26
Mamat bin Ahmad era seduto su una cassa di legno capovolta, con la schiena poggiata sul tronco di un’alta palma da cocco. Stava osservando il mare quando lo squillo del telefono satellitare che aveva sulle gambe lo fece sobbalzare. Lui e i suoi uomini si trovavano sulle coste meridionali dell’isola indonesiana di Buru, a pochi secondi da qualsiasi imbarcazione da diporto, se mai ne fosse passata una. La finestra temporale per la loro operazione era stretta. Una prima chiamata aveva informato Mamat che qualche ora prima la USS Rogue aveva superato Timor Est. Il pattugliatore americano classe Cyclone stava navigando verso nord in seguito a una recente fermata alla HMAS Coonawarra, la base navale australiana a Darwin, dove si era unita alle navi militari filippine e malesi in un pattugliamento antipirateria del Mare di Sulu.
Così Mamat era rimasto in attesa della seconda chiamata, tenendo l’antenna di plastica alzata e orientata verso il cielo. Ciononostante fu quasi sorpreso dal rumore improvviso e rischiò di far cadere il telefono nella sabbia. Tutti i suoi uomini erano tesi – circostanza comprensibile, considerata la missione – ma avevano bisogno di una guida e, per sua fortuna, non parvero notare quei gesti goffi.
Mamat era giovane, non aveva nemmeno venticinque anni. Se fosse stato una persona più felice, i suoi denti bianchi avrebbero brillato attraverso un ampio sorriso. Ma dalla morte di suo padre, la sua famiglia non aveva conosciuto altro che la povertà. Sua sorella maggiore era scappata con quello che chiamavano un dirty Joe, uno di quegli americani o europei di una certa età che arrivavano nel Sudest asiatico in cerca di una moglie. Sua madre puliva le stanze d’albergo per ricchi turisti nella città indonesiana di Manado, ma era costantemente malata. Il padre di Mamat si era aspettato che suo figlio avrebbe seguito i suoi passi. Gli uomini della sua famiglia pescavano da generazioni. Mamat aveva imparato molto sulle barche, diventando un marinaio superiore alla media, ma i principi della Jemaah Islamiyah lo avevano traviato quando era ancora adolescente. La Jemaah Islamiyah gli aveva offerto stabilità e, cosa ancora più importante, una causa, una motivazione esistenziale più forte rispetto al vivere alla giornata come un semplice pescatore. I genitori di Mamat erano entrambi devoti musulmani, osservavano rigorosamente il Ramadan e, quando una malattia rendeva loro impossibile il digiuno, recuperavano meticolosamente i giorni saltati. Tuttavia, anche loro avevano un atteggiamento moderato.
La moderazione annoiava Mamat tanto quanto la pesca. I leader della Jemaah Islamiyah gli avevano insegnato che l’unica via era quella della completa devozione, uno zelo religioso che non lasciava spazio ad alcun compromesso. Sì, Mamat si intendeva di barche, ma le sue vere abilità risiedevano in altri ambiti. Recenti interazioni con membri di Abu Sayyaf lo avevano reso testimone di così tanto spargimento di sangue che l’improvviso squillo di un cellulare non avrebbe dovuto sorprenderlo. Invece sobbalzò, perché quella non era una telefonata come le altre.
Non riconobbe il numero. Gli uomini che chiamavano quel cellulare raramente usavano lo stesso telefono più volte. A ogni modo, sapeva che all’altro capo della linea ci sarebbe stato Dazid Ishmael. Riusciva quasi a sentire l’innaturale energia di quell’uomo attraverso il telefono.
Mamat aveva visto Ishmael decapitare quattro prigionieri di Abu Sayyaf, ogni volta con un pugnale americano Ka-Bar. La determinazione e devozione del comandante contro gli infedeli era sorprendente. Aveva cominciato a vedere Ishmael come una figura paterna, e pregava affinché arrivasse il momento di dimostrare il proprio valore.
Adesso quel momento era arrivato.
«Sei pronto?» domandò il comandante.
Mamat guardò i sei uomini seduti all’ombra su entrambi i lati, lungo la spiaggia deserta. Alcuni fissavano l’acqua; altri bevevano succo di frutta mentre riflettevano sul loro imminente destino.
«Siamo tutti pronti?» disse Mamat.
«Benissimo» disse Ishmael. «L’AIS mostra che un’imbarcazione è partita da Ambon quattro ore fa, verso sudovest. L’attuale direzione mi porta a credere che stia cercando di raggiungere il Wakatobi.»
Mamat annuì. Il resort Wakatobi era una destinazione popolare per i possessori di yacht; quei ricchi turisti infedeli erano passati più e più volte davanti alla barca da pesca di suo padre.
Ishmael gli fornì l’identificatore AIS. «Puoi intercettarla?»
Mamat si collegò alla connessione satellitare sul suo tablet e aprì un localizzatore del traffico marino. Trovò l’imbarcazione immediatamente. Con un semplice clic ottenne la descrizione completa della barca e il codice radio, insieme a direzione, velocità e precedente percorso. Mamat era sorpreso da quante informazioni potesse fornire un moderno marinaio a chiunque ne avesse bisogno. E il tutto in nome della sicurezza.
«Siamo a meno di quindici chilometri di distanza.»
«Andrà bene» disse Ishmael.
«Il localizzatore non mostra l’imbarcazione della marina militare americana» disse Mamat. «Non sono sicuro della sua posizione. E se fosse già passata?»
«L’hai vista passare dalla tua posizione?»
Il giovane indonesiano scosse la testa, nonostante fosse al telefono. «No.»
«Prevedo che ti passerà davanti arrivando da ovest. Ma dovrebbe essere abbastanza vicina. Devi procedere in fretta, al massimo entro un’ora. Capito?»
«Capito» rispose Mamat.
«Dio sia con te» disse il comandante di Abu Sayyaf prima di riagganciare.
Mamat ripiegò l’antenna e infilò il telefono in uno zaino impermeabile che teneva ai piedi. Poi se lo caricò in spalla e si diresse verso il lungo motoscafo di legno che galleggiava nell’acqua verde. I suoi uomini lo seguirono spontaneamente. Non c’era bisogno che qualcuno dicesse che era ora di andare.
Awang, un uomo cinque anni più grande di Mamat, entrò in acqua e raggiunse la poppa della barca da sei metri per controllare il motore fuoribordo Honda da duecentocinquanta cavalli. La velocità era essenziale, e Mamat avrebbe preferito due motori, ma averne due grandi su un motoscafo di legno era considerato una prova di pirateria. Gli AK-47 e i lanciarazzi nascosti sotto i teloni arancioni a bordo sarebbero bastati a confermare i sospetti se fossero stati abbordati dalle autorità indonesiane. Awang aveva addirittura cosparso il motore Honda di fango affinché si accordasse con lo stato pietoso dell’imbarcazione.
Mamat e gli altri sei spinsero la barca nella laguna prima di scavalcare le falchette e occupare i rispettivi posti. La maggior parte degli uomini aveva grossomodo vent’anni, poco più o poco meno. Osman – il vicecomandante de facto, dato che Awang si era rifiutato di accettare quella posizione – era seduto su una panca di legno accanto a Mamat.
Il motore sibilò quando Awang lo abbassò in acqua. L’Honda si avviò con un rombo gorgogliante, e un attimo dopo il motoscafo disegnava un arco sulle acque verde smeraldo della laguna. Awang era al timone, con il tablet di Mamat sulle ginocchia per orientarsi.
Si girò verso Mamat. «Lucky Strike?»
«Esatto» disse Mamat.
Awang lo guardò confuso. «Una barca a vela non sembra granché come obiettivo.»
Osman si girò e scosse la testa, ma sul momento non disse niente. Awang era un tizio abbastanza affidabile, solo che i suoi periodici eccessi di alcol gli rendevano impossibile tenere per sé le informazioni importanti. Gli altri uomini gli avevano tenuta nascosta la vera natura della missione, ma ormai non aveva importanza. Il suo compito era solo guidare il motoscafo.
Mamat sorrise. «Non preoccuparti, amico mio. Il Lucky Strike non è il nostro obiettivo. È l’esca.»
Karla Downs era seduta con i piedi sulla panca del pozzetto e la schiena poggiata su un cuscino blu che si accordava con il colore dello scafo del Lucky Strike. Abbassando lo sguardo, notò una piccola macchia di crema solare non assorbita e se la spalmò sul petto. Stavano navigando verso est al lasco, e le enormi vele offrivano gradite ombre per proteggersi dal sole del pomeriggio. Un vento caldo le accarezzava il corpo, che non era mai stato così abbronzato. L’odore di acqua salata e olio di cocco vorticava nel ponte di fibra di vetro.
Doveva senz’altro essere la seconda donna più fortunata del mondo. Suo marito, Tony, le era rimasto relativamente fedele nel corso dei ventotto anni di matrimonio, nessuno dei loro due figli era in prigione e aveva amici ricchi. In uno stato di forma sorprendente per i suoi cinquantadue anni, Karla aveva unghie curate e i capelli tinti di rosso con un’acconciatura alla moda, e una coda che le teneva i capelli lontano dalle spalle nel caldo e nell’umidità del pomeriggio. Gli occhiali da sole da attricetta di Hollywood e un abbondante strato di crema solare con fattore di protezione trenta la proteggevano dall’intensità del sole del Sudest asiatico. Il costume da bagno verde oliva, che le rimaneva alto sui fianchi, aveva un’ampia scollatura; indossandolo si sentiva mezza nuda, ma a Tony piaceva.
Negli ultimi anni la passione sembrava essersi spenta. Aveva sperato che quel costume provocante potesse riaccenderla, ma non avrebbe dovuto preoccuparsi. Forse era il rollio delle onde o semplicemente l’idea di navigare in mare aperto, ma a Karla non importava sapere il motivo. Mentre di solito Tony non la baciava nemmeno in pubblico, adesso sembrava non curarsi minimamente delle sottili pareti della barca a vela da dodici metri degli White. Da quando erano ripartiti da Darwin, ogni mattina a colazione Judy le aveva fatto l’occhiolino. Kenneth non diceva mai niente, preferendo armeggiare con la sua barca ed effettuare le sue misurazioni con il sestante a qualsiasi ora del giorno. Tutti gli altri la consideravano una vacanza. Per Kenneth White, invece, navigare era una faccenda seria.
I Downs conoscevano Kenneth e Judy da quando, vent’anni prima, avevano avviato la Energy Exploration di White nel quartiere di Katy, a Houston, Texas. Avevano preso in affitto un ufficio in un piccolo centro commerciale, e Judy rispondeva al telefono mentre Kenneth passava il tempo nei siti di trivellazione. L’anno precedente avevano venduto la loro piccola compagnia per una somma cospicua – «parecchi milioni», secondo il «Katy Times» – ed erano partiti per esplorare il mondo.
Purtroppo per Karla, chi vendeva i componenti per gli impianti di trivellazione non diventava ricco come i proprietari delle aziende petrolifere. Ma gli White erano fin troppo generosi e portavano avanti le amicizie indipendentemente da quanto diventassero ricchi. Avevano persino invitato Karla e Tony a partecipare a un viaggio in barca a vela di tre settimane da Darwin a Singapore sul loro nuovo yacht Valiant costruito in Texas.
Karla non aveva mai amato molto viaggiare, ma l’arcipelago delle Molucche era qualcosa di eccezionale. Avevano navigato per interi giorni in mare aperto senza vedere niente all’orizzonte, a volte persino all’ombra di enormi portacontainer. Si erano fermati in posti con nomi mitici come Saumlaki, Banda e Ambon, e avevano incontrato decine di persone fantastiche e affascinanti. Avevano ricevuto alcune occhiatacce e intravisto la povertà della regione, ma gli yacht come il Lucky Strike sostenevano l’economia locale, per cui i punti peggiori dell’area erano perlopiù celati ai viaggiatori, e per Karla era semplice convincersi che quello fosse il paradiso di cui parlavano le guide.
Kenneth e Judy erano molto accoglienti con loro, e come marinai si godevano a pieno il viaggio, senza la smania di arrivare al più presto a destinazione. Pinnacoli verdi si ergevano in un migliaio di isolotti sparsi in un mare color smeraldo. Le persone sorridevano e offrivano loro piatti che Karla non aveva mai nemmeno immaginato, né tantomeno assaggiato, da nutrienti piatti a base di curry fino alla papeda, una sostanza un po’ collosa ricavata dall’amido delle palme e che andava bevuta direttamente dalla scodella. L’equipaggio di quella piccola barca a vela aveva consumato una quantità di delizioso pesce alla griglia pari almeno al proprio peso corporeo, offerto loro in qualche banchetto sulla terraferma o acquistato da motoscafi di passaggio, i cui conducenti richiamavano l’attenzione gridando «Ehi, mister!» anche quando al timone c’era una delle donne.
Karla chiuse gli occhi e respirò l’aria umida. No, «fortunata» non si avvicinava nemmeno a descrivere la sua condizione. Non poteva immaginare di tornare alla sua vecchia vita a Houston.
Judy, che si trovava sottocoperta per preparare la cena, fece capolino dal boccaporto. Karla si era offerta di darle una mano, ma nella Valiant la cucina era fatta per una persona soltanto, in modo che l’occupante potesse aggrapparsi più agevolmente in mare aperto.
«Gli spaghetti sono quasi pronti» annunciò Judy. Sembrava una specie di folletto, e i suoi capelli scuri, per quanto ne sapesse Karla, non avevano mai avuto bisogno di una sola goccia di tinta. Indossava un parasole giallo e aveva un sorriso altrettanto luminoso. Il timone a vento manteneva la barca sulla direzione giusta, per cui Karla era sola nel pozzetto. «Ti dispiace chiamare i ragazzi?» domandò Judy prima di tornare sottocoperta.
Karla si tirò su a sedere sui gomiti e allungò il collo senza muovere il resto del corpo. Il ritmo della settimana precedente l’aveva portata a muoversi sempre con una deliziosa pigrizia.
Kenneth e Tony stavano entrambi guardando il mare dal fianco destro della barca. Kenneth l’avrebbe chiamato «lato di dritta», ma Karla non riusciva a farsi entrare in testa tutti quei termini nautici. All’inizio pensò che Kenneth stesse facendo delle misurazioni con il sestante, ma, guardando meglio, notò che i due uomini stavano guardando con un binocolo. Tony aveva l’abitudine di ruotare il piede di lato quando era concentrato su qualcosa di importante. Il modo in cui lo muoveva adesso spinse Karla a tenerli sott’occhio.
Poco dopo sentì il ronzio del motore di una barca in avvicinamento e fece per andare da loro, ma i due uomini si girarono e Tony le fece cenno di fermarsi. Mentre i due la raggiungevano, suo marito aveva un’aria preoccupata.
Karla incrociò le braccia sul petto. «Cosa succede?»
«Non lo so esattamente» rispose Tony.
Kenneth si chinò nel boccaporto e urlò alla moglie.
«Prendi il fucile! Tienilo lì sotto con te, ma tieniti pronta a passarmelo.»
Judy comparve dal boccaporto. Fece per dire qualcosa, ma Kenneth la fermò con uno sguardo che doveva aver già visto altre volte, perché si morse le labbra finché non diventarono bianche.
«Cosa succede?» chiese di nuovo Karla.
Kenneth la ignorò e si chinò per aprire l’armadietto sotto la panchina del pozzetto di dritta; da lì estrasse una valigetta di plastica arancione che – come anche Karla sapeva – conteneva la pistola lanciarazzi. Da un’altra valigetta, più in fondo all’armadietto, recuperò poi un cilindro di metallo nero, che lasciò cadere nella culatta aperta della pistola. Al suo interno caricò un proiettile calibro .38. Con orrore di Karla, Kenneth mise quella pistola improvvisata nelle mani di Tony.
«Non farla vedere» lo avvertì Kenneth. «Ma se avrai bisogno di usarla, tira indietro il cane, mira al centro del bersaglio e premi il grilletto.»
Tony si leccò le labbra e annuì. Si infilò la pistola lanciarazzi sul retro dei pantaloncini e la coprì con la maglietta.
Karla scosse la testa. Adesso vedeva la barca da pesca dirigersi verso di loro, a meno di cento metri di distanza.
«Che diavolo…?» Si guardò intorno nel pozzetto alla ricerca del sarong colorato che usava per coprirsi quando doveva interagire con gli abitanti del luogo. L’avevano avvertita che alcuni locali molto devoti avrebbero storto il naso davanti al suo costume da bagno, considerandolo un vero e proprio simbolo del male. Così indossò il sarong e se lo legò dietro il collo, continuando a chiedere spiegazioni a Kenneth e al marito.
«Che cosa credete che vogliano?»
Tony si posizionò fra lei e la barca in avvicinamento. «Probabilmente vorranno soltanto venderci del pesce.»
«Allora perché le armi?»
Kenneth lanciò un’occhiata alle scalette che scendevano sottocoperta. Judy gli rivolse un cenno brusco del capo per fargli sapere che il fucile era dove lui voleva che fosse. Evidentemente avevano fatto delle esercitazioni.
«Perché loro hanno delle armi» disse Kenneth. «Molte armi.»
Karla rimase a bocca aperta. «Pensavo che fossimo a sud delle acque in cui sono attivi i pirati!» Ansimò, sentendo un peso così forte al petto che faceva fatica a respirare. «Mi avevate detto che sarebbe andato tutto bene se fossimo rimasti lontani dalle Filippine!»
Adesso gli uomini sulla barca stavano gridando, ordinando loro in un inglese sgrammaticato di abbassare le vele e fermarsi.
Tony prese la mano della moglie e la strinse forte.
«Non è colpa di Kenny» sussurrò.
«Ne conto sette» mormorò Kenneth. Li salutò con la mano, facendo un sorriso forzato quando la barca da pesca raggiunse il fianco della barca a vela, uguagliandone la velocità di sei nodi. Sfuggire al motoscafo era impensabile, persino adesso che erano poco carichi.
Gli uomini gridarono di nuovo, agitando in aria le armi. Stavolta nessuno gridò «Ehi, mister!».
Uno dei pirati, un ragazzo che non poteva avere più di quindici anni, sollevò un fucile e lo puntò su Karla. Tony mise subito mano alla pistola lanciarazzi, ma non aveva esperienza con quegli aggeggi. Era solo un venditore e, per quanto ne sapesse Karla, non sparava da anni. Vedendolo armeggiare con la maglietta, il ragazzo puntò il fucile su di lui e fece fuoco. La raffica di proiettili centrò il fianco della barca a vela e il petto di Tony Downs.
Karla emise un urlo lancinante vedendo il marito crollare in avanti, precipitando oltre il bordo dell’imbarcazione e cadendo in acqua. Il Lucky Strike lasciò rapidamente il corpo di Tony dietro di sé a galleggiare nelle acque verdazzurre che fino a un attimo prima erano state uno spettacolo di rara meraviglia.
Kenneth urlò e fece per prendere il fucile, ma quel tentativo gli fruttò solamente due proiettili nella schiena. Fece per girarsi ma cadde a terra, e la mano abbandonò la presa sul fucile; l’arma scivolò sul ponte verso il fianco della barca e precipitò in mare. Judy, armata di un grosso coltello da cucina e nascosta sottocoperta, fece cenno a Karla di raggiungerla, come se la minuscola barca potesse offrire un efficace nascondiglio.
Karla rimase impietrita quando un uomo con una maglietta blu e pantaloni cachi sporchi di olio afferrò una sbarra di metallo verticale e si issò al di sopra delle cime di salvataggio, saltando abilmente dal motoscafo di legno al Lucky Strike. L’uomo allentò le scotte per lasciare che sventolassero al vento. La barca rallentò immediatamente.
Altre persone cominciarono a salire sul Lucky Strike. Erano tutti giovani, con le barbe accennate dei ragazzi che cercavano invano di essere uomini. Ma avevano tutti un’arma e un’espressione piena d’odio, e puntavano entrambe verso Karla Downs. La donna corse oltre l’uomo con la maglietta blu, nel tentativo di raggiungere Judy sottocoperta. Qualunque destino la attendesse – la morte, o forse qualcosa di ancora peggio – non voleva essere sola. Un giovane uomo sudato fece per prenderla, ma l’uomo con la maglietta blu gli allontanò la mano, scuotendo la testa, e il ragazzo la lasciò andare.
Dovette saltare oltre il corpo di Kenneth per scendere le scalette, e sarebbe caduta se Judy non fosse stata lì a prenderla. La povera donna dovette guardare gli occhi senza vita del marito che la guardavano dall’alto; a ogni modo, riuscì chissà come a mantenere la calma.
Karla deglutì a fatica, cercando di riprendere fiato.
«Cosa…? Voglio dire, perché…?» Aveva gli occhi fissi verso la poppa, dove l’uomo con cui era sposata da quasi trent’anni era caduto in mare.
Judy guardò l’amica, cercando di trattenere le lacrime. «Mi dispiace da morire…»
«Che cosa vogliono quelli?»
La piccola donna mora raddrizzò le spalle e sospirò. Una lacrima le scese sul volto addolorato. «Un riscatto, immagino.»
Sul ponte del Lucky Strike, una giovane recluta della Jemaah Islamiyah si trovava di fianco al boccaporto, con un AK-47 ammaccato in grembo. Questa era la sua prima operazione, e il ragazzo era un fascio di nervi. Non faceva che mordersi le labbra screpolate.
«E se hanno un’altra arma, là sotto?»
Mamat scosse la testa. Stava facendo buio rapidamente, per fortuna: ciò avrebbe reso più semplice il loro lavoro. «Se così fosse ormai avrebbero già sparato.»
«Porto le due donne qui sul ponte?»
Mamat chiuse gli occhi, con l’uomo morto ai suoi piedi e la schiena poggiata contro la cabina. «Tra un po’» rispose. «Per adesso stanno facendo esattamente ciò che ci occorre che facciano.»
Accovacciandosi e allungando il collo, riuscì appena a sentire la voce tremante di una donna sussurrare alla radio.
«Mayday! Mayday! Qui è la barca a vela Lucky Strike. Siamo stati assaliti dai pirati! Ripeto, siamo stati assaliti dai pirati…»
La donna ripeté la richiesta di aiuto. La voce diventava sempre più stridula a ogni parola.
Alla fine, le parole che Mamat aveva sperato di sentire crepitarono alla radio fra le interferenze.
«Lucky Strike, qui è la nave Rogue della marina degli Stati Uniti…»