo la scala e precipitarlesi quasi addosso.

"Dove avete il telefono?"

"Bitte... Herr Kommissar..." Non poté continuare e indicò con la mano la cabina, in un angolo. Con un salto De Vincenzi vi entrò.

"Ach! Mein Gott!" Lo sapeva, lei, che la polizia avrebbe portato il turbamento e la rovina nella sua pacifica, ordinata, verdeggiante pensione!

Dopo poco, De Vincenzi riapparve. Sembrava più tranquillo. "Direte alla signorina Zinger, vi prego, che tornerò a vederla in un altro momento..." Fece un inchino profondo, mormorando, "Küss die Hand, guädige Frau!" E scomparve fuori della porta.

La donna lo seguì con lo sguardo e sospirò. Erano davvero gentili questi poliziotti italiani che, anche nel corso di un'inchiesta, sanno baciare la mano alle signore...