14. Un suono verde brillante: sinestesia e musica
Per secoli, gli esseri umani hanno cercato una relazione fra musica e colore. Newton pensava che lo spettro avesse sette colori ben distinti, corrispondenti, in un modo semplice per quanto ancora sconosciuto, alle sette note della scala diatonica. «Organi cromatici» e strumenti simili, in cui ogni nota era accompagnata da un colore specifico, risalgono all'inizio del Settecento. Quanto all'Oxford Companion to Music, dedica alla voce «Colore e musica» ben diciotto colonne fitte di testo. Per la maggior parte di noi, le associazioni fra colore e musica restano a livello di metafore, disseminate di «simile a» e «come se». Ma per alcune persone, un'esperienza sensoriale può istantaneamente e automaticamente provocarne un'altra. Per un autentico sinesteta, non c'è nessun «come se», ma semplicemente un'istantanea congiunzione di sensazioni. Questo fenomeno interessa qualsiasi senso: per esempio, un individuo può percepire le lettere dell'alfabeto o i giorni della settimana associando ciascuno di essi al suo particolare colore; un altro può associare ogni colore a un suo odore peculiare, o ciascun intervallo musicale a un sapore corrispondente.68
Una delle prime descrizioni sistematiche della sinestesia (così venne denominato il fenomeno negli anni Novanta dell'Ottocento) è quella fornita nel 1883 da Francis Galton nel suo classico Inquiries into Human Faculty and Its Development: un libro eccentrico e di ampio respiro nel quale l'autore esponeva la sua scoperta dell'individualità delle impronte digitali, il suo uso della sovrapposizione di immagini fotografiche e, argomento tristemente famoso, le sue idee sull'eugenetica. 69 Gli studi di Galton sulla «costruzione di immagini mentali» cominciarono con un'indagine sulle capacità degli individui di visualizzare con dettagli intensi e realistici scene, volti, eccetera, per poi proseguire sondando l'immaginazione dei numeri. Con grande meraviglia di Galton, alcuni soggetti gli dissero che immancabilmente «vedevano» certi numeri di un colore particolare, sempre lo stesso: a prescindere dal fatto che li stessero effettivamente guardando o solo immaginando. Dapprincipio Galton aveva pensato che questa non fosse altro che un'«associazione»; ben presto però si convinse che si trattava di un fenomeno fisiologico, una facoltà specifica e innata della mente in qualche modo affine alla formazione di immagini mentali, ma di natura più rigida, stereotipata e automatica e, a differenza di altre forme di immaginazione mentale, pressoché impossibile da influenzare attraverso la coscienza o la volontà.
Come neurologo, fino a poco tempo fa avevo raramente avuto occasione di incontrare un sinesteta; non si tratta, infatti, di un fenomeno che spinge i pazienti a consultare uno specialista. Alcuni stimano che la sua incidenza si collochi intorno a uno su duemila, ma potrebbe anche essere ben più comune, poiché – in massima parte – coloro che la sperimentano non la considerano qualcosa da riferire al medico. Queste persone sono sempre state così e, finché non scoprono il contrario, danno per scontato che la loro esperienza sia perfettamente normale e consueta, e che tutti sperimentino la fusione di diversi sensi. Limitandomi a porre qualche domanda, per esempio, ho scoperto che diversi miei pazienti in cura per altri motivi – magari da anni – erano sinesteti. Semplicemente, non avevano mai pensato di farmene cenno, né io avevo mai posto loro delle domande in merito.
Per molti anni, l'unico mio paziente sinesteta di cui fossi a conoscenza era un pittore divenuto all'improvviso del tutto cieco ai colori in seguito a un trauma cranico.70 Egli aveva perso non solo la capacità di percepire e perfino di immaginare il colore, ma anche la facoltà – che aveva sempre avuto – di vedere automaticamente il colore insieme alla musica. Sebbene in un certo senso questa fosse la minore delle perdite subite da questo paziente, ciò nondimeno era significativa, perché per quest'uomo la musica era sempre stata «arricchita», come diceva lui stesso, dai colori che l'accompagnavano.
Questo mi persuase del fatto che la sinestesia fosse un fenomeno fisiologico, dipendente dall'integrità di particolari aree della corteccia e le loro interconnessioni – in questo caso, le connessioni fra aree specifiche della corteccia visiva necessarie per costruire la percezione o l'immaginazione del colore. La distruzione di tali aree aveva reso questo paziente incapace di sperimentare qualsiasi colore, compreso quello che «colorava» la sua percezione della musica.
Di tutte le diverse forme di sinestesia, la sinestesia musicale – soprattutto gli effetti cromatici sperimentati ascoltando della musica o pensando a essa – è una delle più comuni, e forse la più impressionante. Non sappiamo se sia più diffusa fra i musicisti o le persone con inclinazione per la musica, ma è senz'altro più probabile che i musicisti siano consapevoli della sua presenza – e infatti le persone che recentemente mi hanno descritto le loro sinestesie musicali sono in larga misura musicisti.
L'insigne compositore contemporaneo Michael Torke è stato profondamente influenzato dalle sue esperienze con la musica colorata. Torke dimostrò di possedere straordinari talenti musicali fin dalla più tenera età, e quando compì cinque anni gli regalarono un pianoforte e gli affiancarono un'insegnante. «A cinque anni» racconta «già componevo»; l'insegnante divideva i brani in sezioni e Michael li riarrangiava variando l'ordine delle sezioni mentre suonava.
Un giorno disse all'insegnante: «Mi piace proprio quel brano azzurro».
L'insegnante non era sicura di aver sentito bene: «Azzurro?».
«Sì,» rispose Michael «il brano in re maggiore... il re maggiore è azzurro».
«Non per me» replicò l'insegnante. Era sconcertata, e anche Michael lo era, perché dava per scontato che tutti vedessero dei colori in associazione alle tonalità musicali. Quando cominciò a capire che non tutti condividevano la sua sinestesia, ebbe qualche difficoltà nell'immaginare come fosse esserne privi. Pensava dovesse equivalere a «una specie di cecità».
Da quel che lui stesso riesce a ricordare, Michael ha sempre avuto questo tipo di sinestesia con le tonalità musicali, ha sempre visto colori precisi costantemente associati al suono della musica – scale, arpeggi, qualsiasi cosa con un'armatura di chiave. Per quanto ne sappia, ha sempre avuto anche l'orecchio assoluto, il che rende per lui le tonalità musicali assolutamente distinte: mi spiega, per esempio, che il sol diesis minore ha un «aroma» diverso dal sol minore, proprio come le tonalità maggiori e minori hanno qualità diverse per tutti noi. In effetti, dice di non poter immaginare la sinestesia senza l'orecchio assoluto. Ogni tonalità e ogni modo gli appaiono visivamente distinti (e «caratteristici»), proprio come distinto e caratteristico è il loro suono.
I colori, fissi e costanti fin da quand'era bambino, gli si presentano spontaneamente e nessuno sforzo di volontà o di immaginazione può modificarli. Gli sembrano del tutto naturali e preordinati; inoltre, sono altamente specifici. Il sol minore, per esempio, non è solo «giallo», ma «ocra» o «giallo-arancio». Il re minore ha «il colore della selce, un color grafite»; il fa minore è del colore «della terra o della cenere». Michael lotta per trovare la parola giusta, proprio come lotterebbe per trovare il tubetto di colore o il pastello giusti.
I colori delle tonalità maggiori e minori sono sempre legati (il sol minore, per esempio, è di un giallo ocra spento, mentre il sol maggiore di un giallo brillante), ma a parte questo Michael ha delle difficoltà a trovare un sistema o una regola qualsiasi in base ai quali prevedere i colori di tonalità particolari. A un certo punto, si chiese se i colori non gli fossero stati suggeriti da associazioni reali alle quali era stato esposto da bambino – magari un pianoforte giocattolo, con ogni tasto di un colore diverso -; tuttavia non ha un chiaro ricordo di nulla di simile. In ogni caso, secondo lui le associazioni cromatiche (quattordici per le tonalità maggiori e minori, e altre sei per i modi, tanto per cominciare) sono decisamente troppe perché questa spiegazione possa essere probabile. Alcune tonalità, poi, gli sembrano avere strane sfumature che non riesce a descrivere e che non ha quasi mai visto nel mondo che lo circonda.71
Quando chiesi a Michael in che senso «vedesse» i suoi colori, mi parlò della loro luminosità. I colori avevano una sorta di brillantezza luminosa e trasparente, mi disse, «come uno schermo» davanti a lui, che tuttavia non copriva, né alterava in alcun modo la sua normale visione. Che cosa accadeva, gli chiesi, se vedeva l'«azzurro» di un re maggiore mentre stava guardando una parete gialla? Avrebbe forse visto del verde? No, mi rispose, i suoi colori sinestetici erano del tutto interiori e non si confondevano mai con quelli esterni. Eppure, soggettivamente, erano molto intensi e «reali».
I colori che Michael vede insieme alle tonalità musicali sono rimasti assolutamente fissi e coerenti per almeno quarant'anni, ed egli si chiede se fossero già presenti alla nascita o se si siano invece determinati quando era appena nato. Altri hanno Verificato, nel corso del tempo, l'accuratezza e la coerenza delle sue associazioni fra tonalità e colore, ed esse non sono cambiate.
Michael non vede colori associati a note isolate o a differenti altezze. Né vedrà dei colori serper esempio, viene suonata una quinta: in quanto tale, infatti, una quinta è ambigua e non è associata a una tonalità particolare. Occorre che ci sia una triade maggiore o minore o una successione di note sufficiente a rivelare la tonalità d'impianto. «Tutto si riconduce alla tonica» afferma. È importante, però, anche il contesto; pertanto, la Seconda sinfonia di Brahms è in re maggiore (azzurro) ma uno dei suoi movimenti è in sol maggiore (giallo). Questo movimento sarà ancora azzurro se suonato nel contesto dell'intera sinfonia, ma potrebbe tingersi di giallo se Michael lo legge, lo suona o lo immagina separatamente dal resto.
Da bambino Michael amava in modo particolare Mozart e Vivaldi, soprattutto per il loro uso delle tonalità che, sostiene, era «puro, circoscritto... usavano una tavolozza più semplice». In seguito, da adolescente, si innamorò di Chopin, Schumann e dei compositori romantici (anche se le loro modulazioni intricate mettono a dura prova la sua sinestesia).
Michael non vede colori associati ai motivi o alla tessitura musicale, e nemmeno al ritmo, agli strumenti, ai compositori, alle atmosfere o alle emozioni: l'associazione è solo con le tonalità. Egli ha tuttavia altri tipi di sinestesia non musicale. Per lui le lettere dell'alfabeto, i numeri e i giorni della settimana hanno tutti il loro particolare colore e anche una topografia o un paesaggio peculiari.72
Chiesi a Michael quale ruolo avesse la sinestesia musicale – sempre che ne avesse uno – nella sua vita creativa; se orientasse cioè il suo pensiero e la sua immaginazione in direzioni inattese.73 Esisteva una connessione esplicita, mi rispose, fra il colore e la tonalità nella sua prima composizione orchestrale, una serie di cinque pezzi intitolata Color Music in cui ogni pezzo esplorava le possibilità musicali di una singola tonalità, e pertanto di un singolo colore. Il primo di questi pezzi era intitolato Ecstatic Orange, gli altri erano Bright Blue Music, Green. Purple e Ash. Ma a parte questi primi pezzi, Michael non aveva più fatto un uso esplicito della sinestesia nelle sue composizioni: un repertorio di musica notevole e in continua espansione che oggi comprende opere, balletti e musica sinfonica. Spesso Michael si sente chiedere se la sinestesia abbia comportato una grande differenza nella sua vita, soprattutto in qualità di musicista. «Almeno per quanto mi riguarda» risponde lui «non è chissà che»: per lui è una cosa normale, che non ha proprio nulla di straordinario.
David Caldwell, un altro compositore, è anche lui un sinesteta musicale, ma di tipo nettamente diverso. Quando gli dissi di come Michael equiparasse il giallo e il sol maggiore, Caldwell esclamò: «A me sembra sbagliato!». E altrettanto sbagliata gli sembrava l'associazione di Michael fra verde e mi maggiore, e in effetti la maggior parte dei suoi colori (anche se, disse David, intuiva la «logica» di alcuni di essi). Ogni sinesteta ha le sue personali corrispondenze cromatiche.
Per David, l'associazione colore-tonalità musicale è a doppio senso: un pezzo di vetro trasparente color giallo oro, sul davanzale della mia finestra, gli fece pensare a un si bemolle maggiore. («C'è qualcosa di dorato e chiaro in quella tonalità» mi disse. Era forse, si chiese, il colore dell'ottone? Le trombe, mi spiegò, sono strumenti in si bemolle, e in effetti molta musica per ottoni è scritta in quella tonalità). David non sa dire con sicurezza che cosa determini i suoi colori: sono derivati dall'esperienza, attraverso un'associazione convenzionale? Sono arbitrari? Hanno un «significato»?
Sebbene David non sia dotato di orecchio assoluto, ha però un eccellente orecchio relativo. Ricorda con precisione l'altezza di molte canzoni e di molti strumenti e da questo riesce immediatamente a dedurre in quale tonalità sia suonato qualsiasi pezzo. Ogni tonalità, dice, «ha la sua qualità» – e ogni tonalità ha anche il suo colore particolare.
David ritiene che il colore della musica sia fondamentale per la sua sensibilità e per il suo pensiero musicali, poiché non sono soltanto le tonalità ad avere un colore distintivo; anche temi, motivi, idee e atmosfere musicali sono tutti associati ai colori, come pure i singoli strumenti e le loro parti. I colori sinestetici accompagnano ogni stadio del suo pensiero musicale; la sua ricerca della «struttura alla base delle cose» è facilitata dal colore, e David sa di essere sulla pista giusta, sul punto di raggiungere l'obiettivo, quando i colori sinestetici gli sembrano giusti. Il colore conferisce un aroma al suo pensiero musicale, lo arricchisce e, soprattutto, lo rende più chiaro. Individuarne o sistematizzarne le corrispondenze, però, è difficile. Quando gli chiesi di farmi uno schema dei suoi colori sinestetici, ci pensò per qualche giorno e poi mi scrisse:
Più ho cercato di riempire i buchi sul mio grafico, più le connessioni mi sono parse tenui. Quelle di Michael sembrano molto fisse, e non paiono implicare un coinvolgimento intellettuale o emozionale. Le mie, invece, hanno molto a che fare con il modo in cui mi sento rispetto alle tonalità e a come le uso nel comporre e nel suonare la musica.
Gian Beeli, Michaela Esslen e Lutz Jäncke, ricercatori a Zurigo, hanno descritto una musicista di professione con una sinestesia musica-colore e musica-gusto: «Ogni volta che sente un particolare intervallo musicale, automaticamente percepisce sulla lingua un gusto che è costantemente associato a quell'intervallo». In un articolo pubblicato nel 2005 su «Nature», questi autori hanno descritto nei dettagli le associazioni della donna:
seconda minore - acido
seconda maggiore - amaro
terza minore - salato
terza maggiore - dolce
quarta - (erba falciata)
tritono - (disgusto)
quinta - acqua pura
sesta minore - panna
sesta maggiore - panna a basso tenore lipidico
settima minore - amaro
settima maggiore - acido
ottava - insapore
Il «gusto» compensa in lei immediatamente qualsiasi incertezza uditiva circa l'intervallo che sta ascoltando, giacché le sue percezioni sinestetiche gustative-musicali sono istantanee, automatiche e sempre corrette. Ho anche sentito parlare di violinisti che si servono della sinestesia per accordare il loro strumento, e di accordatori di pianoforti che la trovano utile nel loro lavoro.
Christine Leahy, scrittrice, artista visuale e chitarrista, ha una forte sinestesia per le lettere dell'alfabeto, i numeri e i giorni della settimana, insieme a una sinestesia cromatica pronunciata, sebbene meno specifica, per la musica. La sua cromestesia per le lettere è particolarmente forte, e se una parola comincia con una lettera «rossa», la sua qualità rossa può diffondersi interessando l'intera parola.74
Christine non è dotata di orecchio assoluto e non riesce a percepire differenze intrinseche fra le diverse tonalità. I concomitanti cromatici delle lettere dell'alfabeto, tuttavia, valgono anche per le lettere della scala musicale, così che se Christine sa che una particolare nota è un re [in inglese D], essa susciterà una sensazione di verde, intensa come quella associata alla lettera D. Questa sinestesia si applica anche al suono della nota. Christine ha descritto le seguenti sensazioni cromatiche nell'accordare la sua chitarra, abbassando una corda dal mi (azzurro) al re (verde): «Un azzurro intenso, saturo... l'azzurro si smorza, sembra più granuloso... un verde screziato e non saturo... un verde uniforme, puro, intenso».
Le chiesi che cosa accadesse, visivamente, in corrispondenza del semitono – il mi bemolle – che si trova fra il mi e il re, e lei rispose: «Nulla, è un vuoto». Per lei nessun colore si associa ai diesis o ai bemolli, nonostante li percepisca e li suoni senza alcuna difficoltà. Quando suona una scala diatonica – la scala di do maggiore – Christine vede un «arcobaleno» di colori secondo l'ordine dello spettro, dove ciascun colore si «dissolve» nel successivo. Ma quando suona una scala cromatica, i colori sono separati da una serie di «vuoti». Christine lo attribuisce al fatto che quando era molto piccola imparò l'alfabeto aiutandosi con delle lettere magnetiche colorate attaccate al frigorifero. Queste lettere erano organizzate in gruppi di sette (da A a G, da H a N, eccetera) e i loro colori corrispondevano ai sette colori dell'arcobaleno;75 ovviamente, però, non c'era nulla, in quelle lettere, che corrispondesse ai diesis e ai bemolli.76
Christine considera la sua sinestesia musicale come un potenziamento o un arricchimento della musica, anche se è probabile che all'inizio essa abbia avuto un'origine più linguistica che musicale. Rimase sconvolta quando le raccontai la storia del pittore cieco ai colori, descrivendole come avesse perso la sua sinestesia musicale nel momento stesso in cui aveva perso la visione cromatica. Se fosse capitato a lei, perdere la sinestesia sarebbe stato un duro «colpo»: «come perdere uno dei sensi».
Patrick Ehlen è uno psicologo e autore di canzoni con una sinestesia molto estesa, che riguarda non solo la musica, ma anche i suoni di ogni genere: da quelli prodotti dagli strumenti musicali a clacson, voci, versi di animali, tuoni – al punto che per lui il mondo del suono è continuamente trasformato in un flusso di colori e di forme. Patrick ha anche una sinestesia cromatica per le lettere dell'alfabeto, i numeri e i giorni della settimana. Ricorda come un giorno la sua maestra di prima elementare, vedendo che fissava il vuoto, gli avesse chiesto che cosa stesse guardando. Lui aveva risposto che «stava contando i colori fino a venerdì». Tutta la classe scoppiò a ridere e da quel momento lui tenne queste faccende per sé.
Fu solo a diciotto anni, in una conversazione casuale con un altro studente, che sentì il termine «sinestesia», e si rese conto che in effetti quella che aveva sempre avuto dandola per scontata, era una condizione descritta nella letteratura medica. Risvegliata la sua curiosità, cominciò a leggere testi sulla sinestesia, e pensò di scrivere la sua tesi sull' argomento. Patrick crede che sia stata proprio la sinestesia a spingerlo a fare lo psicologo, anche se poi la sua attività professionale si è espressa in altri campi – linguaggio, discorso, linguistica – e non in quello della sinestesia.
Alcune delle sue corrispondenze sinestetiche gli sono utili come espedienti mnemonici (per esempio, quando qualcuno disse che l'11 settembre era un lunedì, lui potè affermare istantaneamente e con tutta sicurezza che non lo era, perché per lui il martedì è il giorno associato al giallo, e anche VII settembre è giallo). È la sinestesia musicale, tuttavia, ad avere una parte essenziale nella sua sensibilità e nella sua vita creativa.
A differenza di Michael Torke, per Patrick non esiste una relazione fissa fra colore e tonalità musicale (questa sembra una forma relativamente rara di sinestesia musicale, forse perché richiede, al tempo stesso, l'orecchio assoluto). La sinestesia, per Patrick, è evocata pressoché da ogni altro aspetto della musica: il ritmo e il tempo, la forma delle melodie, la loro modulazione in tonalità diverse, la ricchezza delle armonie, il timbro di diversi strumenti e, soprattutto, il carattere e l'atmosfera generali di quello che sta ascoltando. L'ascolto della musica, per Patrick, risulta enormemente esaltato – mai coperto o disturbato – dal ricco flusso di sensazioni visive che l'accompagnano.
È però soprattutto nel comporre che Patrick apprezza appieno il valore della sinestesia. Nella sua testa continuano a scorrere canzoni intere, frammenti e idee per comporre nuovi pezzi: la sinestesia è essenziale per la loro realizzazione, parte integrante del processo creativo. Il concetto stesso di musica, per lui, è permeato dal visivo. Il colore non è «aggiunto» alla musica: è parte di essa. Patrick vorrebbe tanto che gli altri potessero condividere questa totalità e – dice – cerca di evocarla nel modo più completo possibile nelle sue canzoni.
Per Sue B., un'altra sinesteta, sembra che la musica sia associata non tanto con il colore, quanto piuttosto con la luce, la forma e la posizione. Ecco come descrive la sua esperienza:
Quando ascolto la musica, vedo sempre delle immagini, ma non associo colori specifici a particolari tonalità o intervalli musicali. Vorrei poter dire che una terza minore è sempre di colore verde-azzurro, ma io non distinguo così bene gli intervalli. Le mie competenze musicali sono alquanto modeste. Quando ascolto la musica, vedo dei piccoli cerchi o barre verticali di luce che diventano più luminosi, più bianchi o più argentei per i toni più alti mentre si trasformano in un bel marrone intenso per i toni più bassi. Una scala ascendente produrrà una successione di punti sempre più luminosi o di barre verticali che si muovono verso l'alto, mentre un trillo, per esempio in una sonata per pianoforte di Mozart, produrrà un tremolio. Singole note acute di un violino evocano linee luminose nettamente distinte, mentre le note di un vibrato sembrano emettere uno scintillio. Molti strumenti ad arco che suonano insieme evocano barre parallele che si sovrappongono oppure, a seconda della melodia, spirali luminose di sfumature diverse che brillano insieme. I suoni degli ottoni producono un'immagine simile a un ventaglio. Le note alte sono posizionate appena di fronte al mio corpo, all'altezza della testa e verso destra, mentre i bassi sono localizzati in profondità, al centro del mio addome. Un accordo mi avvolge tutta.
L'interesse scientifico per la sinestesia ha attraversato, nel corso della sua storia, molte vicissitudini. Al principio dell'Ottocento, quando Keats e Shelley e altri poeti usavano metafore elaborate e immagini intersensoriali, sembrava che la sinestesia non fosse nulla più che una trovata poetica o un'invenzione della fantasia. Negli anni Sessanta e Settanta, seguirono poi attenti studi psicologici culminati nel 1883 con la pubblicazione di Inquiries into Human Faculty and Its Development di Galton. Queste indagini ebbero l'effetto di legittimare il fenomeno e furono ben presto seguite dall'introduzione della parola «sinestesia». Verso la fine dell'Ottocento, con Rimbaud e i poeti simbolisti, il concetto di sinestesia tornò a sembrare un espediente poetico, e cessò di essere considerato un soggetto di indagine scientifica.77 Questo atteggiamento cambiò ancora una volta negli ultimi trent'anni del Novecento, come ha descritto dettagliatamente John Harrison nel suo ottimo libro Synaesthesia: The Strangest Thing. Negli anni Ottanta, Richard Cytowic effettuò i primi studi neurofisiologici su soggetti sinestetici: studi che, con tutti i loro limiti tecnici, sembravano mostrare, in concomitanza con l'esperienza sinestetica, un'autentica attivazione, nel cervello, di aree sensoriali diverse, per esempio uditive e visive. Nel 1989, Cytowic pubblicò un testo pionieristico, Synaesthesia: A Union of the Senses, poi seguito nel 1993 da un'esplorazione divulgativa dell'argomento, The Man Who Tasted Shapes. Oggi le moderne tecniche di neuroimmagine funzionale offrono – al di là di possibili equivoci – la dimostrazione della simultanea attivazione o co-attivazione, nei sinesteti, di due o più aree sensoriali della corteccia cerebrale, proprio come a suo tempo previsto da Cytowic.
Mentre Cytowic indagava la sinestesia negli Stati Uniti, Simon Baron-Cohen e John Harrison cominciarono ad affrontare il tema in Inghilterra e nel 1997 pubblicarono un volume-rassegna: Synaesthesia: Classic and Contemporary Readings.
Galton riteneva che l'autentica sinestesia avesse una forte componente familiare; quanto a Harrison e Baron-Cohen, un terzo dei loro soggetti riferiva di avere parenti stretti anch'essi con sinestesia. Nabokov, nella sua autobiografia Parla, ricordo, racconta che, da bambino, vedeva tutte le lettere dell'alfabeto colorate in modo distinto, e rimase profondamente disturbato quando gli regalarono una scatola di lettere colorate e scoprì che erano praticamente tutte del colore «sbagliato». Sua madre, anche lei sinesteta, convenne con lui che i colori fossero sbagliati, ma non su quali fossero quelli giusti. (Anche la moglie di Nabokov era una sinesteta, e lo è pure il loro figlio).
A lungo si è ritenuto che la sinestesia fosse molto rara – con un'incidenza di una persona su duemila – e con una forte preferenza di genere, essendo il rapporto femmine-maschi di circa sei a uno: uno studio recente condotto da Julia Simner, Jamie Ward e i loro colleghi ha messo tuttavia in discussione entrambe queste supposizioni. Utilizzando una popolazione di quasi millesettecento soggetti campionati in modo casuale, e servendosi di test oggettivi per separare la sinestesia autentica dalla pseudosinestesia, questi ricercatori scoprirono che una persona su ventitré aveva qualche tipo di sinestesia – per lo più associava i giorni della settimana ai colori – e non era rilevabile alcuna significativa differenza di genere.78
Prima del 1999 non esistevano test psicologici oggettivi per la sinestesia. Negli ultimi anni, però, V. S. Ramachandran e E. M. Hubbard hanno profuso una grande ingegnosità sperimentale nella messa a punto di questi test. Al fine di distinguere l'autentica sinestesia dalla pseudosinestesia, per esempio, hanno ideato test che solo un vero sinesteta può «passare». In un articolo del 2001, pubblicato sul «Journal of Consciousness Studies», hanno descritto uno di questi test nel quale si presenta al soggetto un miscuglio di 2 e di 5 graficamente alquanto simili, tutti stampati in nero. Distinguerli a colpo d'occhio, per una persona comune, sarebbe un'impresa; un sinesteta che associ il colore ai numeri, invece, può discriminarli facilmente grazie al loro diverso «colore».
Le tecniche di neuroimmagine funzionale hanno oggi confermato che quando i sinesteti «vedono» dei colori in risposta al linguaggio verbale e alla musica, ha luogo un'attivazione delle aree visive e soprattutto di quelle coinvolte nell'elaborazione del colore. 79 C'è poco spazio dunque per dubitare della realtà della sinestesia, tanto dal punto di vista fisiologico quanto da quello psicologico.
La sinestesia sembra accompagnarsi a un insolito grado di attivazione crociata fra aree della corteccia sensoriale che, nella maggior parte di noi, sono funzionalmente indipendenti: tale attivazione crociata potrebbe essere basata su un eccesso di connessioni neurali anatomiche fra aree diverse. Esiste qualche conferma del fatto che tale «iperconnettività» sia effettivamente presente nei primati e in altri mammiferi durante lo sviluppo fetale e nel periodo neonatale, e che venga poi ridotta o sottoposta a «potatura» nell'arco di qualche settimana o di qualche mese dalla nascita. Non sono stati eseguiti studi anatomici equivalenti nel bambino di pochi mesi, ma, come fa notare Daphne Maurer della McMaster University, le osservazioni comportamentali indicano che «i sensi del neonato non sono ben differenziati, ma mescolati in una confusione sinestetica».
Forse, come scrivono Baron-Cohen e Harrison, «siamo tutti sinesteti con l'udito a colori, fin tanto che, a un certo punto – intorno ai tre mesi di età – perdiamo le connessioni fra queste due aree». Secondo questa teoria, nello sviluppo normale, con la maturazione corticale, la «confusione» sinestetica lascia il passo nel giro di qualche mese a una più netta distinzione e segregazione dei sensi, il che a sua volta rende possibile l'appropriata associazione delle diverse percezioni, necessaria per il pieno riconoscimento di un mondo esterno e dei suoi contenuti: quel tipo di associazione che ci consente di percepire una mela Granny Smith al tatto, alla vista, al gusto e al suono che fa quando la mordiamo, tutta insieme. Si pensa che, negli individui con sinestesia, un'anomalia genetica impedisca la completa cancellazione di questa iperconnettività precoce, così che una parte più o meno cospicua di essa sopravvive nella vita adulta.
La sinestesia sembra più comune nei bambini. Già nel 1883, lo stesso anno della pubblicazione del libro di Galton, l'insigne psicologo Stanley Hall descrisse la sinestesia musica-colore nel 40 per cento dei bambini intervistati: una stima forse eccessiva. Tuttavia, diversi studi più recenti concordano sul fatto che la sinestesia è molto più comune nell'infanzia e tende poi a scomparire nell'adolescenza. Se questo sia associato alla riorganizzazione cerebrale o ai cambiamenti ormonali che hanno luogo in quel periodo, oppure al passaggio verso forme più astratte di pensiero, non è chiaro.
Di solito la sinestesia compare molto precocemente; esistono tuttavia rare situazioni che ne possono provocare l'emergere tardivo: per esempio essa può fare una comparsa transitoria durante le crisi epilettiche del lobo temporale o sotto l'influenza di allucinogeni.
L'unica causa significativa di una sinestesia acquisita in modo permanente, però, è la cecità. La perdita della vista, soprattutto quando ha luogo in età precoce, può portare, paradossalmente, a un potenziamento dell'immaginazione visiva e a connessioni intersensoriali e sinestesie di ogni tipo. La rapidità con cui la sinestesia può far seguito all'instaurarsi della cecità è difficilmente compatibile con la formazione di nuove connessioni anatomiche a livello cerebrale e indica piuttosto un fenomeno di release, ovvero la rimozione di un'inibizione che di norma è imposta dal sistema visivo funzionante. Sotto questo aspetto, la sinestesia che segue alla cecità sarebbe analoga alle allucinazioni visive (sindrome di Charles Bonnet) spesso associate alla progressiva compromissione visiva, o alle allucinazioni musicali a volte associate al progredire della sordità.
Nell'arco di qualche settimana dalla perdita della vista, Jacques Lusseyran sviluppò una sinestesia così intensa da rimpiazzare l'effettiva percezione della musica, impedendogli così di diventare un musicista, come avrebbe voluto:
Non facevo a tempo a produrre un suono sulla corda del la, del re, del sol o del do, che già non lo sentivo più. Lo guardavo. Note, accordi, melodie, ritmi, ognuno di questi elementi era subito trasformato in immagini, curve, linee, forme, paesaggi, e soprattutto colori... Ai concerti, per me, l'orchestra era come un pittore. Mi inondava con tutti i colori dell'arcobaleno. Se il violino attaccava un assolo mi sentivo all'improvviso traboccare di oro e di fuoco, e di un rosso così acceso che non mi riusciva di ricordare d'averlo mai visto in un oggetto qualsiasi. Quando era la volta dell'oboe, un verde brillante mi scorreva dentro, così fresco che mi pareva di percepire il respiro della notte... Io vedevo troppo la musica, perché potessi parlare il suo linguaggio.80
Analogamente, V. S. Ramachandran, in A Brief Tour of Human Consciousness, ha descritto un paziente che, diventato cieco a quarant'anni, si era sentito «invaso» da una sinestesia molesta. Ramachandran raccontava che, quando il suo paziente toccava gli oggetti o leggeva il Braille, «la sua mente evocava intense immagini visive, compresi lampi di luce, allucinazioni pulsanti o, a volte, la forma reale dell'oggetto che stava toccando». Queste sensazioni confondenti erano «spesso irrilevanti e sempre immutabili e importune... un fastidio ingannevole e distraente» e interferivano moltissimo con ogni aspetto della sua vita.
C'è un'enorme differenza – è evidente – fra acquisire qualcosa, per esempio la sinestesia, nel corso della vita e nascere con essa. Per Lusseyran, che l'acquisì a metà dell'infanzia, la sinestesia fra colore e musica, per quanto bella, era invadente e gli impediva di godere della musica. Ma per coloro che nascono così, la situazione è ben diversa.
Gli atteggiamenti nei confronti della sinestesia congenita, dell'importanza che essa può rivestire per i sinesteti, e del ruolo che può giocare nella loro vita, sono molto vari. Questo è palese anche nel piccolo campione di individui che ho qui descritto. Michael Torke, pur avendo una sinestesia musicale molto forte e specifica che un tempo influenzava sia la sua sensibilità musicale, sia la sua attività di compositore, col tempo ha finito per ritenere che essa non sia poi «chissà che». David Caldwell e Patrick Ehlen, d'altro canto, ritengono che la sinestesia continui a essere fondamentale per la loro identità musicale e abbia una parte molto attiva nel loro processo compositivo. Per tutti, comunque, la sinestesia è naturale – quasi un senso extra -, al punto che domande quali: «Com'è?», oppure: «Che cosa significa per te?» sono destinate a non trovare risposta, proprio come non si può rispondere a uno che chieda: «Com'è esser vivi, com'è essere tei».