60

Il presidente Ryan sapeva che se c’era un aspetto positivo dell’essere continuamente stanchi era il fatto di poter dormire in qualsiasi momento. Non era sempre stato così. Tutte le minacce nei confronti degli Stati Uniti avevano la tendenza a tenerlo sveglio di notte. Tuttavia, passando sempre più tempo con quella spada di Damocle sopra la testa, alla fine il cervello e il corpo di Ryan avevano stretto una tregua precaria, spingendo da una parte i pensieri su argomenti come la distruzione nucleare o la fragilità dell’economia invece di lasciare che prendessero il sopravvento non appena si sdraiava sul letto. Cathy diceva che adesso dormiva di più, rigirandosi da una parte all’altra e bofonchiando cose senza senso nel sonno. Ryan ricordava raramente i propri sogni, il che gli faceva credere che ci fosse un Dio, e che fosse misericordioso, perché i sogni di un uomo potente con un minimo di coscienza erano giocoforza dei veri e propri incubi.

Si svegliò a causa del cambiamento di pressione nelle orecchie quando l’Air Force One cominciò la lenta discesa in vista dell’atterraggio a Tokyo. Sperava che il sonno di quattro ore avrebbe aiutato il suo corpo ad abituarsi, almeno in parte, al nuovo fuso orario. Sarebbero atterrati alla stazione aerea di Yokota alle 9:20 ora locale, per cominciare una giornata ricca di incontri, quando in realtà per il suo cervello sarebbero state le 20:20. La giornata si prospettava molto lunga, per cui si fece la barba e indossò una camicia pulita e una cravatta blu notte. Cathy diceva che quel colore lo faceva sembrare più serio, il che, pensò, era appropriato considerato il suo imminente colloquio con il presidente Zhao.

Sebbene senz’altro terrificante per l’equipaggio, l’incidente della nave oceanografica Meriwether si era dimostrato un banco di prova per la lotta di potere che sembrava essere in corso all’interno della Cina. O Zhao era un bugiardo, oppure non aveva il controllo del suo esercito. Ryan sperava che fosse la prima ipotesi, perché la seconda sarebbe stata un incubo.

L’agente speciale Gary Montgomery era seduto sul divano fuori dell’ufficio del presidente, e guardò l’oceano sottostante all’oblò. L’acqua non gli piaceva: poteva ucciderti, ma tu non potevi uccidere lei. Il presidente si sarebbe svegliato a breve, per cui Montgomery si abbottonò il primo bottone della camicia bianca e si sistemò la cravatta. Portava sempre due cravatte al lavoro, una rossa e una blu, così da non indossare lo stesso colore del suo capo. Era strano, Montgomery non aveva problemi ad ammetterlo, ma era qualcosa che faceva per scaramanzia… be’, quello e le infinite ore al poligono e in palestra. Il presidente indossava una cravatta rossa al momento del decollo, e Montgomery era felice di aver scelto una Brooks Brothers blu per quel giorno. Era il suo primo volo con il presidente Ryan, e voleva che tutto andasse alla perfezione. I suoi anni nel Secret Service gli avevano insegnato che se qualcosa poteva andare storto lo avrebbe fatto di sicuro. Non gli piaceva l’idea che una persona che rispettava tanto quanto Jack Ryan gli stesse addosso quando le cose cominciavano ad andare male.

I giapponesi disapprovavano l’uso delle armi da fuoco, e imponevano rigidamente chi poteva o non poteva girare armato, a eccezione degli agenti immediatamente intorno al presidente. Anche loro venivano avvertiti delle leggi giapponesi sull’uso delle pistole, ma nessuno fermava il presidente degli Stati Uniti o la decina di guardie del corpo che arrivavano nel corteo di auto insieme a lui, una sorta di accordo segreto, come avevano spiegato a Montgomery.

Già, Tokyo veniva fatta passare per la città più sicura del mondo, ma il presidente degli Stati Uniti aveva molti nemici, e bastava un devoto figlio di puttana per rovinare l’intera giornata, soprattutto se metà degli uomini della tua squadra non erano armati, quando invece avrebbero dovuto avere addosso delle SIG Sauer.

La maggior parte della porzione armata del corteo sarebbe stata occupata da agenti della polizia giapponese, ma il Secret Service aveva comunque due limousine blindate e altri veicoli di supporto. Quando si spostava, il corteo di auto era lungo ben quarantatré veicoli, senza contare le motociclette che avrebbero istituito posti di blocco in movimento prima di ogni incrocio. Gli elicotteri dal Marine Helicopter Squadron One erano già a Tokyo, insieme a due CV-22 Osprey per il supporto aereo.

I quindici minuti a bordo del Marine One dalla base aerea di Yokota fino al centro di Tokyo sarebbero stati molto meglio dei quaranta minuti necessari per raggiungerlo in auto. Mitzi Snelson, capo della squadra di ricognizione della scorta, informò che il Palace Hotel – dove si sarebbe tenuto il vertice bilaterale tra il presidente americano e quello cinese – era ben sorvegliato. Li avrebbe incontrati direttamente sul tetto.

Montgomery guardò l’orologio e poi bussò alla porta dell’ufficio.

«Signor presidente, atterriamo fra cinque minuti.»

«Benissimo» rispose Ryan da dietro la porta. «Tutto pronto a terra?»

«È tutto sistemato al meglio, signor presidente» rispose Montgomery, anche se non riusciva a togliersi di dosso il pensiero di essersi dimenticato qualcosa. Dopo decenni di lavoro, quel viaggio lo faceva sentire un principiante.

«Bene» disse Ryan, aprendo la porta. Indossava una cravatta blu notte, invece di quella rossa che aveva alla partenza.

Montgomery si morse la lingua e fece un sorriso forzato.

Ryan notò il cambiamento di umore. «Qualcosa non va?»

«Proprio nulla, signor presidente.»

«L’Akasaka Guesthouse è molto sicuro» disse Yuki. Era seduta accanto a Jack Ryan Junior su un treno della metropolitana della linea Marunouchi, mentre tornavano verso la stazione di Tokyo e il Palace Hotel. Il petto di Ryan aveva bisogno di punti, ma Adara lo aveva sistemato con della supercolla e un bendaggio appiccicoso che aveva fermato l’emorragia.

La squadra non aveva quasi niente su cui proseguire le indagini, a parte alcune frasi misteriose su una banda, e forse la parola «ammazzare», che era raccapricciante di suo, posto che fosse davvero quello che Chen aveva cercato di dire. Il fatto che Chen si trovasse in città era una cattiva notizia, e Jack cercò di consolarsi ricordandosi che i suoi compagni erano morti o in prigione. I superiori di Yuki le avevano detto che il secondo uomo armato era sopravvissuto e si trovava in terapia intensiva. Amanda Salazar e l’uomo che Ryan aveva mandato al tappeto erano stati arrestati dalla polizia, ma si rifiutavano di parlare. Le loro rispettive ambasciate erano state avvertite, e probabilmente i due sarebbero stati rilasciati dopo che tutti i dignitari in visita avessero lasciato la città, a meno che l’organizzazione di Yuki non avesse trovato un motivo per trattenerli.

«Grazie» disse Ryan. «Lo so che hai già un sacco di lavoro senza che io ti faccia finire in un vicolo cieco dopo l’altro.»

Yuki sorrise. «In Giappone abbiamo un detto che recita: Nokorimono ni wa fuku ga aru. “La fortuna si trova negli avanzi.”»

«Non sono sicuro di averne afferrato il significato…»

«Vuol dire che dobbiamo continuare a provare. Troviamo la fortuna solo se scaviamo fino in fondo.»

«Spero che i miei amici abbiano fortuna con il computer di Chen.»

«Mi prenderei un severo rimprovero se i miei superiori scoprissero che ti ho permesso di dargli un’occhiata.»

«Lo so» disse Ryan. «E, come ho detto, mi dispiace di averti messo in difficoltà.»

Il treno si fermò a Kasumigaseki. Erano a due fermate dalla stazione di Tokyo, e i vagoni si stavano riempiendo sempre di più.

Tre donne di mezza età salirono a bordo e si tennero strette agli anelli sopra di loro, fermandosi proprio davanti a Ryan. Suo padre non avrebbe approvato una sua mancanza di cavalleria.

«Il Giappone ha molti bei proverbi. Ma non mi piace che gli uomini debbano stare seduti mentre le donne stanno in piedi. Sarebbe il caso che offrissi il mio posto a una di queste signore.»

Yuki gli mise una mano sul braccio, lasciandola lì. «Ti prego, è più educato se rimani seduto.»

«Dici sul serio? Perché potrei offendere altri uomini che non ci hanno pensato prima di me?»

«No.» Yuki sorrise, avvicinandosi come per rivelargli un segreto. «Occupi troppo spazio.»

Ryan la guardò. Non aveva ancora tolto la mano dal suo braccio, il che gli andava più che bene. «Troppo spazio?»

Yuki gli strinse il braccio, flirtando un po’, forse. «Sei piuttosto robusto rispetto alla maggior parte dei giapponesi. Mi imbarazza dirti che alcuni potrebbero considerarti uno kebukai yabanjin, un “barbaro peloso”.» Inarcò le sopracciglia prima di specificare: «Io non lo penso, ovviamente.»

«Ovviamente» ripeté Ryan, annuendo lentamente. E così rimase seduto finché il treno non ebbe raggiunto la stazione di Tokyo.

Yuki lo guidò fuori del tunnel Marunouchi. Aprirono l’ombrello per ripararsi dalla pioggia e si avviarono in direzione ovest, superando un giardino acquatico sulla destra, verso il fossato del palazzo imperiale. C’erano molti specchi d’acqua. Ryan aveva molta esperienza personale con il Secret Service, ed era sicuro che li avessero già controllati con i sub, oltre ad aver effettuato una ventina di esercitazioni in cui avevano simulato un attacco al presidente in un lago vicino a Beltsville.

Superarono un piccolo santuario, e un castello bianco dall’altro lato dell’acqua. I colori, i contorni di qualsiasi cosa erano attenuati dalla pioggia e dalla nebbia.

«Il Giappone è meraviglioso con la pioggia.»

«Lo penso anch’io» disse Yuki. «Ti avverto, Jack, quando proverai a lasciare il Giappone, ushirogami wo hikareru… ovvero “continuerà a tirarti per i peli sulla nuca”.»

«Credo che…»

La voce di Chavez negli auricolari lo interruppe. Era ancora all’albergo con il computer di Chen mentre Gavin era al lavoro per superare le password e la codifica per poter effettuare un controllo del contenuto da remoto. Midas e Adara si stavano spostando da un posto all’altro, alla ricerca di qualsiasi ago nel pagliaio dei luoghi che ospitavano il G20. Si sarebbero riuniti vicino all’albergo, dall’altro lato della strada rispetto al palazzo imperiale.

«Ho provato a chiamarti, hermano» disse Chavez. «Gavin è entrato.» La sua voce era tutt’altro che felice.

«D’accordo» disse Ryan. «Un complotto omicida?»

«Gav sta ancora controllando i file. Ma per ora niente. Come sospettava Eddie Feng, Chen è collegato all’attentato dinamitardo nel tunnel della metropolitana di Pechino, per il quale ha ricevuto un bel pagamento. Hai letto del soldato ucciso nel Ciad e dell’attacco a una nave della marina vicino a Bali?»

«Sì» rispose Jack.

«Chen ha ricevuto pagamenti anche in corrispondenza di questi due attacchi e, ovviamente, dell’attentato nel ristorante in Argentina.»

Ryan rifletté sulle possibili ramificazioni. «Taiwan?»

«Tutt’altro» disse Chavez. «Il ministro degli Esteri cinese Li. Gav ha ottenuto degli strani risultati mentre controllava canali non ufficiali. Prima pensava che il collegamento fosse soltanto che Li fosse una vittima dell’attentato in Argentina, ma Li e un generale cinese di nome Xu possiedono azioni di una miniera di diamanti nell’Africa occidentale. Senti qua: la sorella di Vincent Chen, Lily, è un’azionista di minoranza di questa stessa miniera.»

Ryan si fermò di colpo. «Per cui Chen e il ministro Li sono collegati? Forse la sorella ha assunto Chen per uccidere il suo socio in affari.»

Yuki si girò per ascoltare la parte di conversazione di Jack.

«Dobbiamo riferirlo ai piani alti» disse lui.

«Gerry sta già riportando tutto ai nostri amici del Crossing.»

Parlava del Liberty Crossing, sede dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale. Mary Pat Foley avrebbe saputo se avevano qualcosa su Li.

«Ti faccio sapere tra poco» disse Chavez. «Mi sta chiamando Gerry.»

Ryan aggiornò Yuki mentre attraversavano via Uchibori, che era chiusa al traffico per l’intero isolato davanti all’albergo. Potevano proseguire verso nord passando accanto al fossato del palazzo imperiale.

Yuki si fermò insieme alla folla che stazionava dall’altro lato della strada rispetto all’ingresso del Palace Hotel. Una decina di agenti di polizia e guardie di sicurezza con elmetti bianchi formavano un cordone discreto ma impenetrabile lungo il marciapiede, e permettevano alle persone di guardare fintanto che non avessero nulla in mano. Scattare fotografie, o anche soltanto tenere in mano un cellulare, era severamente proibito.

Tre elicotteri si avvicinarono nel cielo grigio di Tokyo: due si staccarono dalla formazione, mentre il terzo si abbassò verso il tetto dell’albergo per atterrare. Il Marine One. Jack sentì un nodo allo stomaco, sapendo che suo padre stava per affrontare una serie di difficili incognite.

«Non devi preoccuparti per il presidente» disse Yukiko. «Le fontane e gli stagni di Wadakura formarono una barriera naturale a sud dell’albergo, e la polizia ha sbarrato l’accesso alle strade di tutto l’isolato.» Fece un cenno verso il tendone bianco in fondo alla strada. «Tutti i veicoli che devono consegnare merci o uomini di supporto – dunque anche quelli della polizia – devono essere controllati con specchi e cani antibomba. I pedoni, compresi gli agenti di sicurezza, devono mostrare i propri documenti alla tenda e poi all’interno dell’edificio, passando sotto metal detector in entrambi i punti. Sono disposti come gli strati di una cipolla. Cerchi concentrici, misure di sicurezza per prevenire attentati dinamitardi, aggressori armati, missili, attentati biologici e chimici, e pazzi con spade da samurai. Vedi, sembra che abbiano pensato a qualsiasi eventualità.»

«Persino ai kebukai yabanjin?» domandò Jack.

«Soprattutto ai barbari pelosi.»

Sentirono delle sirene avvicinarsi, e poi un corteo di quindici auto svoltò in via Uchibori, passando dal tendone di sicurezza a mezzo isolato di distanza.

La limousine Toyota nera dietro le volanti della polizia sfoggiava le bandiere rosse della Repubblica Popolare Cinese.

«Zhao» mormorò Ryan.

Il corteo si fermò sotto il portico dell’albergo, al riparo della pioggia. Uomini in completi neri uscirono dalla seconda e dalla terza berlina, rivolgendosi verso l’esterno e circondando la limousine. Alcuni di loro erano della polizia di sicurezza giapponese, anche se, come gli Stati Uniti, la Cina preferiva utilizzare anche un contingente relativamente grande di guardie del corpo del proprio Paese.

Ryan fece un mezzo passo avanti per guardare meglio. Era difficile esserne certi nella pioggia e da quella distanza.

«Quei due non ti sembrano familiari?»

Yuki si spostò accanto a Jack. «In effetti… Penso di sì.»

Il presidente Zhao uscì dalla limousine, nascosto di proposito dal veicolo e dalle colonne davanti all’ingresso dell’albergo. Il corteo avanzò, per poi fermarsi di nuovo. Uscirono altre guardie, che circondarono una seconda persona.

«Il ministro degli Esteri Li» disse Yuki. «So chi sono quegli uomini.»

«Anch’io» disse Ryan nel microfono nascosto nel colletto.

«Ehi, ragazzi…Abbiamo un problema.»

Potere e impero
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