5.
Il portone era di legno pesante, scuro, consunto. Conway lo spinse e per un attimo quel silenzio da luogo deserto restò indisturbato. Scalinate in legno scuro che conducevano in alto. Raggi di sole sulle mattonelle a scacchi del pavimento.
Poi cominciarono a squillare campanelli dappertutto. Si aprirono porte, ci fu un rombo di passi affrettati e apparve una marea di ragazze, tutte con la stessa uniforme blu e verde. – Merda, – disse Conway, alzando la voce perché potessi udirla. – Che tempismo. Vieni.
Salí le scale controcorrente, facendosi strada con decisione nell’ondata di corpi e libri. Aveva una postura da pugile, e un’espressione come se dovesse allo stesso tempo arrestare qualcuno e farsi devitalizzare un dente.
La seguii per le scale, circondato da capelli e risate femminili. L’aria era densa e scintillava di sole ad angolazioni strane. Il sole scivolava sulle ringhiere come acqua, facendo risaltare colori dappertutto, sollevandomi in alto. Mi sentivo diverso, cambiato. Come se quello fosse il mio giorno fortunato, se solo avessi capito in che senso. Avvertivo come un pericolo, ma un pericolo evocato da un mago in un’alta torre specificamente per me. Sentivo la mia fortuna in bilico nell’aria; sarebbe uscita testa o croce?
Non ero mai stato prima in un posto simile, ma in qualche modo mi sentii tornare al passato. Mi dava quella sensazione, fino alle ossa. Mi faceva venire in mente parole a cui non pensavo da quando ero un ragazzino che andava a leggere alla biblioteca dell’Ilac Centre, credendo che parole del genere mi avrebbero fatto entrare in posti come quello. Deliquescente. Numinoso. Alcione. Un ragazzino dalle gambe lunghe che sognava a occhi aperti, lontano dalle sue solite strade, cosí nessuno lo avrebbe visto eccitato come se stesse facendo un’azione audace.
– Cominciamo dalla preside, – disse Conway sul pianerottolo, quando potemmo camminare di nuovo fianco a fianco. – Si chiama McKenna ed è una vecchia strega. Sai qual è la prima cosa che ha chiesto a me e Costello, appena arrivati sulla scena dell’omicidio? Se potevamo evitare che i media facessero il nome della scuola. Riesci a crederci? Del ragazzo morto, di raccogliere tutte le informazioni possibili per catturare il colpevole, non gliene fregava un cazzo. Voleva solo che la sua scuola non facesse brutta figura.
Altre ragazze frettolose evitarono per poco di urtarci, gridando: – Mi scusi! – con voci acute e affannate. Un paio si voltarono a guardarci, ma la maggior parte andava troppo veloce per far caso a noi. Rumore di armadietti aperti. Anche i corridoi in quella scuola erano belli: soffitti alti, decorazioni in stucco, pareti di un verde morbido con quadri appesi.
– È qui, – disse Conway, indicando una porta. – Fai una faccia da poliziotto –. E spalancò la porta.
Una bionda riccioluta si voltò dando le spalle a uno schedario e premette il bottone del sorriso di benvenuto, ma Conway disse solo: – Buongiorno, – e continuò a camminare, aprendo un’altra porta e richiudendola alle nostre spalle.
Dentro c’era silenzio. Moquette spessa. Una stanza in cui erano stati investiti tempo e denaro per darle l’aspetto di uno studio vecchio stile: scrivania d’antiquariato con il piano rivestito in pelle verde, scaffali pieni di libri dappertutto, il ritratto a olio di una suora in una cornice pesante. Solo la sedia manageriale e il laptop di ultima generazione dicevano che si trattava di un ufficio.
La donna dietro la scrivania posò una penna e si alzò in piedi. – Detective Conway, – disse. – La stavamo aspettando.
– Non le sfugge niente, vedo, – ribatté Conway, toccandosi una tempia. Prese due sedie che erano appoggiate contro il muro, le avvicinò alla scrivania e si sedette. – È bello essere di nuovo qui.
La donna ignorò il commento. – E il signore è…?
– Il detective Stephen Moran, – risposi.
– Ah. È lei che ha telefonato alla segretaria stamattina, giusto?
– Proprio io.
– Grazie di averci informati. Io sono la signorina Eileen McKenna, preside di questa scuola –. Non mi tese la mano, quindi non lo feci nemmeno io.
– A volte preferiamo portare occhi nuovi su un caso, – disse Conway, con un accento piú rozzo del solito. – Uno specialista, capito?
La signorina McKenna inarcò le sopracciglia, ma non arrivarono altre spiegazioni e lei non fece domande. Tornò a sedersi, mentre io aspettai che si fosse accomodata prima di sedermi accanto a Conway. – Cosa posso fare per voi, detective?
Una donna grossa, la McKenna. Non grassa, solo imponente, come diventano alcune cinquantenni dopo anni al comando: solide, pronte a superare ogni tempesta senza bagnarsi. Me la immaginavo nei corridoi durante la ricreazione, con le ragazze che si spostavano al suo passaggio quasi ancora prima di sapere che stava arrivando. Mento forte, sopracciglia ancora piú forti. Capelli color ferro e occhiali dalla montatura in acciaio. Non sono esperto di vestiti femminili ma riconosco la qualità, e il suo tailleur verde di tweed era di qualità. Anche le perle non le aveva comprate da Penneys.
Conway disse: – Come va la scuola?
Spaparanzata il piú possibile sulla sedia, gambe larghe, gomiti in fuori. Spinosa come un riccio. Tra loro due era successo qualcosa, o magari era solo un fatto chimico.
– Molto bene, grazie.
– Davvero? Perché l’ultima volta mi ha detto che la scuola rischiava di finire… – Il gesto di un tuffo, accompagnato da un lungo sibilo. – Tanti anni di tradizione nel cesso, se noi plebei avessimo insistito a fare il nostro lavoro. Mi sono sentita cosí in colpa. Sono felice di sapere che alla fine tutto si è risolto bene.
McKenna disse, rivolgendosi solo a me: – Come può capire, tanti genitori erano turbati al pensiero di lasciare le figlie in una scuola dove era stato commesso un omicidio. E il fatto che l’assassino non fosse stato scoperto non migliorava la situazione.
Sorriso a denti stretti a Conway, che cadde nel vuoto.
– È curioso, ma nemmeno la continua presenza della polizia e i colloqui ci hanno dato una mano. Speravamo che trasmettessero la sensazione che tutto era sotto controllo, ma di fatto impedivano il ritorno alla normalità. E le persistenti intrusioni dei media, che la polizia non poteva contenere perché aveva altro da fare, hanno esacerbato il problema. Ventitre genitori hanno ritirato le figlie dalla scuola. Quasi tutti gli altri hanno minacciato di farlo, ma sono riuscita a convincerli che non era la cosa migliore, nell’interesse delle ragazze.
Ero sicuro che ci fosse riuscita. Aveva una voce da Margaret Thatcher irlandese, capace di mettere chiunque al suo posto, senza lasciare spazio alla discussione. Solo guardandola mi veniva voglia di scusarmi immediatamente, anche se non sapevo di cosa. Ci volevano dei genitori con i controcoglioni, per contraddire quella voce.
– Per mesi siamo rimasti sulla soglia della sopravvivenza. Ma St Kilda ha superato alti e bassi per oltre un secolo, ed è sopravvissuta anche a questo.
– Mi fa piacere saperlo, – disse Conway. – E mentre sopravviveva è successo qualcosa che dovremmo sapere?
– In tal caso vi avremmo contattati subito. Il che, detective, mi spinge a rivolgere a lei la stessa domanda.
– Sí? Come mai?
– Suppongo, – disse McKenna, – che la vostra visita sia collegata al fatto che Holly Mackey stamattina ha lasciato la scuola senza permesso per venire da voi. O sbaglio?
La domanda era rivolta a me. Risposi: – Non possiamo entrare nei particolari.
– Naturalmente. Ma come voi avete il diritto di sapere tutto ciò che può essere importante per il vostro lavoro (è il motivo per cui non vi ho mai negato l’autorizzazione a parlare con le studentesse), cosí io ho il diritto, anzi l’obbligo, di sapere tutto ciò che può essere importante per il mio.
La giusta quantità di minaccia nelle sue parole.
– Lo capisco e lo apprezzo. Stia certa che la informerò se viene fuori qualcosa di rilevante.
Un bagliore metallico dietro gli occhiali. – Con tutto il rispetto, detective, sta a me giudicare quello che è o non è rilevante. È impossibile per lei prendere questa decisione al posto di una scuola, e di una ragazza, di cui non sapete nulla.
Stavolta ero sotto test da entrambe le parti. McKenna voleva capire se potevo essere manipolato, e Conway lasciava fare per capire la stessa cosa.
– La mia non è la risposta perfetta, me ne rendo conto, – dissi. – Ma al momento è il meglio che posso fare.
McKenna mi fissò, sembrò decidere che era inutile provarci ancora e mi sorrise. – Allora dovremo contare sul suo meglio.
Conway si spostò sulla sedia, per mettersi piú comoda. – Perché non ci parla del Posto Segreto?
Fuori ci fu una nuova esplosione di campanelli. Urla soffocate, altri passi di corsa, porte chiuse. Poi silenzio.
La diffidenza velava come fumo gli occhi di McKenna, ma la sua espressione non cambiò. – Il Posto Segreto è una bacheca, – spiegò, scegliendo le parole una a una. – L’abbiamo istituita lo scorso dicembre, se non sbaglio. Le ragazze ci attaccano bigliettini, usando immagini e parole per mandare messaggi anonimi; molti di quei biglietti sono davvero creativi. Si tratta di dare alle nostre studentesse un luogo in cui esprimere emozioni che non se la sentono di esprimere altrove.
– Un luogo, – disse Conway, – dove possono calunniare chi vogliono senza venir accusate di bullismo. O diffondere un pettegolezzo qualsiasi senza metterci la faccia. Forse io sono troppo ignorante per capirlo e forse le vostre ragazze non farebbero mai cose del genere, ma mi sembra una delle idee peggiori che abbia sentito da molto tempo a questa parte –. Sorriso da piraña. – Senza offesa.
– A noi, – disse McKenna, – sembrava il minore di due mali. L’autunno scorso un gruppo di ragazze aveva creato un sito web che assolveva alla stessa funzione, dove i comportamenti che lei ha descritto dilagavano. Il padre di una nostra studentessa alcuni anni fa si è suicidato. Il sito ci è stato segnalato dalla madre, perché qualcuno aveva postato una foto della ragazza con la didascalia: «Se mia figlia fosse cosí brutta, mi suiciderei anch’io».
Gli occhi di Conway su di me volevano dire: «Lamette da barba nascoste tra i capelli. È ancora bellissimo, questo posto?»
Aveva ragione, la cosa mi sorprese piú del normale, uno shock come una scheggia sotto un’unghia all’improvviso. Quello non era un attacco venuto da fuori, come Chris Harper. Era cresciuto tra quelle mura.
– Madre e figlia erano comprensibilmente sconvolte, – disse McKenna.
– Bastava bloccare il sito.
– E quello nuovo che viene fuori il giorno dopo, e poi il prossimo, e quello ancora dopo? Le ragazze hanno bisogno di una valvola di sfogo, detective Conway. Ricorda quando, una settimana dopo l’incidente, – risatina sprezzante di Conway alla parola «incidente», – alcune studentesse dissero di aver visto il fantasma di Christopher Harper?
– Nei bagni femminili, – spiegò Conway, rivolta a me. – Logico, è il primo posto dove un ragazzo invisibile sarebbe andato, no? Una dozzina di ragazzine strillavano come aquile e si stringevano l’una all’altra, tutte tremanti. Per poco non ho dovuto fare il vecchio numero del ceffone in faccia, per farmi dire cosa stava succedendo. Volevano che entrassi e sparassi al fantasma. Quanto ci avrei messo a calmarle, dopo? Ore?
– Dopo quell’episodio, – riprese McKenna, di nuovo rivolta a me, – avremmo potuto proibire qualsiasi menzione di Christopher Harper. E il «fantasma» sarebbe riapparso ogni due o tre giorni, forse per mesi. Invece abbiamo organizzato delle sedute con lo psicologo per tutte le allieve, dedicate specialmente all’elaborazione del lutto. E abbiamo messo una foto di Christopher Harper su un tavolino nell’atrio, dove tutte potevano recitare una preghiera, lasciare un fiore o un biglietto. Un luogo dove poter esprimere il dolore o il rimpianto in modo appropriato e controllato.
– La maggior parte di loro non lo aveva neppure mai conosciuto, – mi disse Conway. – Non avevano nessun dolore da esprimere, volevano solo una scusa per fare le matte. Quello di cui avevano bisogno era un bel calcio in culo, altro che «poverina» e carezze sulla testa.
– Può anche darsi, – disse McKenna. – Ma il «fantasma» non è piú riapparso.
Sorrise, compiaciuta. Tutto era andato a posto per bene.
Non era una stupida. Da quello che aveva detto Conway, mi aspettavo una snob mezza rimbambita, con i capelli tinti, il fisico di un uccellino e un sorriso stereotipato, che gestiva la scuola grazie a una buona pubblicità e ai contatti del marito. McKenna non era per niente rimbambita.
– Cosí, – proseguí, – abbiamo seguito lo stesso concetto con la bacheca. Abbiamo deviato i loro impulsi verso una valvola di sfogo controllabile e controllata. E di nuovo i risultati sono stati molto soddisfacenti.
– Controllata, – ripeté Conway. Prese una penna dalla scrivania, una Montblanc nera e oro, e si mise a giocherellarci. – In che modo?
– La bacheca è sorvegliata, ovviamente. Controlliamo che non ci sia materiale inappropriato prima dell’inizio delle lezioni, poi all’ora della ricreazione e di nuovo a pranzo e dopo la fine delle lezioni.
– E avete mai trovato del materiale inappropriato?
– Certo. Non spesso, comunque.
– Per esempio?
– Di solito variazioni sul tema di «Odio tizio e caio», riferito o a un’altra studentessa o a uno degli insegnanti. C’è la regola di non usare nomi e di non rendere identificabile la persona di cui si parla, ma è normale che le regole vengano infrante. Di solito in modo innocuo: scrivono il nome di un ragazzo di cui sono innamorate, o dichiarano amicizia eterna, e simili. A volte però troviamo messaggi crudeli. E almeno in un caso, il nome era stato fatto per essere d’aiuto, invece che per fare del male. Qualche mese fa abbiamo trovato un biglietto con la foto di un livido e la didascalia: «Il padre di tizia la picchia». Naturalmente abbiamo rimosso subito il biglietto, ma abbiamo sollevato il problema con la ragazza nominata. Con discrezione, naturalmente.
– Naturalmente, – le fece eco Conway. Lanciò in aria la penna e la riprese al volo. – Con discrezione.
– Come mai una bacheca fisica? – chiesi. – Perché non creare un sito web ufficiale, moderato da un insegnante? Tutto ciò che può urtare i sentimenti di qualcun altro semplicemente non arriva sul sito. Piú sicuro, no?
La signorina McKenna mi fissò, osservando ogni dettaglio: soprabito di buona qualità ma vecchio di un paio d’anni; buon taglio di capelli, ma che aveva bisogno di una rinfrescata già da un paio di settimane. Si stava chiedendo che tipo di specialista fossi, esattamente. Sciolse e rintrecciò le mani. Non diffidava di me, ma preferiva la prudenza.
– Abbiamo considerato quell’opzione, sí. Molti professori erano a favore, proprio per il motivo a cui accennava lei. Io ero contraria. In parte perché cosí escludevamo le interne, che non godono di accesso internet autonomo; ma soprattutto perché le ragazzine scivolano facilmente tra mondi diversi, detective. E perdono il senso della realtà. Secondo me non vanno incoraggiate a usare internet piú del necessario, e di sicuro non per rendere la rete il centro dei loro segreti piú nascosti. Io credo che dobbiamo tenerle il piú possibile con i piedi ben piantati nel mondo reale.
Conway inarcò le sopracciglia, come per dire: «Il mondo reale sarebbe questo?»
McKenna la ignorò. Di nuovo quel sorriso soddisfatto. – E avevo ragione. Non sono stati creati altri siti web. Alle studentesse in realtà piacciono le complicazioni del mondo reale: devono aspettare un momento in cui nessuno le veda attaccare un biglietto, trovare una scusa per andare al terzo piano senza farsi notare. Da un lato vogliono rivelare i loro segreti, dall’altro vogliono farlo in segreto. La bacheca mantiene in modo perfetto questo equilibrio.
– Provate mai a risalire alla persona che ha attaccato un biglietto? – chiesi. – Per esempio, se ne trovaste uno con scritto: «Sono una tossica», vorreste sapere chi l’ha scritto. Come fareste? C’è una telecamera a circuito chiuso puntata sulla bacheca?
– Telecamera? – McKenna la pronunciò come fosse una parola straniera. Espressione divertita, vera o finta che fosse. – Questa è una scuola, detective, non una prigione. E le nostre ragazze non tendono a sviluppare una dipendenza dall’eroina.
– Quante ne avete?
– Quasi duecentocinquanta, dal primo al sesto anno, due classi per anno con circa venti studentesse per classe.
– La bacheca è in funzione da cinque mesi. Statisticamente, in questo periodo di tempo alcune di queste duecentocinquanta ragazze devono aver avuto nelle loro vite situazioni che per voi è importante conoscere. Violenze, problemi alimentari, depressione –. Sapevo di aver ragione, ma in quella stanza le mie parole fecero un rumore come se avessi sputato sulla moquette. – E come ha detto lei, le ragazze vogliono rivelare i loro segreti. Vuol dirmi davvero che non avete mai trovato nulla di piú serio di «La lezione di francese fa schifo»?
McKenna si guardò le mani, nascondendosi dietro le palpebre abbassate. Rifletté prima di parlare.
– Quando identificare una persona è necessario, – disse poi, – abbiamo scoperto che è possibile. Un giorno abbiamo trovato un disegno a matita di una pancia femminile, che poi era stato tagliato in vari punti con una lama affilata. La didascalia era: «Vorrei potermi tagliare via questa cosa». Naturalmente dovevamo sapere di chi si trattava. L’insegnante di Educazione artistica ha analizzato lo stile del disegno, restringendo il campo, altri hanno fatto lo stesso con la calligrafia, e in giornata abbiamo avuto il nome.
– E si stava davvero tagliando sulla pancia? – chiese Conway.
Occhi bassi, di nuovo. Un’ammissione. – La situazione è stata risolta.
Sul nostro biglietto non c’erano né un disegno, né una scritta a mano. La ragazza della pancia voleva essere trovata, la nostra no, o almeno non voleva facilitarci il compito.
McKenna disse, rivolta a entrambi: – Mi sembra chiaro quindi che la bacheca è una forza positiva, non negativa. Anche i biglietti con scritto «Odio tizia» sono utili, perché ci fanno capire quali studentesse tenere d’occhio per individuare episodi di bullismo. La bacheca è una finestra sul mondo privato delle nostre ragazze, uno strumento inestimabile.
– Io lo definirei letale, – disse Conway. Lanciò di nuovo in aria la penna, riprendendola al volo. – L’inestimabile bacheca è stata controllata ieri dopo la fine delle lezioni?
– Come ogni giorno, ve l’ho già detto.
– Chi l’ha fatto ieri?
– Dovete chiederlo agli insegnanti, decidono tra loro.
– Lo faremo. Le ragazze sanno quando avvengono i controlli?
– Sanno che viene monitorata, vedono i professori che leggono i biglietti. Non tentiamo di nasconderlo. Ma non abbiamo diffuso gli orari precisi, se era questa la sua domanda.
Quindi la nostra ragazza non sapeva di poter essere individuata, pensava di poter svanire nel flusso di facce ridenti che si precipitavano lungo il corridoio.
Conway chiese: – Alcune allieve sono rimaste a scuola dopo la fine delle lezioni?
Un altro silenzio. Poi: – Come forse sa, il quarto anno include parecchio lavoro pratico. Progetti di gruppo, esperimenti e simili. Spesso, i compiti per casa richiedono l’accesso alle risorse della scuola, come l’aula di Disegno, i computer…
– Vuol dire che ieri sera c’erano delle ragazze a scuola. Chi e quando?
Sguardo duro da preside da un lato, sguardo duro da poliziotta dall’altro.
– Non vuol dire nulla del genere, – obiettò McKenna. – Non ho idea di chi ci fosse nell’edificio principale ieri. La matrona, la signorina Arnold, ha la chiave della porta che collega la scuola all’ala delle interne e tiene nota di ciascuna ragazza a cui è accordato il permesso di entrare a scuola fuori dagli orari delle lezioni. Deve chiedere a lei. Io sto solo dicendo che in generale la sera è possibile trovare qui alcune studentesse del quarto anno. Comprendo il suo bisogno di vedere in questo un significato sinistro, detective Conway, ma mi creda, non c’è nulla di sinistro nel progetto di Sociologia dei media di una ragazzina.
– È quello che siamo venuti a scoprire, – ribatté Conway. Si stirò, inarcando la schiena e allungando le braccia sopra la testa. – Per ora è tutto. Avremo bisogno della lista delle ragazze che ieri hanno avuto accesso alla scuola dopo le lezioni. Al piú presto. Nel frattempo, andiamo a dare un’occhiata alla sua inestimabile bacheca.
Gettò la penna sulla scrivania con un movimento secco del polso, come fosse un sasso da far rimbalzare sull’acqua. La Montblanc rotolò sulla copertura in pelle verde, fermandosi a pochi centimetri dalle mani intrecciate della signorina McKenna. La quale non mosse un muscolo.
Fuori dalle aule c’era silenzio, quel tipo di silenzio fatto da centinaia di mormorii diversi. Da qualche parte, delle ragazze cantavano un madrigale: solo frammenti, dolci armonie che s’interrompevano e ripartivano ogni paio di versi, quando l’insegnante correggeva qualcosa. «Ora è il mese di maggio, quando i ragazzi vanno all’abbordaggio, la, la, la, la…»
Conway sapeva dove andare. Ultimo piano, lungo un corridoio, oltre aule chiuse («Se l’alto domina il basso, allora…», «Et si nous n’étions pas allés…») Finestra aperta in fondo al corridoio, brezza calda e odore di verde.
– Eccoci arrivati, – disse, voltandosi verso una nicchia nel muro.
La bacheca era circa un metro di altezza per due di larghezza o poco meno, e ti arrivava in faccia non appena ti affacciavi sulla nicchia, come una mente impazzita, un flipper con le palline che schizzavano dappertutto senza il tasto di stop. Ogni centimetro quadrato era coperto di foto, disegni, dipinti affastellati gli uni sugli altri, come spintonandosi per conquistare spazio. Facce cancellate a colpi di pennarello, parole ovunque, scarabocchiate, stampate, ritagliate.
Conway emise un suono strano, nasale, che poteva essere una risata repressa o un rantolo scioccato.
In alto, in grosse lettere nere con svolazzi, da libro fantasy, la scritta: IL POSTO SEGRETO.
Sotto, in caratteri piú piccoli e normali: «Benvenute nel Posto Segreto. Ricordate che il rispetto è un valore fondamentale. Non alterate o strappate i biglietti di altre ragazze. I biglietti offensivi, osceni o che identificano qualcuno saranno rimossi. Se un biglietto vi crea un problema qualsiasi, parlatene con i vostri insegnanti».
Dovetti chiudere gli occhi per un attimo, prima di riuscire a separare quella frenesia in una serie di biglietti diversi. Foto di un labrador nero: «Vorrei che il cane di mio fratello morisse, cosí potrei prendere un gattino». Foto di un dito indice: «SMETTI DI FICCARTI LE DITA NEL NASO QUANDO SI SPENGONO LE LUCI. TI SENTO!!!» La carta di un cornetto gelato attaccata con lo scotch: «È stato allora che ho capito di amarti… e ho paura che lo abbia capito anche tu». Equazioni algebriche incollate l’una sopra l’altra. «La mia amica mi fa copiare xche io non c capisco un…» Disegno a pastelli colorati di un neonato pacioccone: «Tutti hanno dato la colpa a suo fratello, ma sono stata io a insegnare al mio cuginetto a dire vaff…!»
– «Il biglietto, – disse Conway, – era attaccato su un altro con mezza cartolina della Florida in alto e mezza di Galway in basso, con scritto: “Dico a tutti che questo è il mio posto preferito perché è mitico. Ma il mio preferito è quest’altro, perché qui nessuno sa che devo sforzarmi di essere mitica”. Anche a me piace Galway, e ogni tanto passando guardo quella cartolina. Cosí ho notato la foto di Chris».
Ci misi un attimo prima di capire. Era una citazione dalla dichiarazione di Holly, parola per parola.
Conway notò il mio sguardo meravigliato e disse, sarcastica: – Cosa c’è, mi credevi tonta?
– Non credevo che avessi una memoria simile.
– Vivi e impara –. Fece un passo indietro per dare un’occhiata d’insieme.
Labbra rosse, denti digrignati: «Mia madre mi odia perché sono grassa». Cielo blu al crepuscolo, morbide colline verdi, una finestra illuminata: «Voglio tornare a casa, voglio tornare a casa, voglio tornare a casa». Al piano di sotto, la stessa curva delicata del madrigale ripetuta all’infinito.
– Eccolo, – disse Conway. – Spinse da parte la foto di un uomo che puliva un gabbiano macchiato di petrolio, con la didascalia: «Continuate pure a dirmi di fare l’avvocato, ma io farò QUESTO!» e vidi l’immagine: metà Florida, metà Galway. Vicino all’angolo a sinistra in fondo.
Conway si chinò a guardare da vicino. – C’è il buco di una puntina. Sembra che la tua amichetta non abbia architettato tutto lei.
Se l’avesse fatto, non avrebbe dimenticato il buco della puntina. Non Holly. – Cosí sembra.
Inutile prelevare la cartolina per rilevare impronte. Non avrebbero provato nulla. Conway disse, citando di nuovo la dichiarazione: – «Non ho guardato la cartolina di Galway ieri sera, quando eravamo nell’aula di Educazione artistica. Non ricordo l’ultima volta che l’avevo guardata. Forse la settimana scorsa».
– Se l’insegnante che doveva controllare ieri l’ha fatto, il campo si restringe a chiunque fosse a scuola dopo le lezioni. Altrimenti…
– Altrimenti, in un casino come questo, un biglietto potrebbe aspettare giorni, prima di essere notato. E non c’è modo di restringere il campo –. Conway lasciò tornare il gabbiano al suo posto e indietreggiò per dare un secondo sguardo d’insieme alla bacheca. – McKenna può blaterare quanto vuole di valvole di sfogo. Per me, questa roba è demenziale.
Difficile contraddirla. – Dovremo controllarle tutte, – dissi.
La vidi riflettere, e sapevo su cosa: mollare a me il lavoro di manovalanza e tenere per sé quello interessante. Il capo era lei.
– Il modo piú rapido, – disse, – è staccarle una alla volta. Cosí siamo sicuri che non ce ne scappi nessuna.
– Però poi non riusciremo a rimetterle a posto esattamente come prima, e le ragazze sapranno che ci abbiamo messo le mani. Ti va bene?
– Cristo in croce, – imprecò lei. – Tutto il caso è stato cosí: un continuo camminare sulle uova. Lasciamole dove sono. Tu prendi quel lato, io questo.
Ci mettemmo una buona mezz’ora. Senza dire una parola, perché quel bailamme non ammetteva la minima distrazione, ma lavorammo bene insieme. È una cosa che capisci: il ritmo è coordinato, l’altra persona non ti irrita solo perché esiste. Io ero pronto a fare il necessario perché andasse tutto liscio come l’olio (rallentare Conway o starle con il fiato sul collo significava il mio ritorno immediato ai Casi Freddi), ma non ce ne fu bisogno. Fu tutto facile e senza sforzo. Un’altra zaffata della sensazione che avevo avuto salendo le scale: «È il tuo giorno fortunato, cogli l’occasione, se puoi».
Ma quando finimmo la buona sensazione era scomparsa. Avevo un nodo allo stomaco e un saporaccio in bocca come di sidro andato a male. Non perché ci fossero cose orribili sulla bacheca; non c’erano, Conway e McKenna avevano ragione, ciascuna a suo modo. Eravamo molto lontani dalla mia vecchia scuola. Una ragazza aveva rubato qualcosa in un negozio (foto di una confezione di mascara: «Ho rubato questo, e in + non mi dispiace!!») Un’altra ce l’aveva con qualcuno (foto di un lassativo: «Vorrei metterti questo nella tua stupida tisana»). Niente di peggio. Molti messaggi dolci. Un bambino sorridente che stringeva un orso di pezza tutto consumato: «Mi manca il mio orsetto!! Ma per questo sorriso ne valeva la pena». Sei pezzetti di nastro di vari colori annodati insieme, ciascuno incollato al biglietto con della cera su cui si era stampata un’impronta digitale: «Amiche per sempre». Altri erano cosí creativi da meritarsi la qualifica di opere d’arte, migliori di tante cose che si vedono nelle gallerie. Un biglietto era ritagliato a forma di finestra piena di fiocchi di neve, fine come un merletto, doveva essere costato ore di lavoro; dietro la finestra, frammenti del viso di una ragazza, irriconoscibile oltre i fiocchi di neve, che gridava. E sul bordo, in lettere minuscole: «Voi credete di sapere tutto di me».
Quello che aveva il sapore di sidro andato a male era il contrasto. L’aria dorata e trasparente, le facce pulite in corridoio, le chiacchiere allegre, mi erano piaciute tanto. E sotto, ben nascosta, quella roba. Non un’eccezione, non solo poche ragazze, ma tutte.
Mi chiesi, sperandoci, se molte non fossero storie inventate. Ragazze annoiate che devono inventarsi dei problemi. Poi pensai che se era cosí era un casino lo stesso. E poi pensai di no.
– Quanta di questa roba è vera, secondo te?
Conway mi guardò. Ci eravamo avvicinati l’uno all’altra, lavorando dai bordi verso il centro. Avrei potuto sentire l’aroma del suo profumo, se ne avesse messo uno. Sentivo solo un odore di sapone neutro.
– La maggior parte. Perché?
– Hai detto che mentono tutte.
– È vero. Mentono per tirarsi fuori dai guai, per attirare l’attenzione o per sembrare piú interessanti. E nulla di tutto questo è possibile se nessuno sa chi sei.
– Ma un po’ di bugie ci sono anche qui, no?
– Certo –. Toccò con un’unghia la foto di un attore di Twilight, con la scritta: «L’ho conosciuto durante le vacanze e ci siamo baciati è stato bellissimo ci vedremo di nuovo l’estate prossima».
– In che percentuale, secondo te?
– Quella, per esempio. Mi sembra una che lancia allusioni alle sue compagne ogni volta che le vede, cosí si convincono che si tratta di lei, ma siccome non lo dice apertamente non la possono accusare di essersi inventata tutto. Riguardo ad altre… – Perlustrò la bacheca con lo sguardo, – dico solo che se qualcuno volesse creare guai, qui c’è materiale in abbondanza.
Il madrigale ora veniva cantato per intero, chiaro e perfetto. «La primavera, vestita di contentezza, irride dell’inverno la tristezza, la, la, la, la…»
– Anche con il monitoraggio?
– Sí. Gli insegnanti possono controllare quanto gli pare, ma non sanno cosa cercare. Le ragazze sono furbe: se vogliono davvero creare problemi, trovano il modo di farlo senza che gli adulti se ne accorgano. Un’amica ti racconta un segreto, e tu lo posti in bacheca. Non ti piace una tizia? Inventi una brutta storia e l’attacchi qui fingendo che sia sua. Quella, per esempio, – toccò la bocca con il rossetto. – Basta un rapido scatto alla foto della mamma che una delle ragazze tiene nel cassetto del comodino, e vai, puoi dire a tutti che la madre della tizia in questione la odia perché la considera un maiale. Se le altre riconoscono la foto e credono che si tratti di una confessione da parte dell’interessata, tanto di guadagnato.
– Che bel mondo, – commentai.
– Ti avevo avvertito.
«Perché allora sedersi ponderando, le delizie della gioventú rifiutando, la, la, la, la…»
– Il nostro biglietto, – dissi. – Quante probabilità ci sono che sia vero, secondo te?
Era una cosa che mi chiedevo dall’inizio. Non volevo dirla e non volevo pensare che l’indagine finisse in un paio d’ore, con una ragazzina in lacrime che si beccava una sospensione e io che me ne tornavo ai Casi Freddi con un buffetto sulla testa.
– Un cinquanta per cento, – rispose Conway. – Certo che se qualcuno voleva creare problemi, ci è riuscito. Ma dobbiamo trattarlo lo stesso come vangelo. Hai finito la tua parte, vero? Da un momento all’altro squilla quel cazzo di campanello e saremo travolti.
– Sí, – dissi. Volevo muovermi, mi facevano male i piedi a furia di stare fermo in un posto. – Ho finito.
Avevamo trovato due biglietti che dovevamo trattenere. La foto di una mano femminile sott’acqua, pallida e indistinta: «So cos’hai fatto». La foto di un pezzo di terra spoglio sotto un cipresso, con una X a penna a marcare il punto preciso, senza didascalia.
Conway le chiuse in buste da prove separate che prese dalla cartella e le mise via. Disse: – Parleremo con la persona che doveva controllare la bacheca ieri. Poi ci faremo dare la lista delle ragazze che erano qui e parleremo con loro. Ed è meglio che la lista sia pronta in fretta, se no sono cazzi.
Dopo quella nicchia angusta, il corridoio sembrava lungo un chilometro. Sopra il brusio delle aule e il la, la, la del madrigale, mi sembrò di sentir ribollire la bacheca alle nostre spalle.