1.
Fu lei a venire a cercarmi. Di solito la gente
si tiene a distanza. Appena un mormorio sulla linea dedicata, «Nel
’95 ho visto…» Niente nome, e riattaccano se glielo chiedi. O una
lettera stampata al computer e imbucata da un’altra città, busta e
foglio senza tracce. Se vogliamo trovarli, dobbiamo andare a
cercarli. Ma lei no: fu lei a venire da me.
Non la riconobbi. Ero per le scale e salivo di
fretta verso la sala detective, una mattina di maggio che sembrava
estate, con un sole pieno che entrava dalle finestre illuminando la
stanza, crepe sui muri e tutto il resto. Canticchiavo una canzone
che mi girava in testa.
La vidi, ovviamente. Seduta sul divano in
pelle un po’ scrostata nell’angolo, braccia conserte, gambe
accavallate, caviglia dondolante. Lunga coda di capelli biondo
platino: uniforme scolastica impeccabile, gonna verde e blu, giacca
blu scuro. «La figlia di qualcuno, sta aspettando il padre per
andare dal dentista», pensai. Forse la figlia del sovrintendente, o
comunque di un poliziotto con uno stipendio piú alto del mio. Non
era solo lo stemma sulla giacca a farmelo pensare, ma
l’atteggiamento, il mento alzato come se potesse comprare tutto
l’ufficio, se solo avesse avuto voglia di riempire le scartoffie
necessarie. Le rivolsi un cenno di saluto, nel caso fosse la figlia
del capo, e proseguii verso la porta della sala detective.
Non so se lei mi riconobbe. Forse no. Erano
passati sei anni, era una bambina all’epoca, e io sono un tipo
anonimo, a parte i capelli rossi. Forse mi aveva dimenticato. O
forse no, ma finse di non riconoscermi per motivi suoi.
Lasciò che fosse l’impiegata a dire: –
Detective Moran, c’è una persona per lei, – indicando il divano con
la penna. – La signorina Holly Mackey.
Il sole sulla faccia mentre mi voltavo di
scatto e poi: ma certo. Avrei dovuto notare gli occhi. Grandi,
azzurri, con un arco delicato delle palpebre che le dava un’aria da
gatta; una ragazza pallida e ingioiellata in un antico dipinto, che
conosce un segreto. – Holly, – dissi, tendendo la mano. – Come
stai, da quanto tempo.
Per un secondo quegli occhi restarono fissi,
assorbendo ogni dettaglio di me senza rivelare nulla in cambio. Poi
si alzò. La sua stretta era ancora da ragazzina, e tirò via la mano
troppo in fretta. – Ciao, Stephen, – disse.
La voce era bella, chiara e piena, senza quei
toni acuti da cartone animato. L’accento era da classe alta, ma
senza affettazione. Suo padre non avrebbe lasciato correre. Se
fosse tornata a casa facendo la snob, le avrebbe tolto il blazer e
l’avrebbe mandata dritta in una scuola pubblica.
– Cosa posso fare per te?
A bassa voce: – Ho una cosa da darti.
A quel punto ero confuso. Le nove e dieci del
mattino, in uniforme scolastica: era in ritardo per le lezioni, in
una scuola che non avrebbe mancato di notare l’assenza. Non si
trattava di un biglietto di ringraziamento con anni di ritardo. –
Che cosa?
– Non qui.
L’occhiata rivolta all’impiegata chiedeva
privacy. Con un’adolescente devi stare attento. Se poi è figlia di
un detective, devi stare attento il doppio. Ma Holly Mackey? Se
metti in mezzo qualcuno che lei non vuole, hai chiuso, almeno per
la giornata.
– Troviamo un posto dove parlare, –
dissi.
Io lavoro ai Casi Freddi. Quando portiamo in
centrale i testimoni, loro vogliono credere che sia una robetta da
nulla: non una vera indagine per omicidio, con pistole e manette,
che può sconvolgerti la vita come un tornado. No, pensano sia
qualcosa di tranquillo e indistinto, e noi gli diamo corda. La
nostra saletta interrogatori principale sembra la sala d’attesa di
un dentista. Divani morbidi, veneziane alle finestre, tavolino di
vetro con vecchie riviste, tè e caffè schifosi. Non fanno caso alla
videocamera in un angolo, o allo specchio a senso unico dietro una
delle veneziane, a meno che non glieli indichiamo noi. Stia tranquillo, sarà tutto rapido e indolore, pochi
minuti e poi potrà tornare a casa.
Fu lí che portai Holly. Un’altra ragazza
avrebbe voltato la testa ovunque, ma per lei non era nulla di
nuovo. Percorse il corridoio come se fosse quello di casa
sua.
Camminando la osservai. Stava crescendo bene.
Altezza media, o poco meno. Molto snella, ma in modo naturale, non
come quelle ragazze che non mangiano abbastanza. Forse doveva
acquisire ancora qualche curva. Non bellissima, almeno non ancora,
ma di sicuro non brutta. Niente brufoli, niente apparecchio ai
denti, nessun tratto del viso sproporzionato. E gli occhi la
rendevano qualcosa di piú dell’ennesima bionda clonata: ti
spingevano a girarti a guardarla.
Si trattava di un ragazzo che l’aveva
picchiata? Molestata, violentata? E lei era venuta da me invece che
rivolgersi a un estraneo dei Crimini sessuali?
Ho una cosa da
darti. Delle prove?
Chiuse la porta della saletta alle nostre
spalle con uno scatto del polso e un colpo deciso. Si guardò
intorno.
Io accesi la telecamera, spingendo
l’interruttore con un movimento casuale. – Accomodati, –
dissi.
Holly non si mosse. Passò un dito sulla fodera
verde erba del divano. – Questa stanza è piú bella di quelle di
prima.
– Come va?
– Bene, grazie –. Guardava ancora la stanza,
non me.
– Vuoi un tè? Un caffè?
Scosse la testa.
Aspettai. Disse: – Sei cresciuto. Sembravi uno
studente.
– E tu sembravi una bambina che si portava la
bambola ai colloqui. Clara, si chiamava. Vero? – Quelle parole la
fecero girare verso di me. – Direi che siamo cresciuti tutti e
due.
Per la prima volta sorrise. Lo stesso sorriso
che ricordavo. Aveva qualcosa di commovente che mi catturava
sempre, allora come adesso.
Disse: – È bello rivederti.
Quando aveva nove o dieci anni, Holly era
stata una testimone in un caso di omicidio. Non me ne occupavo io,
ma lei parlava con me. Fui io a prendere la sua dichiarazione, e a
prepararla per testimoniare al processo. Lei non voleva farlo, ma
lo fece. Forse la convinse il padre detective. Forse. Già a nove
anni, non era per niente facile inquadrarla.
– Anche per me, – risposi.
Un respiro rapido le sollevò le spalle, poi
annuí tra sé, come se si fosse finalmente convinta di qualcosa.
Posò la cartella sul pavimento e mise un pollice sotto il bavero,
per indicarmi lo stemma. – Ora vado a St Kilda –. E mi
osservò.
Anche solo annuire mi fece sentire sfacciato.
St Kilda è il tipo di scuola che quelli come me non hanno mai
nemmeno sentito nominare. Io la conoscevo per via di un ragazzo
morto.
Un liceo femminile privato, in un quartiere
residenziale con molto verde. Suore. Un anno prima, di mattina
presto, due suore avevano trovato un ragazzo steso in una macchia
d’alberi, nel parco della scuola. Preparandosi a sottoporlo a
qualche tortura cinese, per scoprire a quale ragazza avesse
strappato la virtú, lo avevano apostrofato con voce tonante:
«Giovanotto!» Ma lui non si era mosso.
Christopher Harper, sedici anni, del collegio
maschile a una strada e due alti muri di cinta di distanza. In
qualche momento della notte, qualcuno gli aveva spaccato la
testa.
L’indagine aveva impiegato abbastanza risorse
umane da costruire un palazzo di uffici, abbastanza straordinari da
pagare una quantità di mutui e abbastanza carta da deviare un
fiume. Un guardiano tuttofare un po’ losco: eliminato dalla lista
dei sospetti. Un compagno di classe con cui la vittima aveva fatto
a pugni: eliminato. Immigrati che inquietavano la gente del
quartiere: eliminati.
Poi nulla. Nessun altro indiziato, nessun
motivo per cui Christopher Harper potesse trovarsi nel parco di St
Kilda. A un certo punto gli uomini e gli straordinari erano
diminuiti. Nessuno lo diceva chiaramente, non si può dire quando la
vittima è un minore, ma il caso era praticamente chiuso. Ormai
tutta quella carta era nel seminterrato della Omicidi. Prima o poi
i media avrebbero ricominciato a fare casino, e quel caso sarebbe
atterrato sulle nostre scrivanie: noi eravamo l’ultima
possibilità.
Holly lasciò andare il risvolto della giacca.
– Sai di Chris Harper, giusto? – chiese.
– Sí. Eri già a St Kilda, quando è
successo?
– Sí, sono lí dal primo anno. Ora sono al
quarto.
Non aggiunse altro. Mi faceva lavorare per
ogni passo avanti. Una risposta sbagliata e se ne sarebbe andata,
giudicandomi ormai troppo vecchio, l’ulteriore inutile adulto che
non capiva. Dovevo muovermi con cautela.
– Sei fissa in collegio?
– Solo negli ultimi due anni. E solo dal
lunedí al venerdí. Nel fine settimana torno a casa.
Non ricordavo il giorno preciso. – C’eri,
quando è successo?
– Quando Chris è stato ucciso.
Un lampo blu d’irritazione. La figlia di suo
padre: poca pazienza per chi gira intorno alle cose.
– La notte in cui Chris è stato ucciso, –
dissi. – Eri lí?
– Non lí sul
posto, ovviamente. Ma ero in collegio, sí.
– Hai visto o sentito qualcosa?
Ancora l’irritazione, stavolta piú forte. – Me
l’hanno già chiesto i detective della Omicidi. L’hanno chiesto a
tutte noi, tipo un migliaio di volte.
– Certo, ma potrebbe esserti venuto in mente
qualcosa di nuovo, oppure forse avevi taciuto qualcosa e hai
cambiato idea.
– Guarda che non sono stupida. So come
funzionano queste cose, ricordi? – I piedi si mossero, inquieti.
Era pronta a prendere la porta.
Cambio di tattica. – Lo conoscevi,
Chris?
Holly si calmò. – Un po’. Le nostre scuole
fanno delle attività insieme, cosí capita di conoscersi. Non
eravamo amici, ma la sua comitiva e la mia si erano incontrate
parecchie volte.
– Che tipo era?
Alzata di spalle. – Un ragazzo.
– Ti piaceva?
Altra alzata di spalle. – Era lí.
Conoscevo un po’ il padre di Holly, Frank
Mackey, della squadra Infiltrati. Se lo affronti in modo diretto,
ti evita e tenta di aggirarti. Se provi tu ad aggirarlo, ti
affronta a testa bassa.
– Se sei qui è perché c’è qualcosa che vuoi
farmi sapere. Non intendo giocare agli indovinelli. Se non sei
sicura di quello che vuoi dirmi, va’ via, rifletti e torna quando
sei pronta. Se ne sei sicura, sputa il rospo.
Holly approvò la tattica. Per poco non sorrise
di nuovo, ma alla fine si limitò ad annuire.
– C’è questa bacheca, – disse. – A scuola.
All’ultimo piano, di fronte all’aula di Educazione artistica. La
chiamiamo il Posto Segreto. Se hai un segreto, tipo che odi i tuoi
genitori, o ti piace un ragazzo, qualsiasi cosa, puoi scriverlo su
un biglietto e attaccarlo lí.
Inutile chiedere perché qualcuno farebbe una
cosa del genere. Capire le adolescenti è impossibile. Io ho delle
sorelle e ho imparato a lasciar perdere.
– Ieri sera, io e le mie amiche eravamo
nell’aula di Disegno, perché stiamo lavorando a un progetto. Quando
siamo andate via ho dimenticato lí il telefono, e me ne sono
accorta solo al momento di andare a letto, perciò non sono potuta
salire a prenderlo. Ma l’ho fatto stamattina prima di
colazione.
Tutto un po’ troppo preciso, senza una pausa o
un’esitazione. Se fosse stata un’altra, avrei detto che mentiva. Ma
Holly aveva fatto pratica, e aveva un padre poliziotto, che magari
le infliggeva un interrogatorio ogni volta che tornava a casa
tardi.
– Cosí ho dato un’occhiata in bacheca, –
proseguí Holly, chinandosi ad aprire la cartella. – Di
passaggio.
Ecco il segnale: la mano esitante sopra una
cartellina verde, il secondo di troppo in cui il viso restò chino
sulla borsa per evitare il mio sguardo, uno scatto della coda di
cavallo. Non era sempre fredda come un gelato, dopotutto.
Poi si raddrizzò e mi guardò di nuovo negli
occhi, senza nessuna espressione particolare. Alzò la mano, mi tese
la cartellina verde e la lasciò andare non appena la toccai. Per
poco non cadde a terra.
– In bacheca c’era questo.
Sopra la cartellina c’era scritto: «Holly
Mackey, IV L, studi di Coscienza sociale». Dentro c’era una busta
di plastica trasparente e dentro la busta una puntina da disegno,
incastrata in un angolo, e un rettangolo di cartoncino.
Lo voltai e riconobbi la faccia piú in fretta
di quanto avessi riconosciuto quella di Holly. Del resto l’avevo
vista per settimane su tutte le prime pagine, in tutti i notiziari
televisivi, su tutti i bollettini del dipartimento.
Era uno scatto diverso. Il ragazzo si stava
voltando indietro, contro uno sfondo sfocato di foglie gialle
autunnali, la bocca aperta in una risata. Attraente, capelli
castani lucenti, pettinati in avanti stile boy band, sopracciglia folte con la coda un po’
piegata all’ingiú che gli davano un’aria da cucciolo. Carnagione
chiara, guance rosa; una leggera spruzzata di lentiggini sugli
zigomi. Una mandibola che sarebbe diventata forte, se ne avesse
avuto il tempo. Il sorriso che gli increspava naso e occhi gli dava
un’aria spavalda e dolce allo stesso tempo. Evocava tutto ciò che
ti viene in mente quando senti la parola «giovane». Amori estivi,
eroe del fratello minore, carne da cannone.
Incollate sotto il viso, sul petto della
maglietta blu, alcune parole ritagliate da un libro e spaziate,
come per una richiesta di riscatto. I bordi erano precisi,
vicinissimi alle lettere.
Io so chi l’ha ucciso.
Holly mi fissava in silenzio.
Girai la busta. Un cartoncino bianco normale,
del tipo che puoi comprare ovunque per stampare le foto. Non c’era
scritto altro.
– L’hai toccato? – chiesi.
Occhi al cielo. – Certo che no. Sono andata
nell’aula di Disegno, ho preso quella, – indicò la busta – e un
tagliabalsa, che ho usato per far cadere biglietto e puntina nella
busta.
– Bella mossa. Poi cos’hai fatto?
– Ho nascosto la busta sotto la camicia, sono
tornata nella mia stanza e l’ho messa nella cartellina. Poi ho
detto che non mi sentivo bene e sono tornata a letto. Dopo la
visita dell’infermiera sono uscita di nascosto e sono venuta
qui.
– Perché?
Inarcò le sopracciglia e mi fissò. – Perché
credevo che la polizia volesse saperlo. Se non ti interessa,
buttalo via e torno a scuola prima che si accorgano della mia
assenza.
– M’interessa, e sono felice che tu abbia
trovato questo biglietto. Volevo solo sapere come mai non l’hai
portato a uno dei tuoi insegnanti, o a tuo padre.
Un’occhiata all’orologio a muro, e si accorse
anche della telecamera. – Merda, ora che mi ci fai pensare,
l’infermiera ripassa durante la ricreazione e se non mi trova
succede un casino. Puoi telefonare alla scuola? Di’ che sei mio
padre e che sono con te. Mio nonno sta morendo, e quando mi hai
chiamata per dirmelo sono uscita di corsa senza dirlo a nessuno
perché non volevo che mi mandassero dallo psicologo a parlare dei
miei sentimenti.
Aveva già preparato il pacchetto
completo.
– Chiamo subito la scuola, ma non dirò che
sono tuo padre –. Sospiro esasperato di Holly. – Dirò che avevi una
cosa da consegnarci e che è stata la cosa giusta da fare. Questo
dovrebbe evitarti problemi. Va bene?
– Come vuoi. Puoi almeno dire che mi avete
ordinato di non parlarne con nessuno? Se no mi dànno il
tormento.
– Non c’è problema –. Chris Harper mi rideva
in faccia, mezzo girato di spalle, con un’energia sufficiente per
illuminare mezza Dublino. Lo rimisi nella cartellina e la chiusi. –
Ne hai parlato con qualcun altro? Magari con la tua migliore amica?
Se l’hai fatto va benissimo, voglio solo saperlo.
Un’ombra scivolò lungo la curva degli zigomi
di Holly, sopra la sua bocca piú vecchia, meno semplice.
Riflettendosi anche nella voce.
– No. Non l’ho detto a nessuno.
– Bene. Allora faccio la telefonata e dopo
prendo la tua dichiarazione. Vuoi che uno dei tuoi genitori sia
presente?
Tornò la Holly di prima. – Oh, Gesú, no. È
necessario? Non puoi farlo tu e basta?
– Quanti anni hai?
Pensò di mentire. Decise di no. –
Sedici.
– C’è bisogno di un adulto che mi impedisca di
intimidirti.
– Tu non mi intimidisci.
«Non mi dire». – Lo so. Ma è la procedura.
Aspetta qui, prenditi un tè, se vuoi. Torno tra due minuti.
Holly si lasciò cadere sul divano. Era carica
come una molla: gambe piegate sotto di sé, braccia avvolte intorno
al tronco. Tirò in avanti la coda di cavallo e cominciò a
mordicchiarsi i capelli. Tutto l’edificio era surriscaldato come al
solito, ma lei sembrava avere freddo. Non mi guardò uscire.
I Crimini sessuali, due piani piú in basso,
avevano sempre un’assistente sociale reperibile. La feci venire e
presi la dichiarazione di Holly. Poi in corridoio le chiesi se
poteva riaccompagnare la ragazza a St Kilda. Holly mi lanciò
un’occhiata assassina. – Cosí la scuola avrà la sicurezza che eri
davvero da noi e non si trattava di una scusa per vedere un
ragazzo. Ti risparmi un sacco di noie.
Il suo sguardo diceva che non avevo fregato
nessuno. Non mi chiese cosa sarebbe successo, cosa avremmo fatto di
quel biglietto. Lo sapeva già. Disse solo: – A presto.
– Grazie di essere venuta. Hai fatto la cosa
giusta.
Lei non rispose. Accennò un sorriso e un gesto
di saluto, un po’ sarcastico e un po’ no.
Fissai la sua schiena dritta che si
allontanava nel corridoio, mentre l’assistente sociale dai piedi a
papera tentava di fare conversazione. E a un tratto mi resi conto
che non aveva risposto alla mia domanda. Ci aveva girato intorno
come una pattinatrice.
– Holly.
Si voltò, gettandosi la cartella su una
spalla. Diffidente.
– La cosa che ti ho chiesto prima. Perché sei
venuta proprio da me?
Mi osservò con un’attenzione inquietante, come
gli occhi di un ritratto che sembrano seguirti.
– L’altra volta, – disse. – Tutti si muovevano
in punta di piedi intorno a me. Come se alla prima parola sbagliata
potessi avere un crollo nervoso e dovessero portarmi via in camicia
di forza, con la schiuma alla bocca. Anche papà. Fingeva
noncuranza, ma era preoccupatissimo. Era tutto… Aaah! – Un suono di pura furia, le mani rigide e
aperte come stelle marine. – Tu eri l’unico che non camminava sulle
uova, che non sembrava considerarmi una fifona. Eri diverso, tipo: «Sí, è una brutta cosa,
ma succede anche di peggio e la gente sopravvive. Perciò facciamo
quello che dobbiamo fare».
È molto importante mostrare sensibilità verso
i testimoni minorenni. Ci fanno seminari sul tema, o se siamo
fortunati delle presentazioni in PowerPoint. Io ricordo com’era,
quando ero ragazzo. Molti se ne dimenticano. Un tocco di
sensibilità è piacevole. Un tocco in piú, perfetto. Un altro tocco
e cominci a fantasticare di prendere a pugni l’adulto che hai
davanti.
– Il testimone è un lavoro di merda. Per
tutti. E tu sei stata migliore di tanti altri.
Niente sarcasmo nel sorriso, stavolta. Molte
cose, ma niente sarcasmo. – A scuola, può spiegargli che non sono
una fifona? – chiese all’assistente sociale, che mise su
un’espressione supersensibile per nascondere lo sconcerto. –
Nemmeno un po’?
E uscí.
Una cosa su di me: ho dei progetti.
La prima cosa che feci, dopo aver salutato
Holly e l’assistente sociale, fu cercare il caso Harper nei
database.
Detective incaricato: Antoinette Conway.
Una donna detective alla Omicidi non dovrebbe
fare scandalo. Non dovrebbe neppure valere la pena di dirlo. Solo
che molti poliziotti, giovani e anziani, sono della vecchia scuola.
L’uguaglianza esiste sulla carta, ma basta grattare con un’unghia e
si vede cosa c’è sotto. Secondo il tamtam interno, Conway aveva
ottenuto il posto scopandosi qualcuno. Perché dalla vita aveva
avuto un extra, qualcosa che non era una faccia da patata smorta
irlandese: carnagione olivastra, naso e zigomi forti, capelli di un
nero quasi blu. Se fosse anche su una sedia a rotelle, diceva il
tamtam, sarebbe già diventata capo della polizia.
Io la conoscevo di vista prima che diventasse
famosa. All’accademia era due anni dietro di me. Alta, capelli
tirati in una coda, fisico da velocista, longilinea, muscoli
allungati. Mento sollevato e spalle aperte, sempre. Le giravano
intorno un sacco di maschi, la prima settimana. Volevano solo
aiutarla ad ambientarsi, essere gentili, amichevoli. Il fatto che
le ragazze meno belle non ricevessero lo stesso trattamento era una
coincidenza. Non so esattamente lei come avesse reagito, ma dopo
quella prima settimana i ragazzi smisero di farle avances e
cominciarono a coprirla di merda.
Due anni dietro di me in accademia. Detective
in borghese un anno dopo di me. Alla Omicidi nello stesso anno in
cui io ero arrivato ai Casi Freddi.
I Casi Freddi sono un buon posto, e ancora di
piú per uno come me: dublinese di classe operaia, il primo della
mia famiglia ad andare all’università invece di entrare da qualche
parte come apprendista. Ho lasciato la divisa a ventisei anni,
l’Unità generale detective a ventotto per la Buoncostume (fu il
padre di Holly a metterci una buona parola). Sono entrato ai Casi
Freddi la settimana del mio trentesimo compleanno, sperando che non
ci fosse un raccomandato prima di me e temendo che invece ci fosse.
Adesso ho trentadue anni. È ora di un altro scatto di
carriera.
L’unità Casi Freddi è un buon posto. La
Omicidi è meglio.
Il padre di Holly stavolta non potrebbe
metterci una buona parola neanche se volesse. Il capo della Omicidi
lo detesta. E nemmeno io sono nelle sue grazie.
Nel caso in cui Holly era la mia testimone, io
effettuai l’arresto. Fui io a far scattare le manette e a firmare
il rapporto. Ero solo una recluta, avrei dovuto passare il caso a
qualcun altro e tornarmene in sala operativa a battere al computer
dichiarazioni di testimoni che non avevano visto nulla. Invece
effettuai l’arresto. Me l’ero guadagnato.
Un’altra cosa su di me: so vedere un’occasione
quando ce l’ho davanti.
Quell’arresto, piú la buona parola di Frank
Mackey, mi fece uscire dall’Unità generale, fu il passaporto per i
Casi Freddi, e mi bloccò l’accesso alla Omicidi.
Dissi: «Non è obbligato a dire nulla a meno
che non desideri farlo», udii il clic
delle manette, e in quello stesso momento entrai nella lista nera
della Omicidi per gli anni a venire. Ma passare di mano il caso
significava restare nella lista di chi non va da nessuna parte:
trascorrere decenni a battere al computer i rapporti altrui. «Tutto
ciò che dirà sarà riportato per iscritto e potrà essere usato come
prova». Clic.
Vedi la tua occasione e la cogli. Tanto ero
certo che quella porta si sarebbe aperta di nuovo, prima o
poi.
Dopo sette anni, stavo cominciando a vedere la
verità.
La Omicidi è la scuderia dei purosangue. È
luce, splendore, un guizzo potente di muscoli ben allenati che ti
lascia senza fiato. La Omicidi è un marchio sul braccio, come
quello di un gladiatore, o di un’unità d’élite dell’esercito, un
marchio che dice, per tutta la vita: «Sei uno di noi. Uno dei
migliori».
Io volevo la Omicidi.
Avrei potuto mandare il biglietto e la
dichiarazione di Holly ad Antoinette Conway con una lettera di
accompagnamento, e fine della storia. Meglio ancora, avrei potuto
chiamarla subito, e passare nelle sue mani sia Holly, sia il
biglietto.
Niente da fare. Quella era la mia occasione.
Unica e sola.
Il secondo nome del caso Harper era Thomas
Costello, un vecchio cavallo da tiro della Omicidi. Un paio di
secoli di servizio attivo nella squadra, ora da un paio di mesi in
pensione. Quando si apre uno spazio nella Omicidi, io lo so.
Antoinette Conway non aveva ancora scelto un nuovo partner. Ballava
ancora da sola.
Andai dal mio capo. Comprese subito il mio
secondo fine, ma non gli sfuggí che per la nostra unità occuparsi
di un caso di alto profilo era una grande occasione. Che si sarebbe
riflessa sul budget dell’anno seguente. Io gli piacevo, ma non
tanto da mancargli. Perciò non ebbe problemi a lasciarmi andare da
Conway a consegnarle di persona il biglietto.
– Non affrettarti a tornare, – mi disse. Se
alla Omicidi mi volevano per quel caso, potevano avermi.
Conway non mi avrebbe voluto. Ma io facevo
parte del pacchetto.
Era impegnata in un colloquio. Mi sedetti a
una scrivania vuota in sala detective, scambiai due battute con i
ragazzi. Ma proprio due: alla Omicidi c’è sempre molto da fare.
Entri, e senti le pulsazioni accelerare. Squillare di telefoni,
battere di tasti, passi rapidi che vanno e vengono. Alcuni di loro
tuttavia trovarono il tempo di punzecchiarmi. Sei venuto per
Conway? Mi sa che ha già trovato qualcuno che se la scopa, perché è
tutta la settimana che non rompe i coglioni. Non credo si tratti di
un uomo, però. Comunque grazie che ti sacrifichi per la squadra. Ce
l’hai la tuta di lattice per il bondage?
Avevano tutti qualche anno piú di me, ed erano
tutti vestiti un po’ meglio. Io distribuii sorrisi e tenni la bocca
chiusa. Piú o meno.
– Non avrei mai pensato che a Conway
piacessero i rossi.
– Almeno io i capelli ce li ho. Le palle da
biliardo non le vuole nessuno.
– A casa ho una donna fantastica che ama un
calvo.
– Non è quello che mi ha detto ieri
notte.
È un dare e prendere.
Antoinette Conway entrò con una bracciata di
carte, chiuse la porta con il gomito e si diresse alla
scrivania.
Aveva ancora quel passo tipo «se tieni il
ritmo bene, se no vaffanculo». Alta come me, un metro e ottanta
circa, ma con cinque centimetri di tacco quadrato capace di
spappolarti un alluce. Tailleur pantaloni nero, di buon taglio e
attillato; nessun tentativo di nascondere la forma delle gambe
lunghe e del culo alto. Il passo, i vestiti, l’atteggiamento. Tutto
in lei diceva: «Stai cercando guai?» in almeno dieci modi
diversi.
– Ha confessato, Conway?
– No.
– Oh, stai perdendo il tocco.
– Non è un indiziato, cretino.
– E basta questo a fermarti? Un bel calcio nei
coglioni e via che confessa.
Non era un normale sfottò tra colleghi. C’era
qualcosa nell’aria, uno sfrigolio, un bordo tagliente. Non capivo
se ce l’avevano con lei, se era una giornata cosí, o se era la
squadra. La Omicidi è diversa. Il ritmo è piú rapido e duro, la
corda da equilibrista è piú sottile. Un passo sbagliato e sei
finito.
Conway si sedette alla scrivania e cominciò ad
aprire file sul computer.
– C’è il tuo ragazzo, Conway.
Lei ignorò il commento.
– Non vuoi dargli un bacetto?
– Di che cazzo stai parlando?
L’uomo indicò me con uno scatto del pollice. –
Buon divertimento.
Conway mi fissò. Occhi scuri e freddi, bocca
carnosa che non cedeva di un millimetro. Niente trucco.
– Sí?
– Stephen Moran. Casi Freddi –. Le tesi la
busta sopra la scrivania, e ringraziai il cielo di non essere stato
tra quelli che la prendevano per il culo all’accademia. – Oggi ho
ricevuto questa.
L’espressione non cambiò quando vide il
biglietto. Lo esaminò con calma da entrambi i lati, poi prese la
dichiarazione. – Ah, lei, – disse, leggendo il nome di Holly.
– La conosci?
– Ci ho fatto un paio di colloqui, l’anno
scorso. Non le ho cavato fuori un cazzo; una stronzetta con la
puzza sotto il naso. Sono tutte cosí, in quella scuola, ma lei era
tra le peggiori. Tirarle fuori due parole era come strapparle i
denti.
– Secondo te sapeva qualcosa? – chiesi.
Occhiata dura, foglio sollevato in alto. –
Questa come l’hai avuta?
– Holly Mackey era testimone in un caso a cui
ho lavorato nel 2007. Abbiamo sviluppato un buon rapporto. Migliore
di quanto pensassi, ho scoperto oggi.
Conway inarcò le sopracciglia. Ovviamente
conosceva il caso. Il che significava che sapeva di me. – Bene, –
disse, senza tradire nulla. – Grazie.
Girò sulla sedia dandomi le spalle e compose
un numero al telefono. Bloccò la cornetta tra orecchio e spalla e
si mise a rileggere la dichiarazione.
Ruvida, l’avrebbe definita mia madre.
Quell’Antoinette, detto con
un’occhiata di traverso, il mento abbassato. Un po’ ruvida. Riferendosi non al carattere, o
almeno non solo, ma all’ambiente di provenienza. Che era evidente
dall’accento: Dublino, la cosiddetta Inner City. Forse pochi passi
a piedi da casa mia, ma una distanza infinita per altri versi.
Palazzoni, graffiti pro Ira, pozzanghere di piscio. Tossici.
Persone che non avevano mai passato un esame in vita loro, ma
conoscevano tutti i meandri burocratici dei sussidi di
disoccupazione meglio dei professionisti. Persone che non avrebbero
approvato la carriera scelta da Conway.
Ci sono persone a cui l’atteggiamento ruvido
piace. Pensano che sia fico, parlano lo slang da strada. Ma non è
tanto fico quando ci sei cresciuto in mezzo, scalciando come un
pazzo con tutta la tua famiglia per tenere la testa fuori
dall’acqua. A me piace il contrario: sono educato e liscio come il
velluto.
Ricordai a me stesso che non ero lí per
giocare al miglior amico di Conway. Dovevo solo essere abbastanza
utile da attirare l’attenzione del suo capo.
– Sophie, sono Antoinette –. La bocca si
rilassava quando parlava con qualcuno che le piaceva; si sollevava
a un angolo, come pronta a tutto, come una sfida amichevole. La
faceva sembrare piú giovane, una donna che avresti voluto abbordare
in un pub, se ti sentivi audace. – Sí, bene, grazie. E tu? Sto per
mandarti una foto… No, è il caso Harper. Mi servono le impronte
digitali, ma daresti un’occhiata anche alla foto? Con cosa è stata
scattata, quando, dove, su che tipo di carta è stampata. Tutto
quello che puoi dirmi –. Avvicinò la busta. – E ci sono anche delle
parole ritagliate e incollate, in stile richiesta di riscatto. Vedi
se riesci a capire da dove le hanno prese, è possibile?... Sí, lo
so. Fa’ un miracolo per me, se puoi. A presto.
Riattaccò. Prese di tasca lo smartphone e
scattò una serie di foto del biglietto: davanti, dietro, da vicino,
da lontano, alcuni particolari. Andò a stamparle, tornò alla
scrivania e notò che non me ne ero andato.
Mi fissò per farmi sparire. Non abbassai lo
sguardo.
– Sei ancora qui?
– Voglio lavorare con te a questo caso, –
dissi.
Un sorriso appena accennato. – Ma va’? – Si
risedette e prese una busta da un cassetto.
– L’hai detto tu che con Holly Mackey e
compagnia non hai cavato un ragno dal buco. Lei invece si fida di
me, abbastanza da essere venuta a cercarmi per portarmi questo. Se
vengo anch’io, convincerà le sue amiche a parlare. Con me.
Conway ci pensò su.
Chiesi: – Cos’hai da perdere?
Forse fu il mio accento. La maggior parte dei
poliziotti vengono dalla campagna, o da piccole città di provincia,
e non amano i dublinesi smargiassi e convinti di essere il centro
dell’universo, quando tutti sanno che sono stronzate. O forse le
era piaciuto quello che aveva sentito dire di me. In un modo o
nell’altro, scrisse un nome sulla busta, ci mise dentro il
biglietto e disse: – Sto andando a St Kilda a dare un’occhiata a
quella bacheca e a fare due chiacchiere. Se ti va puoi venire. Se
mi sarai utile, magari parliamo di cosa succede dopo. Altrimenti
puoi andare affanculo e tornartene ai Casi Freddi.
Pensai: «Evvai!» Ma non ero cosí scemo da
lasciarlo trasparire. – Per me va bene.
– Devi chiamare la mamma per avvisare che non
torni a casa?
– Il mio capo è già informato. Non c’è
problema.
– Bene, – disse Conway. Spinse indietro la
sedia. – Ti aggiorno mentre andiamo. E guido io.
Qualcuno fischiò mentre uscivamo dalla porta,
provocando una serie di risatine. Conway non si voltò
nemmeno.