25.
Restai in corridoio, immobile, a bocca aperta, come se avessi sopra la testa un fumetto con scritto: «!!??!!» Restai lí finché mi venne in mente che non era il caso di farmi trovare piantato fuori dalla porta, se Mackey o Conway fossero usciti. Allora mi mossi. Superai il Posto Segreto, con i suoi bigliettini sibilanti, scesi le scale. Mi muovevo lentamente, con prudenza, come se mi avessero pestato e avessi male dappertutto.
L’atrio era buio e dovetti trovare a tastoni la strada verso il portone. O era diventato piú pesante, o io avevo perso le forze. Per aprirlo dovetti appoggiarmi e spingere, con i piedi che scivolavano sul pavimento. Immaginai Mackey che mi osservava dalle scale e rideva. Quando il portone cedette per poco non caddi fuori, sudato, e lo lasciai richiudersi alle mie spalle. Ero fuori e non conoscevo altri modi per rientrare nella scuola, ma non ne avevo bisogno.
Pensai di chiamare un taxi e tornare a casa. Solo che Mackey e Conway, non trovandomi, avrebbero capito che ero scappato a piangere nel cuscino. Quel pensiero mi fece arrossire nel crepuscolo, e lasciai il cellulare in tasca.
Le dieci meno venti. Ormai era quasi buio. Le luci esterne erano accese e imbiancavano l’erba senza illuminarla davvero, suscitando forme strane in lontananza. Guardai il bosco oltre il prato, come dovevano guardarlo le ragazze del sesto anno: una linea d’alberi resa piú netta dalla consapevolezza che tutto stava per finire e scomparire alla vista. Sarebbe rimasto lí per altri, non per me. Io ero quasi uscito di scena.
Scesi i gradini in quella luce che toglieva profondità e li rendeva pericolosi, e mi diressi verso l’ala del collegio. La ghiaia crocchiava sotto le scarpe e mi voltavo qua e là con lo stesso riflesso automatico di quella mattina, in cerca del guardacaccia sul punto di lanciare i cani addosso all’intruso.
Ripensai al casino appena successo, sperando di trovarci dentro almeno una briciola di qualcosa di buono. Mi dissi che se Mackey aveva ragione su Conway (e Mackey le cose le sa, non ha bisogno di inventarsele), allora Conway mi aveva fatto un favore: meglio fuori che dentro. Mi dissi che l’indomani, dopo aver mangiato e recuperato le energie, mi sarei sentito sollevato. Mi dissi che non avrei avuto piú la sensazione di aver tenuto tra le mani qualcosa di inestimabile e che me lo avessero strappato via prima che potessi chiudere le dita.
Ma non riuscivo a convincermi. Fuori da quelle mura mi aspettava il ritorno ai Casi Freddi, e Mackey aveva di nuovo ragione: adesso ero il ragazzo che non aveva resistito nemmeno dodici ore in serie A. Lui e Conway lo avrebbero fatto sapere a tutti. I Casi Freddi mi erano sembrati una grande cosa, all’inizio, il primo passo verso un futuro luminoso. Ora mi sembravano un vicolo cieco e buio. Un caso come quello di oggi, ecco ciò che volevo. Ma era durato solo un giorno ed era sparito.
L’unico lato buono che riuscii a trovare fu che ormai era quasi finita. Anche senza la pugnalata alle spalle di Mackey, giravamo in tondo senza concludere nulla. Se non fosse stato lui a staccare la spina, lo avrebbe fatto Conway. Dovevo solo aspettare che uno dei due perdesse la pazienza. Poi me ne sarei tornato a casa, tentando di dimenticare le ultime ore. In quel momento mi sarebbe piaciuto essere uno di quelli che si mettono a bere e vanno avanti finché giornate del genere si dissolvono nella nebbia. O meglio, uno di quelli che in giornate cosí chiama gli amici e va con loro al pub, e si sente confortato dalla loro presenza.
Tutti sanno che moglie e bambini sono un laccio. Ma la gente non capisce che anche gli amici lo sono. Avere degli amici significa che ti sei assestato. Il punto in cui siete arrivati insieme è dove resterai: non andrai oltre. È la fermata dell’autobus a cui sei sceso.
Gli amici non ti legano solo a dove sei, ma anche a chi sei. Quando hai degli amici che ti conoscono davvero, al di là di quello che tu decidi di lasciar vedere, non c’è piú spazio per diventare la persona che un giorno realizzerà i tuoi sogni. Sei diventato solido: sei la persona che loro conoscono, per sempre.
«Ti piace che sia tutto bello», aveva detto Conway. E aveva ragione. Nemmeno morto mi sarei inchiodato in un punto preciso, diventando una persona fissa, rinunciando a tutto il bello che potevo ancora trovare. Se avessi voluto il brutto, sarei rimasto nel posto da dove venivo, con una carriera da disoccupato, una moglie che mi odiava e una decina di figli, con un televisore enorme sintonizzato ventiquattro ore al giorno su programmi che parlavano di ciò che succede nell’intestino delle persone. Chiamatemi arrogante, presuntuoso, il ragazzo delle case popolari che pensava di meritare di piú. Era una cosa che avevo giurato a me stesso quando non ero ancora abbastanza grande per capirla bene: sarei stato qualcosa di piú.
Se per arrivarci dovevo rinunciare agli amici, non c’era problema. Non avevo mai incontrato qualcuno che mi avesse portato in un luogo in cui volessi restare; qualcuno che guardandomi vedesse la persona che volevo essere per sempre; qualcuno per cui valesse la pena rinunciare alle cose che volevo ancora ottenere.
In quel momento capii una cosa, troppo tardi, sotto il peso morto dell’ombra di St Kilda. La luce che avevo visto in Holly e nelle sue amiche, cosí brillante da far male, la cosa rara che ero venuto a cercare e a invidiare in quella scuola, avevo pensato si riflettesse su di loro da quei soffitti alti, dal legno lucido. Ma sbagliavo. Era una luce che veniva da dentro, dal loro modo di rinunciare a tante cose le une per le altre, di strappare rami dal proprio futuro per farci un falò. Ciò che mi era sembrato bello, lí, le balaustre, l’eco dei madrigali, non era nulla. Non ero riuscito a scorgerne il cuore.
A Mackey era bastato annusarmi per conoscere la mia storia. Aveva visto il ragazzo che a scuola rifiutava le canne e la possibilità di farsi due risate per non mettere in pericolo le sue possibilità di andare via; aveva visto il giovane all’accademia di polizia che con sorrisi e pretesti vaghi si teneva lontano dagli amici destinati a restare per sempre in divisa. E mi aveva osservato fregare Kennedy, e aveva capito esattamente cosa mancava a una persona capace di fare una cosa del genere.
E anche Conway doveva averlo avvertito. Per l’intera giornata, mentre io pensavo a come lavoravamo bene insieme, a come andavamo d’accordo, a come tutto sembrava bello e nuovo.
Arrivai sul retro della scuola. Gruppi di forme scure sull’erba biancastra, inquiete, in movimento. Per un attimo non riuscii a capire cosa fossero, pensai a grossi felini liberati per la notte, a un altro progetto artistico, ai fantasmi usciti dalla scuola di rame di Holly. Poi vidi capelli lunghi brillare sotto la luce, e udii una risata. Le interne. Conway aveva chiesto a McKenna di lasciarle uscire prima di mandarle a letto, la preside aveva seguito il consiglio.
Fruscii sotto gli alberi, dentro la siepe. Le ragazze erano ovunque, e mi osservavano. Un trio sull’erba mi guardò, poi le teste si unirono a bisbigliare ed emerse un’altra risata, rivolta a me.
Mancava ancora una mezz’ora. Poi qualcuno avrebbe chiuso il colloquio con Holly e io me ne sarei tornato a casa nell’auto di Conway, in silenzio come un ragazzino sorpreso a scrivere sui muri con lo spray. Mezz’ora da passare lí come uno stronzo sotto lo scrutinio impietoso di alcune ragazzine: col cazzo. Tornare sul davanti della scuola, come se quelle adolescenti mi avessero messo paura, e sperare che nessuno mi vedesse mentre aspettavo i grandi per farmi dare un passaggio a casa: col cazzo pure quello.
– E vaffanculo anche a Conway, – dissi, a voce non abbastanza alta da essere udito dalle ragazze. Se non lavoravamo piú insieme, avrei lavorato da solo.
Non sapevo da dove cominciare, ma non ce ne fu bisogno: furono loro a chiamarmi. Voci da quella massa in bianco e nero, tra il fruscio dei rami e lo stridio dei pipistrelli. – Detective, detective Moran. Da questa parte! – Voci argentine, morbide, dappertutto e da nessuna parte. Tra le foglie, risatine come falene.
Un po’ piú lontano, tra le ombre degli alberi, sul prato in pendenza, un agitarsi di mani. – Detective Stephen, venga! – Andai da loro, tra una rete di sguardi attenti. Chiunque fosse ad avermi chiamato, ci sarei andato.
Apparvero contorni e lineamenti dal nulla, come in una polaroid. Gemma, Orla, Joanne. Poggiate sui gomiti, gambe allungate, capelli sull’erba. Sorridenti.
Ricambiai i sorrisi. Quella era una cosa che potevo e sapevo fare. Molto meglio di Conway.
– Sentiva la nostra mancanza? – Gemma, il collo inarcato.
– Qui –. Joanne. Si avvicinò a Gemma, liberando un posto sull’erba. – Venga qui a parlare con noi.
Sapevo che non era una buona idea. Non ero voluto restare solo in una stanza illuminata con Holly Mackey, e là fuori con quelle tre il pericolo era maggiore. Ma mi guardavano come se volessero davvero avermi vicino, ed era una bella sensazione, come unguento sulle scottature.
– Possiamo chiamarla detective Stephen?
– Perché, se no ci arresta?
– Ti piacerebbero, le manette…
– Possiamo? Sul suo biglietto c’era scritto Stephen Moran.
– O detective Steve?
– Che schifo, quello è un nome da attore porno.
Io continuai a sorridere, senza dire una parola. All’esterno, di notte, erano diverse. Vivaci, tutte occhiate furtive, mosse da una brezza che io non riuscivo a percepire. Forti. Mi sentivo circondato, come quando tre brutti ceffi girano l’angolo e affrettano il passo per raggiungerti.
– Ci annoiamo, – disse Joanne, incrociando le caviglie. – Resti a farci compagnia.
Mi sedetti. L’erba era morbida ed elastica. L’aria sotto gli alberi era ricca di profumi, di spore e polline.
– Cosa ci fa ancora qui? – volle sapere Gemma. – Resta per la notte?
– Sí, e dove esattamente lo faresti dormire? – disse Joanne, gli occhi al cielo.
– Gems vuole invitarlo nel suo letto –. Orla, con una risatina incontrollabile.
– Per caso parlavo con te? – Niente battute, senza l’autorizzazione di Joanne. – E comunque non può certo condividere il letto con te: dovrebbe essere un nano per trovare spazio, con quelle coscione che hai.
Orla incassò il collo tra le spalle. Joanne rise. – Oh, mio Dio, che faccia hai fatto! Dài, era solo per scherzare –. Orla si fece ancora piú piccola.
Gemma le ignorò entrambe. – Potrebbe condividere il letto con suor Cornelius, – disse, guardandomi con un accenno di sorriso. – Le regalerebbe una gran notte.
– Per me glielo stacca a morsi e lo offre al bambino Gesú.
Un metro o due piú in là, tra gli alberi, e saremmo stati completamente al buio. Lí al confine la luce era mista e mobile, tra la luna e i riflettori sul prato. E le loro facce cambiavano. Quel senso di qualità scadente che prima mi aveva rivoltato lo stomaco, tutto colori e sapori artificiali, là fuori mi dava una sensazione diversa: di durezza patinata, di mistero.
– Tra poco andiamo via, – dissi. – Stiamo solo sistemando alcune cose.
– Avete visto, parla! – disse Gemma, con un bel sorriso. Poi a me: – Pensavo ci stesse facendo il trattamento del silenzio.
– Non mi sembra che lei stia sistemando nulla, – mi fece notare Joanne.
– Sono in pausa.
Il suo sorriso ironico mi fece capire che non l’aveva bevuta. – Si è messo nei guai con la detective Faccia da Stronza?
Per loro, là fuori, non ero piú un detective, una figura d’autorità. Ero qualcosa con cui giocare, per cui danzare. Un oggetto strano caduto dal cielo, dal significato nascosto. Mi giravano intorno come animali da preda.
– Che io sappia, no, – risposi.
– Ma ha visto che atteggiamento? Voglio dire, solo perché hai risparmiato abbastanza da comprarti un tailleur che non è di Penneys, non significa che sei la regina dell’universo.
– Deve lavorare sempre con lei? – chiese Gemma. – O se si comporta bene qualche volta la lasciano lavorare con qualcuno che non mangia criceti vivi per divertimento?
Coro di risate. Mi stavano invitando, o meglio sfidando, a ridere con loro. Risentii il rumore leggero della porta che Conway mi chiudeva in faccia. E guardai i visi accesi di quelle ragazze, tutta la loro attenzione per me.
Risi. – Siate buone. No, Conway non è la mia partner, lavoro con lei solo oggi.
Drammatici sospiri di sollievo, facendosi aria con le mani. – Fiuuu! Infatti ci chiedevamo come riuscisse a sopravvivere, se prendeva il Prozac, o cosa.
– Qualche altro giorno cosí e un ansiolitico lo dovrò prendere davvero –. Ridemmo tutti, forte. – È uno dei motivi per cui sono qui. Avevo bisogno di fare due chiacchiere e due risate con persone che non mi fanno fondere il cervello.
Questo piacque a tutte. Inarcarono la schiena come gatti gratificati. Orla, abituata ad assorbire colpi, si era già ripresa. – Abbiamo deciso che lei è molto piú bravo, come detective, – disse.
– Leccaculo –. Gemma.
– Però è vero, – disse Joanne, guardando me. – Qualcuno dovrebbe dire al vostro capo che se Comesichiama è cosí stronza, vuol dire che non sa fare il suo lavoro. Andrebbe molto meglio se avesse un minimo di buone maniere. Ogni volta che fa una domanda, vorresti avere un pezzo di carne cruda da gettarle per calmarla.
– Non le diremmo nemmeno che ora è, se non fossimo obbligate.
– Quando le domande le fa lei, invece, – disse Joanne, e si voltò a sorridermi, – ci viene voglia di rispondere.
L’ultima volta che avevo parlato con lei non eravamo andati cosí d’accordo. Adesso quelle ragazze volevano qualcosa da me, o volevano darmi qualcosa. Cercando di capirlo a naso, dissi: – Sono felice di sentirvelo dire. Mi siete state di grande aiuto, finora. Non so cos’avrei fatto senza di voi.
– E noi siamo felici di darle una mano.
– Saremo le sue spie preferite.
– Sotto copertura.
– Abbiamo il suo telefono. Possiamo mandarle un messaggio se vediamo qualcosa di sospetto.
– Se parlate sul serio, il modo di darmi una mano c’è, – dissi. – Voi tre sapete tutto ciò che succede in questa scuola. Sarei felice di sentire qualsiasi cosa abbia a che fare con Chris.
Orla si chinò in avanti, un riflesso di luna sulla sua bocca sempre bagnata. – Chi c’è nell’aula di Educazione artistica?
Shhh! – la fulminò Joanne. Orla saltò indietro.
– Oops, troppo tardi, – disse Gemma, divertita. – Non volevamo chiederlo in modo cosí brutale.
– Ma visto che il nostro genio, qui, lo ha fatto, – disse Joanne. Si appoggiò sui gomiti, inarcando il collo. – Di chi si tratta?
L’aula di Educazione artistica. Due rettangoli di un bianco intenso nella facciata buia della scuola. Al di sopra, si distingueva la sagoma della balaustra in pietra, nera su un cielo quasi nero. Davanti a una finestra, il modellino in rame della scuola. Davanti all’altra, la sagoma di Mackey, con le braccia incrociate.
– Quello chi è? – chiese Joanne.
– Un altro detective.
– Oooh, – scuotendo il polso, con sguardo canzonatorio. – Sapevo che l’avrebbero sbattuta fuori.
– A volte cambiamo le cose, mentre stiamo lavorando. Serve a guardare tutto con occhi diversi.
– Ma con chi stanno parlando?
– Si tratta di Holly Mackey?
– Ve l’avevamo detto che quelle sono strane.
Visi luminosi, attenti, affascinati. Come se io fossi proprio la cosa che speravano di vedere. Ti veniva voglia di provare a essere quello che loro cercavano. Era ciò di cui veniva voglia anche a Chris Harper, probabilmente.
Nell’aula di Educazione artistica, Conway passò davanti alla finestra, falcata ampia e spalle dritte. – Sí, è Holly, – dissi. Conway mi avrebbe staccato la testa a morsi, se mi avesse visto. Ma poteva andare affanculo.
Sibili tutto intorno. Scambio di occhiate troppo rapide perché riuscissi a osservarle.
– È stata lei a uccidere Chris? – chiese Orla, in un sussurro.
– Oh, mio Dio.
– E noi qui a pensare che fosse stato Willy, il giardiniere.
– Almeno, lo pensavamo fino a stamattina.
– Poi siete arrivati voi con tutte quelle domande…
– Ovviamente sapevamo di non essere state noi
– Ma non avremmo mai pensato…
– È stata davvero Holly Mackey?
Avrei tanto voluto avere una risposta per loro. Per vederle spalancare occhi e bocche, travolgerle con la mia presenza, tirare fuori da loro una fontana di risposte, come un mago. – Non sappiamo chi ha ucciso Chris, – dissi. – Stiamo lavorando duro per scoprirlo.
– Ma chi è stato secondo lei? – volle sapere Joanne.
Holly, seduta a quel tavolo, occhi azzurri, battute pronte e qualcosa di nascosto. Forse Mackey aveva ragione, a non volere che parlasse. E con me forse avrebbe parlato.
Scossi la testa. – Non è cosí che lavoro –. Occhiate scettiche. – Sul serio. Non posso andarmene in giro con un’idea preconcetta in testa. Almeno finché non ho in mano delle prove.
– Aah, – disse Joanne. – Non è giusto. Ci sta chiedendo di…
– Oh, mio Dio! – Orla scattò a sedere, coprendosi la bocca con una mano. – Non penserà mica che sia stata Alison, vero?
– Per questo Alison non è qui?
– È in arresto?
Erano tutte a bocca aperta. – No, – risposi. – Alison è solo un po’ sconvolta. La faccenda del fantasma di Chris l’ha scossa parecchio.
– Be’, non è l’unica. Siamo tutte sconvolte –. Di nuovo Joanne, in tono freddo. Avevo dimenticato di metterla in cima alla lista. Bambino cattivo.
– Ci scommetto, – dissi. – Tu l’hai visto?
Joanne si ricordò di rabbrividire. – Certo. Probabilmente era con me che voleva parlare. Mi guardava fisso.
In quel momento mi si fece luce su un fatto: ogni ragazza che aveva visto il fantasma di Chris avrebbe giurato la stessa cosa. Lui la fissava. Era venuto perché voleva qualcosa da lei e solo da lei.
– Come le ho raccontato, – continuò Joanne, di nuovo con la faccia da vedova in lutto, – se non fosse morto ora saremmo di nuovo insieme. Credo voglia farmi sapere che mi ama ancora.
– Aah –. Orla, con la testa inclinata di lato.
Mi voltai a guardarla. – Tu l’hai visto?
Si portò la mano al petto. – Oh, mio Dio, sí! Mi è quasi venuto un infarto. Era proprio vicino, lo giuro.
– Gemma? – chiesi.
– Non lo so, – rispose, spostandosi sull’erba. – Non sono sicura, riguardo ai fantasmi.
Joanne, in tono tagliente: – Scusa, eh, ma io so quello che ho visto.
– Non lo metto in dubbio. Dico solo che io non l’ho visto. Ho visto qualcosa di indistinto alla finestra, come quando ti entra un bruscolino nell’occhio. Nient’altro.
– Be’, alcune persone sono piú sensibili. E alcune di noi erano molto vicine a Chris. Quello che hai visto tu non ha molta importanza, secondo me.
Gemma scrollò le spalle. Joanne disse, rivolta a me: – Lui era lí.
Non riuscivo a capire se dicesse sul serio. Nella sala comune, avrei giurato che il loro terrore fosse autentico. Magari era iniziato come un gioco, per ricevere attenzione o per sfogare lo stress, ma poi si era trasformato in qualcosa di reale, troppo forte e incontrollabile. Ora invece, davanti al brivido e all’espressione di Joanne, non sapevo cosa pensare. Forse era soltanto lo strato di plastica che ricopriva tutto ciò che faceva, rendendo difficile distinguere cosa fosse reale e cosa no; o forse era tutto finto dall’inizio. Probabilmente non lo sapevano nemmeno loro.
– Questo è un altro motivo per raccontarmi tutto ciò che sapete, – dissi. – Chris vorrebbe che lo faceste.
– Ma cosa potremmo sapere? – Joanne, con espressione cellofanata. Non mi avrebbero dato nulla, se non me lo fossi guadagnato.
Tuttavia sapevo dove cercare. Dopo che Selena e Chris avevano rotto, Joanne aveva appostato i suoi cani da guardia di notte, per sicurezza.
– Diciamo che Chris incontrava una persona diversa da Selena, un paio di settimane prima di morire. Chi potrebbe essere, secondo te?
L’espressione di Joanne non cambiò. – C’era davvero qualcuno?
– È solo un’ipotesi. Tu chi diresti?
Occhiate di sguincio qua e là. Se la loro paura era mai stata vera, adesso era scomparsa, sostituita da qualcosa di diverso: potere.
– Ci dica se Chris incontrava qualcuno, e noi le diremo una cosa interessante.
Ho detto che so riconoscere un’occasione quando la vedo. A volte non devi neppure vederla. A volte te la senti arrivare addosso dal cielo, con il rombo di una meteora.
– Sí, c’era un’altra persona. Abbiamo trovato uno scambio di messaggi tra loro.
Altre occhiate. – Messaggi di che tipo? – chiese Gemma.
– Per darsi appuntamento.
– E non c’erano nomi?
– No. Non era una di voi, vero?
– No! – ribatté secca Joanne. Non aggiunse: «Altrimenti le sarebbe capitato un guaio», ma fu come se lo avesse detto.
Mi preparai a udire il nome di Holly Mackey.
Joanne si allungò sulla schiena, braccia dietro la testa e petto inarcato. – Ci dica cosa pensa di Rebecca O’Mara, – disse.
Il «Ma che cazzo?» nella mia testa fu cosí forte che mi ci volle un attimo a udire la domanda. Poi mi misi a riflettere in fretta su cosa rispondere. – A dire la verità, non ho pensato molto a lei.
Nuovo scambio di occhiate furtive, sorrisetti. Risposta giusta.
Joanne disse: – Perché Rebecca è cosí innocua.
– Una cosí brava ragazza, – ansimò Orla.
– Cosí pura.
– Cosí timida.
– Scommetto che si è comportata come se fosse terrorizzata da voi, vero? – Joanne abbassò la testa e provò uno sguardo da cerbiatta, da sotto in su. – Rebecca non farebbe mai nulla di audace. Non deve aver mai bevuto un sorso di liquore in tutta la sua vita. O, Dio ce ne scampi, guardato un ragazzo.
Gemma fece una risata bassa.
– Invece non è vero? – Il cuore cominciava a battermi lento e forte, come un tamburo nella giungla che trasmetteva un messaggio.
– Be’, non so se abbia mai bevuto, voglio dire, chi se ne frega. Ma guardare un ragazzo, l’ha fatto eccome.
– Avrebbe dovuto vedere come lo guardava –. Orla, sprezzante. – Era patetica.
– Chris Harper, – dissi.
Joanne fece un sorriso lento. – Bingo. Ha vinto il premio.
Orla disse: – Rebecca era cotta di Chris.
– E voi pensate che alla fine si siano messi insieme?
Joanne arricciò il labbro di sopra. – Scusatemi, devo vomitare. No, niente da fare. Chris poteva avere letteralmente chi voleva, non aveva bisogno di avvicinarsi a una specie di insetto stecco. Se fossero naufragati insieme su un’isola deserta, si sarebbe scopato una noce di cocco, piuttosto.
– Quindi non era con lei che si vedeva Chris? – chiesi. – Oppure…
Altro giro di occhiate. – Be’, – rispose Joanne. – Non per amooore. E non per… sa cosa intendo. A parte che in quel caso lei non avrebbe nemmeno saputo come fare.
– Per cosa, allora?
Risatine trattenute. Non l’avrebbero detto, se non lo dicevo io per primo.
L’urlo della meteora si avvicinava. Dovevo solo sistemarmi al posto giusto e tendere le mani.
Quella mattina. Odore di gesso ed erba. Io che mi annodavo come uno di quegli animali fatti con i palloncini, cercando di trasformarmi in ciò che ciascuna di quelle otto ragazze e Conway volevano vedere. E guarda il risultato. Risentii Joanne. «Sí, voi pensate che siano angeli, che non userebbero mai droghe. Rebecca, lei è cosí innocente, vero?»
– Droga, – dissi.
Un cambio nell’aria. Le sentii tese, mentre cercavo la strada a tastoni.
– Rebecca si drogava.
Dalla bocca di Orla uscí una risatina isterica. Joanne mi sorrise, come una maestra a un bravo scolaro. – Diglielo, – ordinò.
Gemma si alzò a sedere. Piegò le gambe sotto il corpo, togliendo pezzettini d’erba dai collant. – Non sta registrando quello che diciamo, vero?
– No.
– Bene. Perché si tratta di una cosa confidenziale. Se va a raccontarlo in giro, dirò che si è inventato tutto per tornare nelle grazie della detective Dildo.
Come se fossi un giornalista. Stavo pensando «ingenua», quando aggiunse: – E mio padre chiamerà il suo capo per dirgli la stessa cosa. Si fidi, non le conviene.
Non cosí ingenua, dopotutto. – Non c’è problema.
– Forza, diglielo, – disse Joanne.
– Bene –. Gemma si toccò il labbro superiore con la punta della lingua, ma in automatico, per prendere tempo mentre riordinava i pensieri. – Lei sa di Ro, giusto? Ronan, l’ex giardiniere.
– Lo avete arrestato voi, – intervenne Orla. Aveva gli occhi spalancati e si godeva ogni secondo. – Per spaccio.
– Conosco la storia, sí.
– Ro vendeva un sacco di cose. Soprattutto hashish ed ecstasy, ma se volevi qualcos’altro di solito te lo trovava.
Era ancora occupata a togliere l’erba dai collant. In quella luce non la vedevo bene, ma mi sembrava fosse arrossita.
– La dieta di Gemma non stava funzionando, – intervenne Joanne, con un pizzicotto alla vita dell’amica.
– Volevo solo perdere un chilo o due, capirai. Lo fanno tutti. Insomma, ho chiesto a Ronan se poteva darmi qualcosa.
Un accenno di occhiata. Gemma voleva qualcosa da me e aveva paura di non riceverla. Sperando che fosse la cosa giusta, commentai: – Direi che ha funzionato. Adesso mi sembra proprio che tu non abbia bisogno di perdere nemmeno un etto.
Sorriso di sollievo. Quello era un mondo alieno: faceva piú paura ammettere i propri problemi di peso che dire a un poliziotto di aver comprato amfetamine. – Sí, certo. Comunque, per comprare qualcosa da Ronan si faceva cosí: mercoledí e venerdí lui era l’unico giardiniere di turno, quindi bastava scendere al capanno e aspettarlo fuori finché non arrivava. Poi ti faceva entrare, prendeva quello che ti serviva dal suo armadietto. Era importante non entrare mai nel capanno da sola. Diceva che se avesse beccato dentro una di noi, non le avrebbe mai piú venduto nulla. Non voleva rischiare che gli rubassimo la roba.
Joanne e Orla si stavano spostando sull’erba in modo impercettibile, per avvicinarsi a me. Occhi lucenti, bocche aperte.
– Un mercoledí, – continuò Gemma, – vado da Ro anche se piove a dirotto. Aspetto sotto gli alberi per un po’, ma alla fine decido che non ha senso stare lí a congelarmi ed entro nel capanno. Tanto Ronan ormai mi conosceva, non ero l’ultima arrivata.
Un brivido delle altre due, in attesa del seguito.
– Apro la porta, e dentro c’è Rebecca O’Mara. Tipo l’ultima persona che mi sarei aspettata. Fa un salto di mezzo metro, sembrava stesse per svenire, lo giuro su Dio. Io scoppio a ridere e dico: «E tu cosa ci fai qui? Sei venuta per la tua dose di crack?»
Una risata guizza tra loro nell’aria scura.
– Rebecca è tutta un: «Oh, sono entrata solo per ripararmi dalla pioggia», e io, «Sí, come no». Voglio dire, la scuola è a mezzo minuto di distanza, e lei indossa cappello e impermeabile, quindi è uscita deliberatamente sotto la pioggia. E se è cosí timida, come mai è venuta a ripararsi in un posto dove rischia di incontrare un giardiniere grosso e cattivo?
Gemma era rientrata nel suo personaggio. Raccontava con facilità e sicurezza. E la storia sembrava vera. – E cosí le dico: «Pensi di darti al giardinaggio?» C’erano zappe e badili nell’angolo in cui si trovava, e ne aveva una in mano quando ero arrivata, come se temesse l’aggressione di un violentatore psicopatico e volesse difendersi. Lei risponde seriamente: «Sí, qualcosa del genere, pensavo di…» Allora decido di porre fine alle sue sofferenze. «Dài, per favore, non dicevo mica sul serio». Lei mi fissa per un attimo, confusa, e balbetta: «Devo andare», e corre fuori nella pioggia, tornando verso la scuola.
Prima di uscire doveva aver posato il badile, la zappa o quello che era. Ormai sapeva cosa le serviva, sarebbe tornata a prenderlo al momento giusto.
La meteora era nel palmo della mia mano. Bellissima, e bruciava di un fuoco bianco che era il benvenuto.
Sperai che la luce cangiante nascondesse la mia espressione e mi concentrai sul mantenere un tono di voce tranquillo. – Ronan l’aveva vista?
Gemma scrollò le spalle. – Non credo. È arrivato diversi minuti dopo, quando la pioggia ormai era calata d’intensità. Ha provato a incazzarsi quando mi ha trovata dentro, ma poi si è calmato –. Un sorriso, ricordando la scena.
Joanne era vicinissima a me. – Visto? Tutti quegli atteggiamenti puri e innocenti sono un mucchio di balle. Ci cadono tutti, ma noi sapevamo che lei è diverso, detective Stephen.
– Ronan vendeva altro, a parte le droghe? Superalcolici, sigarette? – Di tanto in tanto fumavano, aveva detto Holly, e avevamo trovato un pacchetto nascosto nell’armadio di Julia. Rebecca poteva ancora avere un motivo innocente per essere andata in quel capanno. Cioè, innocente a confronto dell’altro.
Gemma represse una risata. – Sí, e lecca-lecca frizzanti.
– Ricariche telefoniche, – rise Orla.
– Mascara.
– Collant.
– Tampax.
Esplosero in una risata acuta. Orla cadde di schiena nell’erba, scalciando. Joanne tagliò corto, fredda: – Ronan non era un supermercato. Rebecca non era lí per comprare un pacco di biscotti.
Gemma si ricompose. – Sí, lui vendeva solo roba seria. E mi piacerebbe proprio sapere cosa comprava Rebecca.
– Non pillole dietetiche, di sicuro, – disse Joanne. – A parte che sembra anoressica, le mancherebbe comunque quel minimo di autostima per mettersi a dieta. Non si trucca nemmeno.
– Probabilmente comprava fumo, – disse Orla, in tono saputo.
– Bisogna essere proprio dei perdenti per farsi le canne da soli. Dio, che cosa triste.
– Forse era andata a comprarlo anche per le amiche.
– Sí, figuriamoci se avrebbero mandato lei. Se fosse stata una cosa che facevano insieme, ci sarebbe andata Julia, o Holly. Rebecca era lí perché voleva qualcosa per sé.
– Il corpo caldo di Ro.
– Dio, che immagine, ora voglio la formattazione immediata del cervello.
Erano di nuovo sull’orlo di un attacco di risa isteriche.
– Quando è successo? – chiesi.
La mia voce le riportò in sé. Nuovo giro di occhiate furtive. – Ci stavamo chiedendo quando avrebbe fatto questa domanda, – disse Joanne.
– La primavera dell’anno scorso?
Altre occhiate. Poi Gemma disse: – La notte dopo, Chris è stato ucciso.
Un secondo di silenzio, mentre la frase saliva tra gli alberi.
– Ora capisce? – disse Joanne.
Capivo.
– Lei ha detto che qualcuno si incontrava con Chris, dopo che lui e Selena si erano lasciati. È chiaro che nessuno darebbe appuntamento a Rebecca O’Mara per amore. Ma se lei comprava qualcosa da Ronan per conto di Chris? Lo avrebbe fatto, al cento per cento. Sbavava per lui. Cosí potevano vedersi in privato per la consegna. Chris forse pomiciava anche con lei, per spirito di carità, per darle qualcosa da sognare.
Risata ansimante di Orla.
– Avete mai visto Rebecca uscire di notte da sola?
– No, ma non vuol dire. Avevamo smesso di fare la guardia in corridoio settimane prima che Chris fosse ucciso.
L’esame tossicologico di Chris era venuto fuori pulito, mi aveva detto Conway. Niente droghe nel suo organismo.
– Capisce? – disse Joanne, avvicinandosi fino a sfiorarmi le gambe con le sue. Non vedevo i suoi occhi, le luci dei riflettori confondevano tutto. – Forse Rebecca pensava che lei e Chris fossero una coppia. E quando ha scoperto che non era cosí…
Il battito d’ali delle falene, sul prato intorno a noi.
Dissi, scegliendo le parole: – Rebecca è magrolina. Chris era grosso e forte. Pensate davvero che avrebbe potuto…
– Rebecca è parecchio incazzosa, sotto sotto, – disse Gemma. – E se Chris l’ha provocata in modo serio…
– Sui giornali c’era scritto «colpo alla testa», – disse Joanne. – Se lui era seduto a terra, non importa la statura dell’aggressore.
Orla sembrò sollevarsi dall’erba per l’eccitazione. – Può averlo colpito con un sasso.
Bleah –. Joanne, in tono di riprovazione. – Non sappiamo se fosse un sasso. I giornali non l’hanno mai detto –. E mi guardò, tutta punti interrogativi. Anche Orla e Gemma bollivano di curiosità.
Non facevano finta. Nessuna di loro sapeva della zappa.
E c’era di piú. Niente tremiti nella voce, niente ombre sul viso, quando parlavano del momento che aveva tolto la vita a Chris Harper. Sembrava parlassero di qualcosa come aver copiato a un esame. Fino a quel momento, una parte di me si era chiesta se avessero inventato la storia di Rebecca per distogliermi da una di loro. Ma no. Nessuna delle tre aveva mai avuto a che fare con un omicidio.
– È un’informazione molto importante, – dissi. – Un milione di grazie per avermela data –. Distribuii sorrisi a tutte e tre.
– Non l’avrei mai detto a Faccia da Stronza –. Gemma. – Se l’avessi fatto ora probabilmente sarei in galera. Con lei invece non rischio guai, giusto? Perché, ripeto…
– Tranquilla. A un certo punto dell’indagine, se proprio ne avrò bisogno, potrei chiederti una dichiarazione firmata, dove puoi dire che eri entrata in quel capanno per ripararti dalla pioggia, il che è la verità. Non c’è bisogno di spiegare altro.
Gemma non sembrava convinta, ma a Joanne non importava di lei. Si chinò verso di me, eccitata. – Quindi lei pensa che sia stata Rebecca? È questo che pensa?
– Penso che vorrei proprio sapere cosa ci faceva Rebecca in quel capanno. Questo è tutto.
Mi alzai in ginocchio, spazzolandomi i pantaloni con le mani. Tranquillo e disinvolto, ma facevo fatica a non mettermi a correre. Potevo avere Rebecca. Potevo farmi strada in quella luce strana, trovare lei e Julia e Selena, che forse mi stavano osservando da sotto qualche cipresso. Potevo chiamare la stazione di polizia piú vicina e far venire un’autopattuglia e un’assistente sociale, e portare Rebecca in una sala colloqui prima che Conway mollasse la stretta su Holly. Se avessi lavorato bene, lasciando il telefono spento, potevo essere il detective che in dodici ore aveva risolto un grosso caso su cui Conway era rimasta bloccata per un anno.
– Resti qui a parlare con noi, – disse Joanne. – Tanto fra poco dobbiamo rientrare. E allora può andare ad annoiarsi con Rebecca.
– Sí, – convenne Orla. – Noi siamo molto piú interessanti.
Per un attimo pensai, nella mia stupida testa presuntuosa, che fossero impaurite e volessero vicino un uomo forte per sentirsi protette. Ma erano allungate come gatti sull’erba. Non erano per nulla spaventate, ora che avevano avuto il potere di portarmi dove volevano, sussurrandomi all’orecchio il segreto che avevano tenuto fino a quel momento.
– Su questo sono d’accordo, – dissi con un sorriso. – Ma è meglio risolvere subito questa faccenda.
Joanne fece una faccia imbronciata. – Ma noi le abbiamo dato una mano. E ora che ha ottenuto ciò che voleva, ci molla e scappa?
– Tipico maschio, – disse Gemma, rivolta ai rami degli alberi, scuotendo la testa.
– Gliel’ho già detto, – mi ricordò Joanne. – Io non mi lascio trattare come una merda da nessuno.
Un campanello d’allarme si fece strada tra il «Vai, vai, vai» che mi martellava in testa. – È solo che sono un po’ sotto pressione, – dissi. – Apprezzo moltissimo ciò che avete fatto per me, credetemi.
– Allora resti con noi, – disse Joanne. Alzò un dito e me lo posò su un ginocchio. Il sorriso simpatico, come se scherzasse, arrivò con mezzo secondo di ritardo.
Riuscii a fatica a evitare di balzare in piedi e darmi alla fuga. Mandare tutto in merda ora significava finire nella merda anch’io, in una decina di modi diversi.
– Cos’è quella faccia terrorizzata? – volle sapere Gemma. – Noi siamo simpatiche.
Anche lei sorrideva. Un sorriso amichevole, sembrava, ma Gemma era un codice di cui non avevo la chiave. E anche le altre, a pensarci bene. Quell’impressione da brutto incontro in un vicolo buio, che si era smorzata mentre le tre ragazze mi facevano sentire benvoluto, tornò ad accendersi dietro il collo.
L’unghia di Joanne risalí di qualche centimetro lungo la mia coscia. Tutte ridacchiavano, le lingue tra i denti piccoli e affilati. Era un gioco e io ne facevo parte, ma non capivo quale parte. Provai a ridere e risero anche loro.
– Avanti, – disse Joanne, spostando il dito un po’ piú su, – resti con noi.
La cosa che volevo fare: darle uno schiaffo sulla mano, tornare di corsa nella scuola come se avessi il fuoco al culo, battere i pugni sulla porta dell’aula di Disegno e pregare Conway di lasciarmi entrare, promettendo di fare il bravo. Invece dissi: – Riflettiamo un attimo, va bene?
Feci la voce piú ufficiale che riuscii a trovare. Pensai a un professore, a McKenna, a tutto ciò che un insegnante non vorrebbe. Le guardai negli occhi una a una, separandole: non piú un trio pericoloso ma tre scolare che facevano le sciocche.
– Gemma, sei stata molto coraggiosa a darmi questa informazione. E Joanne, mi rendo conto che Gemma non avrebbe trovato questo coraggio senza il tuo aiuto. E anche il tuo, Orla. Perciò, ora che avete fatto uno sforzo considerevole per darmi questo materiale potenzialmente di grande valore, io non voglio sprecarlo.
Mi guardavano come se mi fosse spuntata un’altra testa. Il dito di Joanne aveva smesso di muoversi. – Se non riesco a parlare con Rebecca O’Mara prima che siate tutte richiamate dentro, dovrò per forza contattare la detective Conway, e naturalmente non avrò altra scelta che condividere la vostra informazione con lei. Ora, immagino che voi l’abbiate data a me perché volete che ne faccia uso. Non perché volete che se otteniamo un risultato tutto il credito vada alla detective Conway. Ho ragione?
Tre paia d’occhi continuavano a fissarmi, immobili.
– Orla, ho ragione?
– Cosa? Ah, boh, sí, direi.
– Benissimo. Gemma?
Cenno d’assenso.
– Joanne?
Alla fine, una scrollata di spalle. E la mano si tolse dalla mia gamba. Il modo di fare di Conway nell’aula di Disegno si stava dimostrando utile. – Come vuole.
– Allora siamo d’accordo –. Rivolsi un sorriso tirato a ciascuna di loro. – La massima priorità per me, ora, è parlare con Rebecca. La nostra chiacchierata dovrà aspettare.
Nessuna risposta. Solo quegli occhi che mi fissavano.
Mi alzai, piano, senza movimenti bruschi. Mi spazzolai i pantaloni e raddrizzai la giacca. Poi mi voltai e mi allontanai.
Mi sentivo come se avessi alle spalle tre giaguari. Ogni centimetro della mia pelle si aspettava l’affondo di artigli affilati, ma non arrivò. A un tratto udii la voce di Joanne, abbastanza alta perché la udissi, che mi faceva il verso. «Materiale potenzialmente di grande valore». E tutte e tre scoppiarono a ridere.
Il cuore batteva un ritmo di bonghi. Avevo detto loro la verità. Da qualche parte, in quella luce a macchie bianche e nere, tra quei mormorii, c’era Rebecca. Ed era ora o mai piú.
Era proprio quello che Conway si aspettava da me. Quello su cui anche Mackey avrebbe scommesso.
La luce bianca e forte dell’aula di Educazione artistica. Risate lontane, tra gli alberi.
Non dovevo un cazzo a Conway. Le avevo portato la chiave per risolvere il caso, e lei mi aveva usato e poi gettato fuori mentre l’auto andava a cento all’ora.
La luna era una girandola sopra la scuola. Mi sembrava di dissolvermi, come se le dita delle mani e dei piedi si stessero trasformando in pulviscolo.
Conway era tutto ciò che aveva detto Mackey. Era la pietra tombale sul partner dei miei sogni, quello con i setter e le lezioni di violino. Era scorbutica e portava guai, due cose dalle quali mi ero sempre tenuto lontano.
So riconoscere la mia occasione quando la vedo, e adesso ce l’avevo davanti splendente come il giorno.
Presi il cellulare.
Messaggio, non chiamata. Se avesse visto il mio numero sullo schermo avrebbe pensato che volevo lamentarmi dell’attesa e non avrebbe risposto.
Sentivo che mi stava succedendo qualcosa: un cambiamento.
C’era l’icona con l’avviso di un messaggio ricevuto. Qualche minuto prima, quando ero troppo occupato per farci caso. Doveva aver concluso il colloquio con Holly, o doveva averlo fatto Mackey.
«Hai scoperto qualcosa? Io lo sto tenendo occupato il piú a lungo possibile, ma il coprifuoco qui è alle 22.45. Datti una mossa».
– Ma che cazzo? – dissi ad alta voce.
Sulla faccia mi si allargò un sorriso enorme, e mi sembrò di vedere luci di tutti i colori.
Che idiota maiuscolo ero stato. Mi sarei preso a pugni. Per un attimo dimenticai persino Rebecca. «Ora vai a farti un panino, – mi aveva detto Conway, – una passeggiata nel parco. Vedi se riesci a far apparire il fantasma di Chris». Significava: «Va’ a parlare con le ragazze là fuori, fa’ del tuo meglio per cavargli qualcosa». Chiaro come il giorno, ma ero cosí occupato a pensare a come mi aveva usato Mackey per fregarmi che non me n’ero accorto.
Conway si era fidata di me. In tutti i sensi. Non solo non aveva creduto ai foschi avvertimenti di Mackey, ma aveva dato per scontato che io l’avrei capito. Io invece non avevo fatto lo stesso con lei. Mi venne di nuovo voglia di prendermi a pugni. Sentii freddo allo stomaco, pensando a quanto ero stato vicino a rovinare tutto.
Le scrissi immediatamente. «Troviamoci davanti al portone. Urgente. Non lasciar venire Mackey».