29. Musica e identità: demenza e musicoterapia

Dei circa cinquecento pazienti neurologici ricoverati presso il mio ospedale, circa metà sono affetti da demenze di vario tipo, causate da ictus multipli, ipossia cerebrale, anormalità di origine tossica o metabolica, lesioni o infezioni cerebrali, degenerazione frontotemporale o, più comunemente, dal morbo di Alzheimer.

Alcuni anni fa, la mia collega Donna Cohen, dopo aver studiato la nostra vasta popolazione di pazienti con Alzheimer, scrisse un libro, come coautrice, intitolato The Loss of Self – la perdita del sé. Per varie ragioni disapprovavo nettamente il titolo (sebbene il libro sia un'ottima risorsa per i familiari e per coloro che assistono questi malati) e per controbattere tenni diverse conferenze e lezioni sul morbo di Alzheimer e la conservazione del sé – «Alzheimer's Disease and the Preservation of Self». Detto questo, non sono affatto sicuro che Donna e io fossimo su posizioni realmente opposte.

Di certo, con il progredire della malattia, un paziente con l'Alzheimer perde molte delle sue capacità o facoltà (benché questo processo possa impiegare molti anni). La perdita di certe forme di memoria, che è spesso un indicatore precoce dell'Alzheimer, procede talvolta fino all'amnesia profonda. Successivamente può esserci una compromissione del linguaggio e, con l'interessamento dei lobi frontali, la perdita di facoltà più sottili ed essenziali, come il giudizio, la previsione, la capacità di progettare. Alla fine, una persona con l'Alzheimer può perdere alcuni aspetti fondamentali della consapevolezza di sé, in particolare la consapevolezza delle proprie incapacità. Ma la perdita dell'autoconsapevolezza, o di alcuni aspetti della mente, costituisce una perdita del sé?

Il Jacques di Shakespeare, in Come vi piace, considerando le sette età dell'uomo, ritiene che quella finale sia «senza niente». Eppure, per quanto uno possa essere gravemente debilitato e compromesso, non si è mai davvero senza niente, mai una tabula rasa. Una persona con l'Alzheimer può regredire a una «seconda infanzia», ma gli aspetti essenziali del carattere, della personalità e della persona, gli aspetti del sé, sopravvivono – insieme ad alcune forme di memoria quasi indistruttibili – anche nella demenza molto avanzata. È come se l'identità avesse una base neurale così robusta e diffusa – come se il proprio modo di essere fosse così profondamente radicato nel sistema nervoso – da non poter mai essere perduta, almeno fin tanto che è ancora presente una certa vita mentale. (In effetti, è lecito attendersi qualcosa del genere se è vero che le percezioni e le azioni, i sentimenti e i pensieri danno forma, fin dall'inizio, alla struttura del cervello). Questo affiora con toccante chiarezza in diari come Elegia per Iris di John Bayley.

In particolare, la risposta alla musica si conserva anche quando la demenza è molto avanzata. Nella demenza, però, il ruolo terapeutico della musica è molto diverso da quello che essa ha nei pazienti con disturbi motori o del linguaggio. La musica che aiuta i pazienti parkinsoniani, per esempio, deve avere un carattere ritmico deciso, ma non occorre che sia familiare o evocativa. Nel caso degli afasici è fondamentale l'uso di canzoni con un testo o frasi intonate, insieme all'interazione con un terapeuta. Nelle persone con demenza, d'altra parte, lo scopo della musicoterapia è molto più ampio di questo: essa cerca di rivolgersi alle emozioni, alle facoltà cognitive, ai pensieri e ai ricordi – insomma, al «sé» sopravvissuto del paziente – per stimolarli e farli riemergere. Mira ad arricchire e ampliare l'esistenza, offrendo libertà, stabilità, organizzazione e concentrazione.

Questo potrebbe sembrare un obiettivo ambiziosissimo – quasi impossibile, verrebbe da pensare, vedendo i pazienti con demenza avanzata che se ne stanno seduti in un torpore vuoto, apparentemente assenti, oppure gridano agitati da un'angoscia incomunicabile. Eppure, in questi pazienti la musicoterapia è possibile perché la percezione, la sensibilità, l'emozione e la memoria musicali possono sopravvivere anche quando altre forme di memoria sono scomparse da molto tempo.133 Una musica del giusto tipo può aiutare a orientare e ancorare un paziente quando ormai non è rimasto quasi più nient'altro in grado di farlo.

Io lo constato di continuo con i miei pazienti, e ne ho testimonianza anche dalle lettere che ricevo. Un uomo mi scrisse a proposito della moglie:

 

Sebbene mia moglie abbia l'Alzheimer – diagnosticato almeno sette anni fa -, l'essenziale della sua persona resiste miracolosamente... Suona il pianoforte diverse ore al giorno, molto bene. La sua attuale ambizione è di imparare a memoria il Concerto per pianoforte in la minore di Schumann.

 

Eppure questa donna, nella maggior parte delle altre sfere, è estremamente smemorata e disabile. (Anche Nietzsche continuava a improvvisare al pianoforte quando la neurosifìlide l'aveva ormai da molto tempo reso muto, demente e in parte paralizzato).

La straordinaria robustezza della base neurale della musica è dimostrata anche dalla seguente lettera, a me indirizzata, dove si parla di un pianista famoso:

 

Ormai ha 88 anni e ha perso l'uso del linguaggio... ma suona tutti i giorni. Quando leggiamo insieme Mozart, va indietro e avanti con lo sguardo molto prima dei segni che prescrivono la ripetizione. Due anni fa abbiamo registrato tutto il repertorio a quattro mani di Mozart che lui aveva già inciso... negli anni Cinquanta. Anche se il linguaggio ha cominciato a venirgli meno, a me piace il modo in cui ultimamente concepisce e realizza l'esecuzione: lo apprezzo anche di più della registrazione precedente.

 

Quel che è toccante, qui, non è semplicemente la conservazione, ma soprattutto l'apparente potenziamento delle facoltà e sensibilità musicali, proprio nel momento in cui altre facoltà scompaiono. Il mio corrispondente concludeva: «In questo caso sono evidenti, in modo chiarissimo, gli estremi traguardi del talento musicale e della malattia; ogni visita diventa un miracolo, perché con la musica lui trascende la malattia».

 

Mary Ellen Geist, una scrittrice, mi ha contattato qualche mese fa per via di suo padre, Woody, che cominciò a mostrare i segni dell'Alzheimer tredici anni fa, all'età di sessantasette anni. Adesso, scriveva la figlia,

 

a quanto pare, la placca ha invaso gran parte del suo cervello, e lui non riesce a ricordare granché di nessun aspetto della sua vita. Tuttavia, ricorda la parte del baritono di quasi tutte le canzoni che ha interpretato. Ha cantato per quarant'anni circa in un gruppo a cappella di dodici elementi... La musica è una delle pochissime cose che lo tengano ancorato a questo mondo.

Non ha idea di quale fosse un tempo il suo lavoro, né di dove abiti adesso o di che cosa abbia fatto dieci minuti fa. Quasi tutta la sua memoria è andata. Tranne che per la musica. In effetti, lo scorso novembre ha fatto l'apertura per le Rockettes del Radio City Music Hall a Detroit... La sera del concerto non aveva idea di come annodarsi la cravatta... si è perso nel tragitto per arrivare sul palco – e l'esecuzione? Perfetta... Ha cantato splendidamente, ricordando tutte le parti e le parole.

 

Qualche settimana dopo ebbi il piacere di conoscere il signor Geist, sua figlia e sua moglie, Rosemary. Il signor Geist aveva con sé un quotidiano, una copia ben ripiegata del «NewYork Times» – sebbene non sapesse che era il «New York Times» né (a quanto pareva) avesse idea di che cosa fosse un «quotidiano».134 Era ben pettinato e vestito con gusto, anche se un simile risultato – come mi disse in seguito la figlia – aveva richiesto una supervisione altrui: lasciato a sé, infatti, avrebbe potuto mettersi i calzoni al contrario, non riconoscere le proprie scarpe, radersi con il dentifricio e altre cose del genere. Quando chiesi al signor Geist di dirmi come si sentisse, lui replicò affabilmente: «Credo di essere in buona salute». Questo mi ricordò Ralph Waldo Emerson, che, ormai afflitto da una grave demenza, rispondeva a domande simili dicendo: «Benissimo; ho perso le mie facoltà mentali ma sto perfettamente».135

In effetti, c'era una dolcezza, una ragionevolezza e una serenità emersoniana in Woody (così si era subito presentato lui stesso): per quanto senza dubbio profondamente demente, aveva conservato il suo carattere, la sua cortesia, il suo essere premuroso. Nonostante lo scempio manifesto perpetrato dall'Alzheimer – la perdita della memoria episodica e delle conoscenze generali, il disorientamento, i difetti cognitivi – sembrava che i comportamenti civili fossero radicati a un livello molto più profondo e più antico. Mi chiedevo se non fossero semplici abitudini, mimetismi, residui di comportamenti che un tempo avevano un significato ma ormai erano vuoti di senso e di sentimento. Ma Mary Ellen non l'aveva mai pensato: lei credeva che la civiltà e la cortesia di suo padre, il suo comportamento sensibile e premuroso fossero quasi «telepatici».

«Il modo in cui legge il volto di mia madre per capire come sta,» scriveva «il modo in cui legge gli stati d'animo di lei, il modo in cui legge le persone nelle situazioni sociali e agisce poi di conseguenza... tutto questo va oltre il mimetismo».

Sembrava che Woody si stesse stancando di domande alle quali non sapeva dare una risposta – come: «Può leggere questo?», oppure: «Dove è nato?» – e quindi gli chiesi di cantare. Mary Ellen mi aveva raccontato che da sempre tutti loro – Woody, Rosemary e le tre figlie – avevano l'abitudine di cantare insieme, sicché il canto era diventato una parte centrale della loro vita familiare. Quando era entrato nel mio studio, Woody stava fischiettando Somewhere over the Rainbow, così gli chiesi di cantarmela. Rosemary ed Ellen si unirono a lui, e tutti e tre cantarono splendidamente, ciascuno intonando una voce diversa. Quando Woody cantava, mostrava tutte le espressioni, le emozioni e i gesti appropriati alla canzone e al canto in gruppo: si voltava verso gli altri, aspettava i loro attacchi, eccetera. Fu così per tutte le canzoni che cantarono, brillanti, jazzate, liriche e romantiche, divertenti o tristi che fossero.

Mary Ellen aveva portato con sé un cd che Woody aveva inciso anni prima con il suo gruppo a cappella, i Grunyons, e quando lo ascoltammo, Woody cantò magnificamente insieme al disco. La sua musicalità – almeno la sua musicalità di esecutore – era rimasta completamente intatta, proprio come la sua civiltà e la sua serenità: ancora una volta, però, mi chiesi se non potesse essere solo una mimesi, una performance, in cui rappresentava sentimenti e significati che non possedeva più. Di sicuro, quando cantava, Woody sembrava più «presente» che in qualsiasi altro momento. Chiesi a Rosemary se pensasse che Woody, l'uomo che conosceva e amava da cinquantacinque anni, fosse totalmente presente nel suo canto. Lei mi rispose: «Credo... credo di sì». Rosemary sembrava stanca, sfinita, a causa del suo quasi incessante prendersi cura del marito, e di quel modo di diventar vedova un poco alla volta, a mano a mano che Woody perdeva, uno dopo l'altro, gli elementi di quello che un tempo era il suo sé. Quando cantavano tutti insieme, però, lei era meno triste, si sentiva meno vedova. In quei momenti Woody sembrava così presente che qualche minuto dopo la sua assenza – il suo dimenticare che aveva cantato (o che sapeva cantare) – era sempre uno shock.

Considerando la robusta memoria musicale di suo padre, Mary Ellen mi chiese: «Perché non possiamo sfruttarla come un varco... infilare nelle sue canzoni liste della spesa, o informazioni su di lui?». Le dissi che temevo non avrebbe funzionato.

Mary Ellen l'aveva già scoperto da sola: «perché non possiamo cantargli la storia della sua vita?» aveva scritto nel suo diario nel 2005 «o magari le informazioni per andare da una stanza all'altra? Ho provato, ma non funziona». Anch'io avevo avuto questa idea, con Greg, un paziente gravemente amnesico, intelligente e molto musicale, da me seguito anni prima. Nel 1992, scrivendo su di lui un saggio pubblicato dalla «New York Review of Books», osservai:

 

È facile dimostrare che semplici informazioni possono venire incastonate in una canzone. A Greg possiamo, per esempio, dire che giorno è oggi mediante un motivetto; e lui può isolare il dato e ripeterlo a richiesta, senza il motivetto che l'accompagna. Ma che senso ha dire: «Oggi è il 19 dicembre 1991», quando si è immersi in una profonda amnesia? quando si è perso il senso del tempo e della storia? quando si esiste solo di attimo in attimo in un limbo senza consequenzialità? Conoscere la data di oggi non significa nulla, in tali circostanze. Si potrebbe, però, mediante il potere evocativo della musica, magari usando canzoni con parole ad hoc, scritte apposta, canzoni che riescano a dire qualcosa di importante e di utile, sul mondo attuale e su Greg stesso, ottenere qualcosa di più duraturo, di più profondo? Dare a Greg non soltanto dei «dati di fatto», ma un senso del tempo e della storia, delle relazioni intercorrenti fra gli eventi (e non meramente della loro esistenza), insomma un intero, ancorché sintetico, quadro di riferimento, per pensare e ragionare? Questo è quanto Connie Tomaino e io stiamo cercando di fare adesso. Speriamo di poter dare una risposta tra un anno.

 

Nel 1995, però, quando L'ultimo hippie fu ripubblicato in un libro (Un antropologo su Marte), ormai avevamo avuto quella risposta, ed era clamorosamente negativa. Non c'era stato, e forse non avrebbe potuto esserci mai, alcun trasferimento dalla prestazione e dalla memoria procedurale alla memoria esplicita o alla conoscenza utilizzabile.

Sebbene – almeno in persone amnesiche come Greg o Woody – non sia possibile usare il canto come una specie di entrata di servizio per accedere alla memoria esplicita, l'atto di cantare è tuttavia importante di per se stesso. Per Woody scoprire, ricordare di nuovo, che sa cantare è profondamente rassicurante – proprio come dev'esserlo l'esercizio di qualsiasi abilità o competenza – e può stimolare, come nessun'altra cosa, i suoi sentimenti, la sua immaginazione, l'umorismo, la creatività e il senso di identità. Può animarlo, calmarlo, aiutarlo a concentrarsi e coinvolgerlo. Lo restituisce a se stesso e, non ultimo, affascina gli altri, risveglia la loro sorpresa e la loro ammirazione: tutte reazioni sempre più necessarie per qualcuno che, nei suoi momenti di lucidità, è dolorosamente consapevole della sua tragica malattia e a volte dice di sentirsi «spezzato dentro».

Lo stato d'animo generato dal canto può durare per un po': a volte anche più a lungo del ricordo di aver cantato, che di fatto può smarrirsi in capo a un paio di minuti. Non potevo fare a meno di pensare al dottor R, l'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, a come il canto fosse vitale per lui e alla mia «ricetta», che nel suo caso fu una vita fatta interamente di musica e canto.

Sebbene non possa esprimerlo con le parole, forse Woody sa che è così anche per lui, perché nell'ultimo anno ha preso l'abitudine di fischiettare. Per tutto il pomeriggio che passammo insieme, fischiettò piano piano, fra sé e sé, Somewhere over the Rainbow. Mary Ellen e Rosemary mi hanno detto che adesso, quando non canta o non è impegnato altrimenti, fischietta tutto il tempo. Non solo durante le ore di veglia: fischia (e a volte canta) anche nel sonno; e quindi, almeno in questo senso, Woody è accompagnato dalla musica, e si aggrappa ad essa, ventiquattr'ore su ventiquattro.

 

Naturalmente esiste un mondo intero di differenza fra questi pazienti – che (con l'aiuto della famiglia, degli amici e dei terapeuti) vivono ancora una vita semiindipendente nel mondo esterno – e quelli con forme di demenza molto avanzata che costituiscono in larga misura la popolazione di un cronicario o di un istituto. Ciò nondimeno, la musica può essere importante per le persone con demenza avanzata proprio come lo è per quelle che sono ancora nelle prime fasi.

Bessie T., una donna di oltre ottant'anni, è una ex cantante di blues che lavorava al famoso Apollo Club di Harlem. Adesso vive in una casa di riposo, benché spesso creda di essere ancora impiegata in un grande magazzino («Lavoro all'abbigliamento maschile... il reparto migliore»). L'Alzheimer l'ha lasciata con un'amnesia così profonda che non riesce a trattenere nulla, nella memoria, per più di un minuto. Ma avendo saputo che all'ospedale ci sarebbe stato uno spettacolo per dilettanti, si esercitò assiduamente sulle sue canzoni con la musicoterapeuta, migliorando sempre più, sebbene poi non avesse nessun ricordo esplicito delle sedute di esercizio. Quando arrivò il giorno dello spettacolo, la accompagnarono al microfono e le chiesero se voleva cantare qualcosa per il pubblico, e lei disse: «Sicuro, dolcezza, ma perché non mi hai avvertita prima?». Poi cantò splendidamente, con gran sentimento, anche se, qualche istante dopo, non ricordava affatto di essersi esibita.

A volte la musicoterapia è collettiva, altre volte individuale. È sbalorditivo vedere individui muti, isolati e confusi riscaldarsi in presenza della musica, riconoscerla come qualcosa di familiare, e cominciare a cantare e a stabilire un legame con il terapeuta. Ancora più sbalorditivo è vedere come una decina di persone – affette da demenza grave, chiuse in mondi (o nonmondi) tutti loro, apparentemente incapaci di qualsiasi reazione coerente, per non parlare di interazioni – risponda alla presenza di un musico terapeuta che comincia a suonare di fronte a loro. C'è un'attenzione improvvisa: dieci paia di occhi distratti si fissano sul suonatore. I pazienti torpidi diventano vigili e consapevoli, quelli agitati si calmano. Che sia possibile guadagnarsi l'attenzione di pazienti di questo tipo e conservarla per qualche minuto è già di per sé un fatto straordinario. Al di là di questo, c'è spesso un coinvolgimento specifico con quanto viene suonato (di solito, in questi gruppi, si eseguono vecchie canzoni che tutti, di quella generazione, conoscono).

La musica familiare agisce come una sorta di proustiano aiuto mnemonico, suscitando emozioni e associazioni da tempo dimenticate, e consentendo, ancora una volta, l'accesso a stati d'animo e ricordi, pensieri e mondi, in apparenza completamente perduti. I volti si animano di espressione mentre i pazienti riconoscono la vecchia musica e ne avvertono il potere emozionale. Una o due persone, forse, cominciano a cantare, altre poi si uniscono, e ben presto l'intero gruppo – molti elementi del quale erano pressoché privi della parola – canta insieme, nella misura in cui può farlo.

«Insieme» è una parola fondamentale, perché qui fa presa il senso della comunità, e questi pazienti, che sembravano irrimediabilmente isolati dalla malattia e dalla demenza sono in grado, almeno per un po', di riconoscere gli altri e stabilire dei legami. Ricevo molte lettere su questi effetti da musicoterapeuti e da altri che suonano o cantano per i pazienti con demenza. Una musicoterapeuta australiana, Gretta Sculthorp, dopo aver lavorato per dieci anni in ricoveri e ospedali, ha espresso tutto questo con grande forza:

 

All'inizio pensavo di fornire a queste persone un intrattenimento, ma ora so che in realtà io funziono come un apriscatole nei confronti della loro memoria. Io non posso prevedere quale sarà il fattore innescante per ciascuno di loro, ma di solito c'è qualcosa per ognuno, e una parte del mio cervello «osserva» con sbalordimento e meraviglia quello che sta accadendo... Uno dei risultati più belli del mio lavoro è che all'improvviso lo staff può vedere i pazienti in una luce completamente nuova, come persone che hanno avuto un passato: e non solo un passato, ma un passato con gioie e piaceri.

Ci sono quelli che ascoltano, che arrivano e si mettono per tutto il tempo in piedi accanto a me, o di fronte, toccandomi. Ci sono sempre quelli che piangono. Ci sono quelli che ballano, e quelli che si uniscono agli altri – per le operette o per le canzoni di Sinatra (e per i Lieder in tedesco!). Ci sono persone disturbate che si calmano, e persone silenziose che tirano fuori la voce, persone «congelate» che si mettono a battere il tempo. Questa gente non sa dove si trova, ma mi riconosce immediatamente: io sono «la signora che canta».

 

In un disturbo del movimento come il morbo di Parkinson, il potere della musica non ha alcun significativo effetto di persistenza. Il paziente può riacquistare un flusso motorio armonico, ma una volta che la musica cessa, il flusso si ferma. Nelle persone affette da demenza, tuttavia, a volte la musica ha effetti più a lungo termine – per esempio miglioramenti dell'umore, del comportamento e perfino della funzione cognitiva – che possono persistere anche ore o giorni, dopo essere stati innescati dalla musica. Lo vedo quasi quotidianamente in ambulatorio e ricevo costantemente descrizioni di tali effetti inviatemi da altri. Jan Koltun, che coordina l'assistenza agli anziani, mi ha scritto questa storia:

 

Una delle nostre assistenti... andò a casa e fece il semplice gesto di accendere il canale di musica classica di fronte al divano dove la suocera aveva passato seduta la maggior parte degli ultimi tre anni guardando show televisivi. La suocera, a cui era stata diagnosticata una demenza, aveva tenuto tutta la casa sveglia di notte quando chi l'assisteva spegneva la televisione per dormire un po'. Durante il giorno, non si muoveva dal divano né per andare in bagno, né per partecipare ai pasti con i familiari.

Dopo quel cambio di canale, però, ebbe un profondo cambiamento comportamentale: la mattina dopo chiese di andare a colazione [con gli altri], durante il giorno non volle guardare la sua solita tv e il pomeriggio chiese il suo lavoro di ricamo, da tempo trascurato. Nell'arco delle sei settimane successive, oltre a comunicare con i familiari e a interessarsi di più all'ambiente circostante, passò il suo tempo soprattutto ascoltando musica (principalmente country e western, che le piaceva molto). Dopo sei settimane, morì in pace.

 

La percezione della musica e delle emozioni che essa può suscitare non dipende esclusivamente dalla memoria, e non occorre che la musica sia familiare per esercitare il suo potere emozionale. Ho visto pazienti con demenza profonda piangere o tremare mentre ascoltano musica che non hanno mai sentito prima, e credo che essi possano sperimentare tutta la gamma di sentimenti che proviamo noialtri; almeno in quei momenti, la demenza non è di alcun impedimento alla profondità dell'esperienza emozionale. Quando uno ha visto queste reazioni, sa che esiste ancora un sé al quale fare appello, anche se è la musica, e solo la musica, che può riuscirci.

Esistono senza dubbio particolari aree della corteccia che servono l'intelligenza e la sensibilità musicali e possono esserci forme di amusia in cui tali aree sono danneggiate. La risposta emozionale alla musica, però, sembra essere diffusa, e probabilmente non è solo corticale, ma anche sottocorticale: perfino nel caso di una malattia che colpisca estesamente la corteccia, come il morbo di Alzheimer, la musica può ancora essere percepita e goduta, e suscitare risposte. Non occorre avere una conoscenza formale della musica – né in effetti essere particolarmente «musicali» – per godere di essa e risponderle al livello più profondo. La musica fa parte dell'umano, e non esiste una sola cultura in cui non sia altamente sviluppata e tenuta in gran conto. La sua stessa ubiquità può far sì che, nella vita quotidiana, essa venga banalizzata: accendiamo la radio, la spegniamo, canticchiamo un motivetto, battiamo il ritmo con i piedi, scopriamo le parole di una vecchia canzone che ci girano nella testa, e non le diamo importanza. Ma per quanti sono persi nella demenza, la situazione è diversa. La musica per loro non è un lusso, ma una necessità, e può avere un potere superiore a qualsiasi altra cosa nel restituirli, seppure soltanto per poco, a se stessi e agli altri.