11

A meno di dieci chilometri dalla sede della task force CAC, Jack Ryan Junior si lasciò sprofondare sulla sedia al tavolo traballante, pensando a come avrebbe fatto a dimenticare quella triste scena che si stava svolgendo sul palco rialzato ad appena tre metri da lui, con il suo contorno di luci e di musica pulsante. Ordinò una seconda Corona a un’imbronciata cameriera ispanica. A differenza delle ballerine, che non avevano addosso che perizomi striminziti e strati sudati di brillantini, la cameriera indossava un minuscolo top, così piccolo che non avrebbe coperto nemmeno un tubetto di dentifricio, tantomeno il suo petto. Non che fossero luoghi d’alta classe, ma c’erano strip club e strip club. Quelle ragazze sembravano spaventosamente giovani, e Jack si sentiva sporco per il semplice fatto di essere nel raggio di trenta metri da loro. Stava facendo del suo meglio per sembrare un collegiale spensierato, ma lo strato appiccicoso di residui non ben identificati sul tavolo gli faceva desiderare di portare le maniche lunghe. L’odore leggermente acido del locale si fondeva al martellare dei bassi dalle casse dietro il palco; gli ricordava quelle tecniche di interrogatorio finalizzate a distrarre un sospettato, rendendogli difficile anche solo pensare.

Ryan era rivolto verso le ballerine, ma con la coda dell’occhio osservava il resto del locale, una gradita pausa dalla vista di quelle povere ragazze che facevano del loro meglio per apparire seducenti. Sapeva che Chavez stava facendo lo stesso con l’altro lato del locale, sorvegliando alcuni tavoli occupati dai tizi della triade nonché Ucci Ucci Ucci, sempre appostato accanto alla porta d’ingresso. Jack guardava soprattutto alla sua destra. Le luci stroboscopiche sul palco lasciavano al buio quell’area, ma riuscì a distinguere dei séparé chiusi da tende all’ombra del muro lontano, dove le ragazze si occupavano degli «accordi speciali». In fondo al palco, Eddie Feng era seduto accanto a un tipo ugualmente squallido della Tres Equis, e digitava sul suo iPad fra un sorso di Red Bull e l’altro.

Feng era l’esatto contrario del gigante all’ingresso. La sua carnagione pallida sembrava riflettere le luci intermittenti che provenivano dal palco. Come molte delle persone che Ryan aveva pedinato nel corso degli anni, quell’uomo non aveva niente di formidabile, tanto che chiamarlo «verme» sarebbe stato offensivo nei confronti di quegli esserini.

Oltre a digitare sull’iPad, Feng scriveva in un blocco appunti sul tavolo davanti a lui. Ryan non sapeva di preciso quali intenzioni avesse, sapeva solo che aveva una gran voglia di dare un’occhiata sia al blocco sia all’iPad.

Con la sua birra in mano, Ryan continuò a occhieggiare le ragazze sul palco, per non apparire fuori posto. Poi si sporse verso Chavez e parlò sotto voce, sperando che il microfono avrebbe trasmesso fedelmente quel sussurro al resto della squadra.

«Il nostro amico ha un tablet su cui vorrei mettere le mani.»

«Ogni cosa a suo tempo» disse Clark. «Avete l’impressione che sia protetto da qualcuno? Da quelli del cartello o della triade?»

Ryan si sforzò di non scuotere la testa in risposta alla domanda che gli arrivava dall’auricolare. «No» rispose, continuando a fissare il palco e inclinando la testa come se parlasse con Chavez. «C’è un ispanico al suo tavolo che cerca di chiacchierare con lui, ma sembra che tutti siano attenti a proteggere le ragazze.»

«Confermo» mormorò Chavez. «Scommetto che qui dentro ci sono abbastanza armi per un piccolo esercito.»

«Bene» rispose Clark. «Rimanete lì per un’altra mezz’ora. Fate un fischio se le cose si fanno intollerabili.»

Poi sentirono la voce di Adara, calma ma diretta. «A proposito di quel piccolo esercito, vedo otto agenti in borghese che vengono verso di voi. Sono mezzo isolato a sud. Scommetto che si tratta di federali, e non di agenti addestrati del controspionaggio. Si sforzano troppo di non dare nell’occhio.»

Jack annuì, come se muovesse la testa al ritmo dei bassi. Sapeva esattamente che cosa intendesse Adara. Spesso chi passava anni della propria carriera con armi grandi e pesanti nella fondina tendeva a camminare tenendole leggermente lontane dal corpo, anche quando passava a un’arma più piccola e facile da nascondere. Ci voleva pratica e concentrazione per riuscire a scrollarsi di dosso il peso dell’uniforme. Non bastava essere in borghese per non dare nell’occhio.

«Altri sei agenti da nord» intervenne Dom. «C’è una rossa a capo della squadra. È dell’FBI, senza dubbio. Ho visto il distintivo quando è scesa dall’auto. Immagino sia qualche tipo di task force.»

La voce di Clark era tesa, agitata. «Ding, Ryan, uscite subito dal retro. Non voglio che rimaniate coinvolti in un raid della polizia.»

«Ricevuto» disse Chavez, facendo cenno verso il corridoio buio sul retro dell’edificio. «Fammi strada, hermano, io ti seguo.»

Jack era già in piedi, ciondolando tra la fila di tavoli e il palco come se stesse cercando il bagno. Non era il tipo che fuggiva da uno scontro, ma farsi sorprendere in un posto simile avrebbe portato non pochi problemi a suo padre. Per non parlare del fatto che la conseguente esposizione mediatica avrebbe gravemente compromesso la sua possibilità di continuare a lavorare in incognito.

A ogni modo, alla fine del palco si girò verso Chavez, fermandosi di colpo. «E Ucci Ucci Ucci?»

Chavez brontolò qualcosa fra sé, essendo già arrivato alla stessa conclusione. «Farà del male a qualcuno.»

I due uomini lavoravano insieme da così tanto tempo che ormai sapevano in qualsiasi momento che cosa pensasse l’altro. Non volevano che le forze dell’ordine entrassero nel locale alla cieca, trovandosi davanti quel gigante armato. Gli agenti della task force alla fine avrebbero avuto la meglio, ma quasi sicuramente uno di loro sarebbe rimasto ferito, se non addirittura ucciso.

Ryan e Chavez presero una banconota da venti dollari a testa e si avvicinarono al palco. Le due ragazze stanche si abbassarono verso di loro, per permettere ai due uomini di mettere i soldi nei loro perizomi. Ora che potevano vederla bene, la ragazza più vicina a Jack sembrava ancora più piccola. Doveva essere appena un’adolescente, e forse era proprio quello il motivo per cui la polizia stava arrivando. Con una rapida occhiata alle spalle per assicurarsi che il gigante stesse guardando, Jack emise un fischio fortissimo, poi poggiò entrambe le mani sul palco come per salire a ballare con le ragazze. Anche se non sarebbe stato il primo a fare una cosa del genere in uno strip club, era esattamente quello che Ucci Ucci Ucci li aveva avvertiti di non fare. Non avevano pagato per quel privilegio.

Il gigante si alzò dallo sgabello accanto alla porta con sorprendente agilità. «¡Pendejo!» gridò sopra la musica pulsante. Si mosse pesantemente verso Ryan, con il collo taurino teso e la testa bassa, come volesse caricarlo.

Gli uomini estremamente grossi, per quanti pestaggi abbiano effettuato, in genere non hanno molta esperienza nel difendersi da chi contrattacca. Sfortunatamente per il buttafuori, Chavez e Ryan ne avevano da vendere.

Ryan prese un rotolo di banconote dalla tasca e le gettò sul palco, sperando che avrebbero impegnato le ragazze in qualcosa che non fosse prenderlo a calci in testa. Chavez scartò abilmente di lato quando il gigante gli passò accanto, spingendolo forte da dietro, facendolo andare più velocemente di quanto le sue gambe potessero reggerlo. Jack sorprese l’uomo mentre stava inciampando, lo afferrò per i capelli con entrambe le mani e gli spinse la fronte contro il bordo del palco. L’inerzia e la gravità fecero il resto. Il conseguente schianto dell’osso contro il legno esplose come un colpo di fucile. Ucci Ucci Ucci si accasciò sulla moquette sporca alla base del palco, gemendo, con entrambe le mani sulla fronte aperta per cercare di arrestare l’emorragia.

Chavez strattonò il braccio di Ryan. «Via, via!» disse senza voltarsi indietro.

Gli uomini del cartello più vicino ai due agenti del Campus erano seduti a un tavolo. Sbatterono le palpebre, increduli. Era impensabile che qualcuno potesse mandare al tappeto quel gigantesco buttafuori. Era successo tutto così rapidamente che ci misero qualche secondo per capire cosa avesse fatto quel ragazzino bianco con i capelli schiariti e la barba scura.

Ryan si voltò per correre ma si ritrovò davanti Eddie Feng, che adesso si era alzato in piedi, stringendo il tablet con le braccia incrociate. Il trambusto all’ingresso attirò l’attenzione del taiwanese verso la porta. Ryan sfruttò l’occasione per mettere una mano in tasca e poi allungarsi sotto il tavolo di Feng. Vi fissò il microfono GSM con un forte adesivo, e a quel punto fu libero di fuggire dal corridoio e uscire dalla porta sul retro, raggiungendo Chavez nel vicolo nello stesso momento in cui le forze dell’ordine si riversarono nel locale.

Quattordici membri della task force per i crimini contro i bambini entrarono dalle doppie porte due alla volta, muovendosi rapidamente per far spazio alle persone dietro di loro. Non avevano bussato né si erano annunciati, per cui non avevano pensato di dover coprire la porta sul retro. Con le pistole fuori delle fondine, si divisero le aree di responsabilità mentre si guardavano intorno alla ricerca di pericoli. Il Chicas Peligrosas era una bettola che aveva legami con il cartello, per cui era scontato che avrebbero trovato armi al suo interno. Joe Rice, il detective di Waxahachie, aveva suggerito di chiamare gli SWAT del dipartimento di polizia di Dallas. La Callahan si era rifiutata, anche se sapeva che probabilmente era la decisione più saggia. Voleva prendere Eddie Feng con le sue mani e subito, prima che avesse l’occasione di contattare un’altra bambina. Non aveva alcuna voglia di aspettare che quelli della SWAT si riunissero e si grattassero il culo mentre ideavano un piano.

Con il distintivo dell’FBI al collo, Kelsey Callahan puntò la pistola contro il bastardo più vicino della triade di Sun Yee On, ed emise un fischio stridulo per attirare l’attenzione di tutti. In quello stesso istante, l’agente speciale Olson spense la musica e accese le poche luci del locale. Calò un silenzio mortale.

I disgustosi membri della triade e del cartello si limitarono a sbattere le palpebre, osservando la task force come cani che studiano un pezzo di carne. Stavano cominciando a innervosirsi.

«Eddie Feng!» gridò la Callahan, facendo abbassare lo sguardo a un ossuto membro della triade cinese accanto al palco. Abbassò la voce leggermente, cercando di alleggerire la tensione. «Mi interessa soltanto Eddie Feng.»

Il membro della triade rilassò le spalle. Indicò con la testa di lato, verso un uomo con un fauxhawk, un tablet e una lattina di Red Bull in mano. Ai suoi piedi, riverso per terra, c’era un gigante con la faccia piena di sangue.

Due agenti della CAC si avvicinarono a Eddie Feng. Uno gli prese il tablet, mentre l’altro lo fece girare senza troppi complimenti e lo ammanettò. La Callahan continuò a osservare quel locale squallido. «Piano e con calma» disse; considerando quanto le batteva forte il cuore, la sua voce era sorprendentemente controllata. Dovette sforzarsi per concentrarsi sulle minacce e non sulle povere ragazze discinte sul palco. «Mani!» ordinò. «¡Manos! Voglio vederle in alto!»

Novanta secondi più tardi, diciassette furiosi membri della Sun Yee On e della Tres Equis erano seduti sul pavimento davanti al palco, con le mani dietro la schiena bloccate da manette di plastica. Il gigante era seduto scomposto in fondo alla fila, con il sangue che continuava a uscirgli da un brutto taglio alla fronte.

Uno degli agenti faceva la guardia a diciannove pistole sequestrate, adesso scariche e ammucchiate insieme a coltelli e altre armi, da catene a lucchetti per bicicletta.

La Callahan fece sedere Eddie Feng al suo tavolo, mentre due agenti donna della CAC portavano dei vestiti alle ballerine e le accompagnavano fuori per interrogarle nelle auto, lontano dagli occhi accusatori dei protettori. Due agenti si piazzarono all’ingresso e alla porta sul retro, mentre gli altri facevano da guardia o stavano davanti agli uomini allineati alla base del palco, controllando con il centralino della polizia di Dallas se ci fosse un mandato a loro carico.

La Callahan prese il tablet di Feng, passandolo a Olson. «Imbustiamolo prima che qualcuno possa ripulirlo.»

Olson mise una mano nella tasca della giacca e ne estrasse una busta nera di nylon, per inserirvi il tablet di Eddie Feng. La cosiddetta busta di Faraday era uno strumento usato dalla polizia scientifica per impedire al dispositivo di inviare o ricevere segnali che avrebbero potuto spegnerlo, formattarlo da remoto o informare una terza parte che era stato compromesso. I tecnici dell’FBI sarebbero stati in grado di dare un’occhiata più approfondita dopo averlo portato in una stanza protetta.

Feng, seduto al tavolo con le mani dietro la schiena, si guardava intorno come un animale in trappola. Lanciò un’occhiata alla busta nera per la schermatura elettronica e poi a Olson. «Non ce n’è bisogno. Diamine, è a malapena criptato.» Si sporse in avanti, con il petto contro il tavolo, come per confidarsi con Olson. «Dobbiamo andare da un’altra parte a parlare.»

«Lo faremo» disse la Callahan.

Feng si girò verso i membri della triade e del cartello. Ognuno di loro adesso stava guardando in cagnesco il taiwanese.

«Sul serio» disse Feng, «dovremmo andare.»

In una situazione normale la Callahan sarebbe stata d’accordo. Ma la tensione che si era palesata di punto in bianco tra Feng e gli altri le insinuò l’idea che temporeggiare per qualche altro minuto lo avrebbe infastidito in maniera produttiva. La task force aveva messo in sicurezza l’interno del Chicas Peligrosas, e alcune volanti del dipartimento di polizia di Dallas erano già arrivate sul davanti e sul retro del locale. Non c’era bisogno di preoccuparsi del perimetro esterno. L’interno era sufficientemente sicuro, e anche se la sua strategia non sortì risultati significativi, vedere quel piccolo bastardo agitarsi la rese un po’ più felice.

«Avete preso l’uomo sbagliato» sussurrò Feng con un forte accento straniero. «Io sono uno dei buoni.»

«Tu devi stare zitto» sbottò la Callahan. Feng era il classico tipo che avrebbe parlato, ma voleva spaventarlo per bene prima di leggergli i suoi diritti. Spesso, il modo migliore per riuscirci con le persone come lui era dir loro di non parlare.

Un asiatico con i capelli quasi rasati e tatuaggi che gli coprivano entrambe le braccia allungò il collo dal suo posto alla base del palco. Cominciò a gridare come un pazzo in cinese, con gli occhi spiritati e sputando dalle labbra tirate. Feng impallidì, spostandosi di lato sulla sedia per allontanarsi di qualche altro centimetro dal membro della triade. Un agente della task force spinse l’uomo tatuato con la punta dello stivale. Ma quello, invece di fare silenzio, si rotolò sul fianco, per poi rialzarsi in piedi. Continuando a gridare in cinese, cominciò ad avvicinarsi a Feng. Armstrong gli fece lo sgambetto e l’asiatico, con le mani dietro la schiena, cadde a terra di faccia.

All’improvviso Feng si alzò in piedi, e per poco non fece cadere il tavolo, ma la Callahan lo spinse di nuovo giù a sedere. Sembrava incredibilmente fragile, per cui non fu un grande sforzo.

Fece un cenno ad Armstrong e poi verso l’uomo della triade. «Portalo fuori di qui, Jermaine.» Guardò il resto della sua squadra. «Usate pure il taser sul prossimo pezzo di merda che osa anche solo muovere un muscolo senza il mio permesso.»

Olson sollevò il tablet nella busta nera, imperturbabile davanti a quel trambusto. «Qui dentro c’è ancora un po’ di quella roba?»

Feng sembrava scoraggiato. «Quale roba?»

Olson alzò le spalle, poggiandosi contro la sedia per strofinarsi gli occhi. «Registri di pagamento, forse? La maggior parte è in codice. La parola “coronet” viene menzionata una mezza dozzina di volte…»

«Shh» sibilò Feng con aria furibonda. «Non ne parlate qui!»

La Callahan guardò dietro a Olson. Sarebbero dovuti tornare all’ufficio per concentrarsi sui dati, ma quella era una faccenda grossa. Sapeva già che le triadi stavano gestendo ragazze minorenni, ma se si erano uniti a un ramo del cartello di Sinaloa, la situazione sarebbe cambiata completamente. Le informazioni sull’iPad di quell’uomo avrebbero potuto inchiodare un’importante organizzazione implicata nel traffico di esseri umani.

«Vi sto implorando» gemette Feng. «Portatemi fuori di qui.»

«Hai proprio una bella fretta di andare in prigione» disse la Callahan. «Fare sesso con una minorenne, Ed, non è una faccenda da poco qui in Texas. Nemmeno i tuoi compagni di prigione vanno molto d’accordo con chi stupra bambini.»

«Di che cosa sta parlando?»

La Callahan decise di giocare una delle sue carte. «Abbiamo una tua chiave USB

Feng sbiancò. «Come…?»

«Ci arriveremo.»

«Possiamo andare da qualche altra parte, agente…?»

«Agente speciale» lo corresse. «Callahan, FBI

«D’accordo, agente speciale Callahan» disse Feng, mordendosi il labbro inferiore tremante. Era diventato inespressivo, e quel che diceva si sentiva a malapena. «C’è ben più di quanto vi rendiate conto. Portatemi in un luogo sicuro. Prometto di dirvi tutto quello che so.»

Ryan e Chavez trasferirono la Dodge in un parcheggio dietro un magazzino abbandonato a tre isolati dal Chicas Peligrosas. John Clark e gli altri si erano sparpagliati in punti diversi del quartiere. Il microfono GSM trasmetteva sulla rete cellulare, per cui non c’era bisogno di stare più vicini, con il rischio di farsi sorprendere dagli agenti della task force.

Chavez fece un cenno a Ryan durante una pausa nella conversazione. «Immagino che questo Feng sia un pesce grosso, dopotutto. Mi dispiace di aver dubitato di te, Jack.»

Ryan inarcò un sopracciglio, sorridendo compiaciuto. «Aspetta, hai dubitato di me?»

Feng ricominciò a parlare. Sembrava sul punto di mettersi a piangere.

«… seriamente» stava dicendo. «Deve promettermi che mi proteggerà

«Posso farlo» rispose l’agente Callahan. «Ma perché dovrei?»

Chavez fece una smorfia e sussurrò: «Crudele. Mi piace».

Feng insistette per essere portato da un’altra parte. La Callahan continuava a fare la dura, ricordandogli in che guai fosse per aver favoreggiato la prostituzione minorile.

Poi gli agenti del Campus sentirono la voce di Clark negli auricolari, tesa e affaticata. «Dom, immagino tu abbia le tue credenziali dell’FBI

«Non esco mai di casa senza, capo» rispose Caruso.

Ufficialmente assegnato a un «servizio non specificato», Dominic Caruso manteneva il grado di agente speciale del Federal Bureau of Investigation. Per questo, spesso era l’unico membro del Campus che poteva viaggiare armato in tutti e cinquanta gli Stati del territorio americano, anche se non lasciavano che una cosa così insignificante impedisse loro di portarsi sempre dietro un’arma. Molte delle operazioni che svolgevano all’estero erano, in effetti, illegali. Era così che funzionava il controspionaggio. Il fatto che un governo autorizzasse un’azione non la rendeva legale in un altro Paese, per quanto potesse essere morale o giusta.

Clark andò avanti. «Il traffico di esseri umani è già abbastanza rivoltante di per sé, ma qui c’è qualcos’altro sotto. Eddie Feng è un pezzo di merda, ma sa qualcosa, come ha scoperto Jack riguardo all’attacco dinamitardo alla metropolitana di Pechino. Dobbiamo capire che cosa sa. Dom, dico a Gerry di darsi un po’ da fare con il Bureau in modo da farti inserire nelle indagini dell’agente speciale Callahan. Stalle vicino e scopri che cosa sa. Noi intanto ci allontaneremo un po’ e faremo altre ricerche su questa scellerata unione tra la triade Sun Yee On e gli uomini della Tres Equis.»

«Ricevuto» rispose Caruso. «Li seguirò a distanza di sicurezza quando usciranno, e poi mi presenterò all’agente speciale Callahan fra un’oretta.»

«Così dovrei avere tempo a sufficienza» disse Clark. «Ti faccio sapere.»

Alla radio, la voce di Feng era passata dai toni del lamento a quelli della minaccia. «Se non mi portate via di qui, dovrò chiedere un avvocato.»

«Se lo fai» rispose la Callahan, «vediamo che genere di protezione avrai

«Ascolti.» Feng stava singhiozzando di nuovo. «Non dicevo sul serio riguardo all’avvocato. Mettetemi in isolamento e basta. Questi animali mi faranno a pezzi dopo cinque minuti se mi mettete nell’area comune. Ve lo giuro, vi dirò tutto ciò che so.»

Si sentì la voce di un agente maschio. «Inclusi tutti i codici che stai usando?»

«Sì.» Altri singhiozzi.

«E il significato di tutti i numeri nel foglio di calcolo?»

«Sì!»

«E a chi corrispondono?»

«Se lo so, sì.»

«E “coronet”?» domandò la voce maschile. «Chi o cosa è?»

«Ma vi manca qualche rotella?» Feng parlò così piano che il microfono GSM riuscì a captare appena le sue parole. «Ho detto che ve lo dirò, ma dovete portarmi via di qui.»

«Allora diccelo» disse la Callahan. «In segno di buona fede

«D’accordo» sussurrò Feng. «Questo tizio, Coronet, credo che sia una spia.»

L’uomo con la Santa Muerte tatuata sul collo era seduto lungo la strada del Chicas Peligrosas a bordo del suo pick-up S-10 del 1994. Strinse i denti, scoloriti da anni passati a fumare sigarette rollate a mano. Si chiamava Javier Goya, ma tutti lo chiamavano Moco. A ventinove anni, aveva passato più di un terzo della sua vita dietro le sbarre, e dopo l’ultima volta aveva deciso che non ci sarebbe più tornato. Non riusciva a tenere le gambe ferme, facendo tremare il veicolo e guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Gusano, l’uomo seduto accanto a lui.

«Lo so di cos’hai bisogno. Devi fumare un po’ d’erba» disse Gusano.

«Sta’ zitto, cabrón» sbottò Moco, consapevole che il suo compagno aveva ragione. Una volta Gusano aveva mangiato un verme per scommessa, guadagnandosi quel soprannome, e Moco lo riteneva tanto intelligente quanto quelle creature viscide.

Moco sbatté il pugno sul volante, facendo cadere della polvere dal rivestimento sul tetto del pick-up. Doveva essere il figlio di puttana più fortunato al mondo.

Il tatuaggio – lo scheletro di una figura femminile che portava una falce, con delle dita ossute che invitavano l’osservatore ad avvicinarsi – se lo era fatto fare nel carcere Eastham Unit di Huntsville. Il tizio che controllava il suo blocco di celle aveva suggerito il disegno – a patto che Moco fosse pronto a tutto ciò che ne conseguiva – e lo aveva mandato da un altro uomo che lavorava nella cucina. Si trattava di un vecchio pazzo messicano di Reynosa, che usava un inchiostro fatto con la fuliggine ricavata dalla combustione di olio idratante per bambini e pagine della Bibbia.

Quell’inchiostro doveva essere davvero potente, perché la Santa Muerte aveva protetto Moco diverse volte nel corso degli anni, salvo i cinque anni che aveva scontato a Darrington dopo aver venduto un po’ di eroina – della varietà «catrame nero» – a un poliziotto sotto copertura a Bridgeport, Texas. Lo Stato era particolarmente severo con i reati legati al narcotraffico. Tuttavia, in quei cinque anni non lo aveva pugnalato nessuno, una cosa non da niente in una prigione violenta come quella di Darrington.

E la Santa Muerte si stava prendendo cura di lui anche quel giorno. Inizialmente si era infuriato quando il suo pick-up si era guastato, ma se non si fosse rotto l’alternatore, lui e Gusano sarebbero stati dentro il Chicas Peligrosas all’arrivo dei federali, rischiando di finire di nuovo dentro, il che voleva dire che avrebbe dovuto regolare i conti a colpi di pistola, andando probabilmente incontro alla morte. Ma non era successo, grazie alla Santa Muerte.

Adesso stava guardando i suoi amici che venivano scortati uno dopo l’altro fuori dal locale di spogliarelli, ammanettati dietro la schiena, e fatti salire sulle volanti. Un ispanico alto e una rossa che sembrava infuriata, entrambi con le giacche dell’FBI, uscirono per ultimi, scortando quel coglione di Eddie Feng. Moco non si era mai fidato di lui. Non faceva che ficcare il naso dappertutto, pagando un sacco di soldi per ragazze che non valevano un centesimo, e facendo domande su cose che non lo riguardavano. In un modo o nell’altro, se l’era andata a cercare.

Moco scattò con il cellulare quante più fotografie possibile ai poliziotti, prestando particolare attenzione a quelli dell’FBI. La stronza con i capelli ricci era a capo della squadra: lo capiva dal modo in cui camminava, tutta impettita e a testa alta. Goya odiava le donne come lei, così come le odiava il suo capo. Oh, sì, il patrón sarebbe stato molto interessato a lei. Moco sorrise al pensiero di quello che le avrebbero fatto.

Il capo aveva dei metodi molto speciali per occuparsi di quelle stronze che gli mettevano i bastoni fra le ruote.

Potere e impero
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