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L’appartamento di Yukiko si trovava al quarto piano di un edificio di mattoni, vecchio ma ordinato, situato un isolato e mezzo a nordest dal Palacio Duhau Hyatt, dove soggiornava il ministro degli Esteri cinese. La scorta personale di Li e la polizia cittadina di Buenos Aires avevano bloccato entrambe le estremità di Avenida Alvear davanti all’albergo e di Posadas sul retro, costringendo i membri del Campus a raggiungere l’appartamento della giapponese passando da Avenida Libertador. Dall’altro lato di quella strada c’era lo scalo di smistamento; cinquecento metri più avanti c’era la favela di Villa 31 e, presumibilmente, la piccola banda criminale di Vincent Chen.

Lungo il tragitto Chavez chiamò John Clark, chiedendogli di controllare tra i suoi contatti nell’intelligence giapponese se qualcuno poteva confermare l’identità di una certa Monzaki Yukiko. Arrivarono davanti all’edificio quando ancora stava aspettando che Clark lo richiamasse.

Il piccolo ascensore era antiquato, e per partire occorreva aver prima chiuso a mano un cancello a fisarmonica e una porta di legno. La cabina poteva contenere al massimo quattro persone, per cui Chavez, Ryan e Adara si strinsero insieme all’agente della Kōanchōsa-chō, mentre Midas fece le scale.

L’ascensore salì lentamente con il peso di quattro passeggeri, e l’ex comandante della Delta era appoggiato contro il muro del corridoio quando Jack aprì la porta della cabina.

«Sei da sola?» domandò Chavez di nuovo.

Yukiko sollevò il mignolo, piegandolo a uncino. «Yubikiri. Lo giuro.»

Midas e Adara entrarono per primi, controllando l’interno prima di far entrare gli altri.

«Immagino che tu non avessi davvero compagnia» disse quando tornò alla porta. «Sei disordinata quanto il mio giovane amico.»

Il telefono di Chavez squillò. Ding rispose, annuì diverse volte, e poi fece cenno a Yukiko di alzare la mano destra e di estendere il pollice. La donna fece come richiesto, rivelando una cicatrice a mezzaluna sulla piega interdigitale.

«Sembra che sia proprio lei» disse Chavez. «Grazie, Mr C.»

Yukiko sorrise. «Mr C? Mio padre conosceva un uomo di nome John che a volte veniva chiamato in quel modo.»

Chavez fece l’occhiolino agli altri membri del gruppo. «È quello che ha detto Mr C.»

Era necessaria più di una telefonata per essere completamente accettata, ma il fatto che John Clark, a quanto sembrava, conoscesse suo padre metteva Monzaki Yukiko sulla buona strada. Spesso la comunità d’intelligence si rivelava un mondo intergenerazionale, con i figli che seguivano le orme dei genitori. A volte un nulla osta sicurezza era più facile da ottenere quando un parente era già stato esaminato a fondo durante un controllo dei precedenti personali.

Finalmente libera di muoversi come voleva senza il timore che gli altri le sparassero, Yukiko recuperò subito un cellulare da una borsa sul comò e si connesse a quella che presumibilmente era una microspia GSM, simile a quelle che gli agenti del Campus usavano frequentemente.

Erano tutti abituati alla noia di dover monitorare una microspia, per cui si misero comodi nel monolocale. Yukiko si mise a sedere su un piccolo divano accanto a Adara, tenendo i gomiti sulle ginocchia. Midas e Ding si sistemarono su due poltrone coperte di cuscini, mentre Jack si accomodò sul bordo del letto rifatto alla bell’e meglio.

Il dispositivo era attivo, e trasmetteva il rumore di piatti e posate, e di qualcuno che ruttava.

«Cucina?» domandò Adara.

Yukiko annuì. «Il microfono è proprio sulla finestra. Il vetro sottile ci permette di sentire bene i rumori all’interno. C’è un grande tavolo più o meno a un metro e mezzo dal muro. Se Chen tiene una riunione, è probabile che sarà a quel tavolo.»

Jack si passò una mano sui capelli. «Non capisco, Yukiko. Qual è la connessione con il Giappone?»

«Ti prego, chiamami Yuki. È un’ottima domanda. Avete mai sentito parlare della Chongryon?»

«Sembra coreano» disse Jack.

Chavez annuì. «Non è il ramo politico della Corea del Nord in Giappone?»

«Esattamente» confermò Yukiko. «La mia organizzazione ha collegato membri della Chongryon ad atti di spionaggio in Giappone. Kim Soo, una donna coreana con forti legami con questo gruppo, è una delle numerose amanti di Vincent Chen. A quanto ho scoperto, Chen ha molti contatti donna in giro per il mondo; in questo caso si tratta di Amanda Salazar. È piuttosto affascinante, ma unire lavoro e piacere alla fine sarà la sua rovina. Non sarei stata a conoscenza di Vincent Chen se avesse avuto gusti migliori in fatto di donne.»

Midas fece un respiro profondo. «Non è un bell’argomento da sollevare, ma ha conseguenze sulla sicurezza dell’operazione. Se adesso vogliamo collaborare, dobbiamo sapere della bionda che è stata uccisa.»

Yuki inclinò la testa di lato, con espressione neutra. «Anche Beatriz Campos era del Paraguay. È… era una nota assassina e terrorista, già condannata in contumacia per l’omicidio di due uomini d’affari giapponesi durante un viaggio in Perù. La mia organizzazione ritiene che Kim Soo sia complice di un complotto volto a ostacolare l’imminente G20. Mi hanno mandato qui per seguirla e raccogliere qualsiasi informazione utile. I sospetti contro Kim sono solo sospetti, appunto, ma le prove contro Beatriz Campos sono incontrovertibili. Non avevo idea di trovarla qui ma, quando l’ho scoperto, ho semplicemente colto la palla al balzo…»

«Per cui te ne vai in giro con un fucile silenziato calibro .22?» insistette Midas.

«Un’altra ottima domanda. Ci dev’essere fiducia reciproca se dobbiamo lavorare insieme. Se le informazioni su Kim raggiungessero certi standard, contatterei i miei superiori, e poi procederei in base agli ordini, che potrebbero comprendere l’utilizzo di un fucile.» Yuki alzò le spalle. «Il vostro Paese ha messo i volti di certi… bersagli d’alto livello sulle carte da gioco.»

Gli americani annuirono.

«Bersagli, appunto» disse Midas.

«D’alto livello, appunto. Beatriz Campos non era il nostro asso di picche. Ma era senz’altro un asso.»

A meno di seicento metri di distanza, al Palacio Duhau Hyatt, il ministro Li era sdraiato a piedi e torso nudi su una duchesse brisée di velluto blu, con le gambe distese su un cuscino sopra il lungo poggiapiedi. La stanza aveva uno stile neoclassico francese, con i mobili con le zampe di leone, poltrone elaborate e la chaise longue in stile «duchessa rotta», dove Li si stava sottoponendo a una visita approfondita. L’occhialuto dottor Ren stava usando un paio di pinzette per togliere schegge di legno e cartongesso dalla spalla del ministro.

Non si sarebbe ferito affatto se quell’idiota di una paraguaiana non fosse stata così lenta a far esplodere la bomba. La sua stupidità l’avrebbe fatto infuriare, d’altro canto quelle piccole ferite non facevano altro che ingigantire la storia del vile attentato alla sua vita. La morte di uno dei membri della sua scorta e il ferimento di un altro avrebbero dovuto essere sufficienti, ma si gioca sempre con le carte che ci vengono date.

Il cellulare di Li cominciò a squillare sopra l’ornato tavolino di vetro ai piedi della duchesse brisée. Lanciò un’occhiata a Long Yun, che guardò il numero e prese il telefono, ma senza rispondere.

«La signora Li.»

Il ministro degli Esteri annuì e tese la mano, portando il dottore a pugnalarlo con le pinzette. Li inveì contro quell’idiota e lo allontanò con la mano, ordinandogli di uscire dalla stanza prima di prendere il telefono.

«Wei, xingan baobei» disse, ovvero: «ciao, tesoro». «No, sto bene. Qualche piccolo graffio, tutto qui. No, no, davvero. Sto bene… Per favore, di’ a nostro figlio di non preoccuparsi. Dev’essere coraggioso e prendersi cura di sua madre…»

A breve i giornalisti di Xinhua – che facevano capo direttamente al dipartimento di Propaganda del segretario Deng – avrebbero parlato con la signora Li. Il ministro degli Esteri conosceva abbastanza sua moglie da essere sicuro che avrebbe citato le parole del suo altruistico marito che, sebbene ferito in terra straniera, aveva esortato loro figlio a «essere coraggioso e prendersi cura di sua madre». Si sentì in colpa per aver usato la sua famiglia così crudelmente, ma la sensazione passò in fretta. Erano necessarie azioni drastiche per la sopravvivenza del partito, forse persino della Cina stessa.

«Sì, mia cara, si stanno prendendo cura di me. Sarò a casa presto. Sì, amore mio. Adesso devo salutarti.»

In realtà non fu lui a terminare davvero la chiamata. Sarebbe stata un’azione disastrosa. Persino un uomo potente quanto il ministro degli Esteri cinese sapeva che doveva essere la moglie a farlo. Quando alla fine riagganciò, Li passò il telefono a Long Yun.

L’ufficiale dell’Ufficio di sicurezza centrale lo posò sul tavolino.

«Andremo avanti, signor ministro?»

«Certo. Perché non dovremmo? Sto bene. Abbiamo fatto troppa strada per fermarci adesso.»

Il colonnello Long fece un cenno con la testa verso un televisore a schermo piatto dall’altra parte della stanza. Era stato tolto il volume, ma le immagini mostravano il vortice bianco di un tifone su una grande mappa che includeva Taiwan, Giappone e Mar Cinese Orientale.

«Il tifone si sta dirigendo verso nord adesso» disse Long. «Potrebbe essere un problema se raggiunge il Giappone.»

«Sciocchezze. Mancano ancora alcuni giorni al vertice. Succederanno molte cose da oggi ad allora. Adesso di’ a quella zucca vuota di un dottore di tornare qui.»

Li sapeva benissimo che un’infinità di cose potevano andare storte nel suo piano: quel tifone, la persona sconosciuta che aveva sparato alla bionda connazionale di Amanda, o i sottoposti lenti nel compiere il proprio dovere. All’improvviso il presidente Zhao avrebbe potuto accorgersi che Li non era affatto il suo miglior amico. No, quello no: era troppo ottuso per rendersene conto. E anche se Zhao fosse arrivato a quella conclusione, avrebbe dovuto farsi crescere un paio di testicoli prima di poter fare qualcosa al riguardo. Forse a quel punto il presidente degli Stati Uniti avrebbe già usato la sua famosa «dottrina Ryan» per mettere fine a Zhao e alla sua caccia alle streghe nei confronti di chiunque avesse mostrato un minimo successo economico. E se anche il presidente Ryan si fosse rivelato altrettanto ottuso, allora c’era sempre un altro modo.

In realtà, Li aveva cominciato a pensare che la loro fosse una causa nobile. Proprio come il presidente Mao doveva aver considerato il suo compito. Un’opera degli dèi o, in un mondo privo di qualsiasi divinità, quantomeno l’opera del destino.

«Forse sono andati a dormire» disse Chavez.

«Possibile» rifletté Yuki. «Ma è più probabile che siano turbati per la morte di Beatriz Campos.»

Jack si accarezzò la barba. Parlare delle fogne gli aveva fatto sentire il bisogno di farsi un’altra doccia. «Quanto durerà la batteria della cimice?»

«Il microfono si attiva solo se qualcuno parla, per cui dureranno un po’ di più, ma temo che non avremo più di trentasei ore.»

«Allora ci alterneremo» disse Chavez. «Jack, ti offro volontario per il primo turno.»

«Perfetto» disse Ryan con un sorriso finto.

«Io rimarrò ad ascoltare con lui» intervenne Yuki. «Per essere sicuro che non si addormenti.»

Midas si alzò e sollevò entrambe le braccia sopra la testa per stirarsi. «Reclamo metà del letto.»

Adara spinse in basso il labbro inferiore, fingendosi imbronciata. «Dove sono finiti i ragazzi che dormono sul divano?»

«Ho reclamato solo metà letto. Puoi combattere con Ding per l’altra metà.»

«Io sto bene sul pavimento» disse Chavez, togliendo i cuscini dalla poltrona.

Midas si sdraiò sul materasso, rannicchiandosi nel lenzuolo, per niente turbato che Yuki ci avesse dormito la notte precedente. Di sicuro aveva dormito in posti molto, molto peggiori. «Sta’ al tuo posto» disse senza aprire gli occhi quando Adara si sdraiò accanto a lui.

«Farò del mio meglio per contenermi.»

Chavez stava già respirando profondamente.

«Mi piacciono i tuoi amici» disse Yuki guardando Jack, adesso seduto accanto a lei sul divano.

«Anche a me» rispose Ryan. Voleva chiederle dei graffi sulla faccia, ma poi cambiò idea. Era circondato da persone di cui si fidava, ed era vivo dopo una giornata particolarmente sanguinosa. Un po’ di mistero era una cosa buona.

Potere e impero
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