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L’operatrice del Vessel Traffic Service di Seattle, la sottufficiale di terza classe Barb Pennington, appoggiò la schiena contro la sedia girevole, guardando le linee punteggiate del traffico marittimo sui sei schermi a colori che sovrastavano la sua postazione di lavoro. Era tardi, e aveva appena preso un sorso di caffè quando sentì un crepitio nelle cuffie, seguito dal suono di una voce terrorizzata. Si sporse subito in avanti, come se avvicinarsi ai monitor potesse aiutarla a sentire meglio.

«La portacontainer cinese Orion ha segnalato un uomo in mare, capo» disse al suo supervisore. «L’AIS la localizza tre chilometri a ovest di Pillar Point. Ho parlato con il capitano all’1:14 quando ha superato il 124°. Adesso sembra che ci sia un’altra persona alla radio. Sono riuscita a farla passare sul canale sedici, ma non risponde alle mie domande.»

Il supervisore annuì. «Uomo in mare. Capito.» Passò la chiamata all’ufficiale capo del Joint Harbor Operations Center, dall’altro lato della parete di vetro smerigliato.

L’ufficiale capo George Rodriguez ordinò a Sally Fry, una specialista dell’unità operativa, di monitorare la chiamata tramite Rescue 21, un programma avanzato di tipo C4 (calcolo, comando, controllo e comunicazioni). Rescue 21 usava una serie di torri fisse per localizzare la nave a ogni sua trasmissione, restituendone la linea di posizione su una carta nautica digitale. Nel migliore dei casi, le trasmissioni «agganciavano» più torri e si poteva dunque procedere all’operazione di salvataggio, ma anche una sola torre poteva bastare a individuare la linea di posizione della nave in pericolo.

Con voce calma ma autoritaria, nonostante il grado subalterno e i suoi ventitré anni, la sottufficiale Fry iniziò a comunicare con il giovane all’altro capo della linea, che tuttavia non diceva altro che «Uomo in mare» e «Vi prego aiutare».

Sia l’operatrice dello stretto sia la specialista del centro operativo erano donne, e il passaggio fu così fluido che la persona che stava chiedendo soccorso non si accorse nemmeno di aver parlato prima con il Vessel Traffic Service e poco dopo con l’unità operativa del Joint Harbor Operations Center.

Un orologio marcatempo si attivò non appena il sottufficiale capo fu informato della richiesta di soccorso. Rodriguez annuì alla specialista dell’unità operativa, che ricambiò il cenno, per far sapere al suo superiore che aveva già sottoposto le specifiche del caso al SAROPS, il sistema di pianificazione ottimale delle operazioni di ricerca e soccorso. Tra gli svariati fattori che il SAROPS prendeva in considerazione c’erano la direzione della nave prima della richiesta di soccorso, l’attuale velocità del vento e le correnti marine, creando una stima della posizione al momento dell’arrivo dei mezzi di soccorso.

Poi Rodriguez si mise in contatto con la base aerea della guardia costiera di Port Angeles, e ordinò alla squadra di soccorso B-Zero di partire con l’elicottero disponibile verso la Orion. Dall’esterno qualcuno poteva pensare che la chiamata fosse avvenuta simultaneamente alle altre azioni, e non avrebbe sbagliato più di tanto. Rodriguez aveva l’autorità di inviare risorse ancor prima di informare il suo superiore, il coordinatore delle missioni di ricerca e salvataggio, che aveva messo le cose in chiaro più volte. Quando si trattava di SAR, la prima risposta della guardia costiera degli Stati Uniti era «andare sul posto».

L’ufficiale inferiore alla base aerea di Port Angeles rispose al primo squillo. Rodriguez gli riferì le informazioni, lui le ripeté, poi riattaccò e chiamò l’interno dell’ufficiale superiore, il tenente comandante Andrew Slaznik, primo pilota dell’elicottero della squadra di soccorso B-Zero.

Negli Stati Uniti, ogni base aerea della guardia costiera aveva sempre almeno un’unità B-Zero in servizio. I membri dell’unità dormivano accanto all’aviorimessa, ed erano pronti a intervenire in meno di trenta minuti. Ogni ufficiale superiore era fatto a proprio modo, e l’ufficiale in servizio quella notte preferiva essere contattato ancor prima che venisse lanciato l’allarme di ricerca e soccorso.

Malgrado l’ora, l’ufficiale rispose rapidamente. «Sono Slaznik» disse con la voce impastata di sonno. I piloti erano abituati a quelle chiamate in piena notte. Il tenente comandante Slaznik sembrava vivere nell’attesa di quelle telefonate.

L’ufficiale inferiore riferì le scarne informazioni sulla richiesta di soccorso per uomo in mare della Orion, e Slaznik le ripeté per assicurare all’interlocutore di essere sveglio e reattivo.

«Convoco subito il resto della squadra» aggiunse Slaznik prima di riagganciare.

Un istante dopo fu attivato l’allarme SAR, la cui sirena destò la copilota, la tenente Becky Crumb, da un sonno profondo nella stanza accanto. Per essere sicuro che avesse sentito l’allarme, Slaznik la chiamò al cellulare e, imitando Arnold Schwarzenegger nel film Predator, disse: «Vai all’elicottero!».

Il tecnico di volo e l’aerosoccorritore dormivano più vicino all’aviorimessa e all’allarme.

Slaznik si lavò il viso con l’acqua fredda e si sistemò i capelli scompigliati. Si mise a sedere sul bordo della branda, prese il suo iPad e avviò il programma di Electronic Flight Bag per consultare il meteo locale e gli avvisi agli aviatori: le notizie parlavano di raffiche di vento a quaranta nodi e di pioggia intensa sull’area dello stretto. Slaznik sbuffò. Da pilota di elicottero, non aveva paura di volare con il vento, anzi il vento agevolava il volo a punto fisso quando il velivolo era pesante; però creava problemi con il verricello e complicava le operazioni per l’aerosoccorritore, il quale nel loro caso era un ragazzo senza esperienza, che aveva appena finito le tredici settimane di addestramento. Alcune ore prima erano stati chiamati al Tacoma Narrows Bridge per recuperare un tizio che si era buttato nel canale, ma al loro arrivo i locali avevano già ripescato il corpo, per cui non si poteva parlare di un vero intervento. Certo, il ragazzo si era comportato bene, aveva fatto le domande giuste durante il confronto aperto sulla gestione delle risorse dell’equipaggio che Slaznik incoraggiava a ogni missione, ma stavolta sarebbe stato diverso. Il ragazzo si sarebbe bagnato. Il tempo non era dei migliori, ma almeno si sarebbe fatto le ossa con una semplice operazione di uomo in mare.

Il ricordo delle sue esperienze dirette nell’acqua gelida spinse l’ufficiale superiore ad affrettarsi nella sua routine. Chi cade da una nave raramente indossa indumenti protettivi, e ciò riduce drasticamente la finestra temporale per il salvataggio.

Slaznik avrebbe controllato il meteo una seconda volta, prima del decollo. Quando alla base aerea le condizioni erano incerte, spesso la situazione era ben peggiore nell’area a ovest dello stretto. Premette un pulsante per le chiamate rapide per fare la sua prima telefonata al comandante della squadriglia operativa, tenendo il cellulare all’orecchio con la spalla mentre indossava la tuta stagna Switlik.

Era una cosa sciocca, e non lo aveva mai confessato a nessuno se non a sua moglie, ma gli piaceva quella tuta arancione; indossarla insieme al giubbotto salvagente nero gli dava l’impressione di essere un supereroe. Non era un problema svegliarsi nel bel mezzo della notte. Come diceva suo figlio di cinque anni, era proprio allora che c’era bisogno dei supereroi.

Andy Slaznik sapeva che sarebbe diventato un pilota da quando aveva visto per la prima volta un aereo agricolo sganciare un marcatore presso un enorme campo di colza nella fattoria di suo nonno. Aveva nove anni ed era andato con la famiglia a far visita ai genitori di sua madre, nella provincia canadese dell’Alberta. Il velivolo, un Piper Pawnee Brave, gli era sembrato così vicino da poterlo quasi toccare.

Andy aveva implorato suo nonno di accompagnarlo alla biblioteca della città più vicina – Lethbridge, a un’ora di distanza – e aveva preso quanti più libri sull’aviazione le sue esili braccia potessero sorreggere, divorandoli tutti in soli tre giorni. Una volta ritornato a Boise, nell’Idaho, aveva iniziato a trasformare la sua cameretta in una galleria di modellini di plastica, e ad annoiare tutti gli amici con ogni minimo dettaglio di quegli aerei che pendevano dal soffitto mediante pezzi di filo da cucito.

Grazie a una straordinaria memoria e a una predisposizione naturale per la matematica aveva ottenuto un punteggio SAT di 1464 su 1600. A metà del terzo anno aveva iniziato il lungo iter di candidatura per l’Accademia dell’aviazione militare e anche per l’Accademia militare di West Point. Grazie alla sua media scolastica, all’elevato punteggio SAT e a un tempo inferiore ai due minuti negli ottocento metri piani, già quell’estate aveva potuto partecipare ai corsi settimanali di entrambe le accademie.

Guardando i voti del ragazzo, un ufficiale della vicina base aerea di Mountain Home lo aveva spinto a puntare sull’aviazione militare. Una tutor scolastica, invece, gli aveva dapprima suggerito di prendere in considerazione l’Accademia della guardia costiera che, avendo classi più piccole, era considerata più selettiva; ma un attimo dopo, ripensandoci, gliel’aveva sconsigliato, spiegando che avrebbe dovuto lavorare moltissimo, a fronte delle scarse probabilità di essere ammesso.

Quella sfida, data la natura competitiva di Andrew, lo aveva subito affascinato. Gli piaceva dimostrare di poter eccellere nelle cose difficili. Sapeva che la marina militare e la guardia costiera avevano degli aerei, e alcuni piloti di prim’ordine, ma avevano anche molte imbarcazioni. A Andrew quelle non interessavano. Lui voleva volare. E l’ufficiale di Mountain Home continuava a ricordargli che, se voleva diventare un astronauta, doveva cominciare dall’aviazione militare.

Alla fine, però, la sfida lanciata dalla tutor aveva avuto la meglio, e Andrew Slaznik era finito a New London, nel Connecticut, per seguire il programma estivo da una settimana dell’Accademia della guardia costiera. In un’aula con altri trentaquattro aspiranti cadetti, si era ritrovato ad ascoltare diversi veterani che rispondevano alle domande sul proprio lavoro. Il confronto era di certo istruttivo, ma era troppo incentrato sulle barche, e Andrew si era trovato a vagare con la mente, pensando a quanto sarebbe stato fico dire ai suoi amici che era un astronauta.

Poi, però, aveva preso la parola un pilota di elicotteri MH-65 Dolphin, un uomo allampanato e con i capelli rossi. Era l’ultimo della serata e, ripensandoci adesso, Andrew non faticava a capire perché: nessuno degli altri veterani avrebbe voluto parlare dopo di lui. Il pilota aveva intrattenuto i ragazzi entusiasti con storie di venti violenti e voli notturni su mari in burrasca. A sentire i suoi racconti, sembrava che non passasse giorno senza qualche pericolosa avventura.

Era stato Andrew a rivolgergli l’ultima domanda della serata, ma persino in quel momento aveva sentito la mente vagare, chiedendosi che cosa avrebbe potuto offrirgli di meglio il campus dell’aeronautica di Colorado Springs. Da quelle parti dovevano esserci centinaia di piloti che avevano vissuto esperienze come quelle del tizio con i capelli rossi.

Andrew si alzò per fare la domanda. «Signore, quante persone ha salvato nel corso della sua carriera?»

Il pilota era un tenente comandante. Probabilmente aveva poco più di trent’anni, e gliene mancava ancora qualcuno prima di diventare comandante, quando sarebbe stato costretto ad andare alla scuola di specializzazione e rimanere seduto a una scrivania invece di pilotare un elicottero. L’ufficiale aveva ascoltato la domanda, poi aveva appoggiato la schiena alla sedia e si era messo a guardare il soffitto, muovendo le dita come se stesse contando.

«Intendi dire quanti pensionati con intossicazione alimentare ho tirato fuori da una nave da crociera» aveva poi chiesto a Andrew «o quante persone ho letteralmente strappato dalle grinfie di una morte in acqua?»

Gli aspiranti cadetti ridacchiarono.

«Diciamo quante persone ha strappato dalle grinfie della morte» aveva risposto Andrew, pensando di aver toccato un nervo scoperto.

Il pilota aveva alzato le spalle con fare modesto. «Trentasette.»

Sulla stanza era calato un silenzio di tomba.

Andrew Slaznik era poi tornato a Boise dove, quello stesso anno, aveva ricevuto le nomine sia per Colorado Springs sia per West Point. Era stato accettato formalmente da entrambe le accademie. La prima gli aveva subito inviato una lettera per esortarlo a non considerare altre offerte. Tuttavia, cinque settimane dopo essersi diplomato, e con grande rammarico da parte dell’ufficiale di Mountain Home, i suoi genitori lo avevano condotto a New London per la giornata di presentazione all’Accademia della guardia costiera, il cosiddetto Reporting Day (o R-Day).

Il cadetto Slaznik aveva memorizzato fino all’ultima parola di Reef Points, la bibbia tascabile dei cadetti della guardia costiera, e con fatica aveva superato le prime sette terribili settimane di addestramento, note come Swab Summer. Per il resto del primo anno aveva arrancato, ma di lì a quattro anni aveva imparato a non essere più uno sciocco presuntuoso, e aveva concluso gli studi con il terzo voto più alto dell’istituto. Al termine dell’accademia poteva vantare una laurea in ingegneria meccanica, e una discreta tolleranza verso barche e veicoli affini.

Con nuove spalline sull’uniforme, i brillanti risultati di Slaznik gli avevano permesso di accedere alla scuola di volo e, dopo una serie di rigorosi test fisici e un colloquio approfondito – durante il quale gli investigatori dell’Ufficio per la gestione del personale gli avevano domandato, con assoluta serietà, se la famiglia di sua madre lo avesse mai istigato a fare da spia per conto del Canada – era stato abilitato a seguire l’addestramento per piloti di elicotteri alla base aerea navale di Pensacola. Aveva poi completato la sua formazione alla base della guardia costiera di Mobile, nell’Alabama.

Ancora adesso, il tenente comandante Andrew Slaznik aveva i brividi ogni volta che andava tutto impettito verso il suo MH-65 Dolphin, perché erano poche le settimane in cui non aveva l’occasione di strappare qualcuno dalle fauci della morte.

Potere e impero
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