Prefazione
È proprio strano vedere un'intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall'intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l'intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica.
Possiamo immaginare i Superni, risaliti sulle loro astronavi, ancora intenti a riflettere: dovrebbero ammettere che, in un modo o nell'altro, questa cosa chiamata «musica» ha una sua efficacia sugli esseri umani ed è fondamentale nella loro vita. Eppure la musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e di simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale.
Esistono rari esseri umani che, come i Superni, forse mancano dell'apparato neurale per apprezzare suoni o melodie. D'altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Questa «musicofilia» è un dato di fatto della natura umana. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò nondimeno, è così profondamente radicata nella nostra natura da imporci di considerarla innata, proprio come Edward O. Wilson considera innata la «biofilia», il nostro sentimento verso gli altri esseri viventi. (Forse la stessa musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva).
Date le evidenti somiglianze fra musica e linguaggio, non sorprende che sia sorto un lungo dibattito, proseguito per oltre due secoli, volto a chiarire se le due cose siano evolute insieme o indipendentemente; e, nel secondo caso, quale delle due sia emersa per prima. Darwin ipotizzava che «i suoni e i ritmi musicali fossero usati dai nostri progenitori semi-umani durante la stagione del corteggiamento, quando gli animali di ogni sorta sono eccitati non solo dall'amore, ma da intense passioni quali la gelosia, la rivalità e il trionfo» e pensava che il linguaggio fosse derivato in un secondo tempo da questa musica primordiale. Il suo contemporaneo Herbert Spencer era di avviso opposto: riteneva che la musica fosse scaturita dalle cadenze del linguaggio reso vibrante dall'emozione. Rousseau, compositore oltre che scrittore, pensava che le due cose fossero emerse insieme sotto forma di un linguaggio cantilenante, per divergere solo in seguito. Secondo William James la musica era un prodotto «accidentale… un mero incidente dovuto al fatto di possedere un organo dell'udito». Steven Pinker, che scrive oggi, si è espresso in modo ancor più efficace: «Che beneficio può esserci» si chiede, facendo eco ai Superni «nel dedicare tempo ed energie a produrre tintinnii?… In termini di cause ed effetti biologici, la musica è inutile… potrebbe svanire dalla nostra specie lasciando essenzialmente immutato il nostro modo di vivere sotto ogni altro aspetto». Ciò nononostante, numerosi dati indicano che gli esseri umani hanno un istinto per la musica, proprio come lo hanno per il linguaggio, comunque esso sia evoluto.
Noi esseri umani, come specie, siamo creature musicali non meno che linguistiche, e questo aspetto della nostra natura assume molte forme diverse. Siamo tutti in grado (con pochissime eccezioni) di percepire la musica: l'altezza delle note, il timbro, l'ampiezza degli intervalli, i contorni melodici, l'armonia e (forse nel modo più primordiale) il ritmo. Noi integriamo tutto questo e «costruiamo» mentalmente la musica servendoci di molte parti diverse del cervello. A questo apprezzamento strutturale, in larga misura inconscio, si aggiunge poi una reazione emozionale spesso intensa e profonda. Schopenhauer scrisse: «Ciò che nella musica vi è di ineffabilmente intimo… eppur così inspiegabile, sta nel suo riprodurre tutti i moti della nostra più intima natura, ma senza la loro tormentosa realtà». Prima ancora aveva detto: «… la musica non esprime se non la quintessenza della vita e dei suoi avvenimenti, mai questi stessi».
L'ascolto della musica è un'esperienza non solo uditiva ed emozionale, ma anche motoria. Come scrisse Nietzsche, quando ascoltiamo la musica «ascoltiamo con tutti i muscoli». Teniamo il tempo della musica senza volerlo, anche quando non siamo consapevoli di prestarle attenzione, e con il volto e le posture del corpo rispecchiamo la «trama» della melodia, insieme ai pensieri e ai sentimenti che essa provoca.
Gran parte di ciò che accade durante la percezione della musica può aver luogo anche quando essa «è suonata nella mente». L'immaginazione della musica, perfino in individui relativamente poco musicali, tende a essere assai fedele all'originale: non solo nella melodia e nel sentimento, ma anche nell'altezza assoluta e nel tempo. Alla base di tutto questo c'è la straordinaria tenacia della memoria musicale, così che gran parte di quello che viene udito nel primi anni di vita può rimanere «inciso» nel cervello per il resto dell'esistenza. Il sistema uditivo e il sistema nervoso degli esseri umani presentano infatti, nei confronti della musica, una spiccata e raffinata sensibilità. Ancora non sappiamo in quale misura ciò sia dovuto alle caratteristiche intrinseche della musica stessa (i suoi complessi disegni sonori intessuti nel tempo, la sua logica, la sua forza, le sequenze indivisibili, i ritmi e le ripetizioni insistenti, il modo misterioso in cui essa incarna emozione e «volontà»); e in quale misura dipenda invece da particolari risonanze, sincronie, oscillazioni, sollecitazioni reciproche o retroazioni nei circuiti neurali che, immensamente complessi, si sviluppano su molteplici livelli e sono alla base della capacità di percepire e riprodurre la musica.
D'altra parte, tale meraviglioso meccanismo – forse proprio perché così complesso e altamente sviluppato – è vulnerabile a varie distorsioni, eccessi e cedimenti. La capacità di percepire (o immaginare) la musica può essere compromessa in presenza di alcune lesioni cerebrali; esistono molte forme di questa amusia. All'altro estremo, l'immaginazione musicale può diventare eccessiva e incontrollabile, portando all'incessante ripetizione di motivetti orecchiabili o addirittura ad allucinazioni musicali. In alcune persone, la musica può provocare crisi convulsive. Esistono particolari evenienze neurologiche, «disturbi delle capacità», che possono colpire i musicisti di professione. In alcune circostanze, la normale associazione fra intellettuale ed emozionale può venir meno, al punto che alcuni percepiscono la musica in modo accurato senza farsene tuttavia coinvolgere e restandole indifferenti; altri, al contrario, finiscono per esserne coinvolti in modo appassionato, a dispetto dell'incapacità di trovare un «senso» qualsiasi in ciò che percepiscono. Mentre ascoltano la musica, alcune persone – un numero sorprendentemente alto – «vedono» colori o provano varie sensazioni «gustative», «olfattive» o «tattili»: tale sinestesia, d'altra parte, può essere considerata non tanto un sintomo, quanto un dono.
William James parlava della nostra «suscettibilità alla musica» e se è vero che la musica influenza tutti noi – ci può calmare, animare, dare conforto, emozionare, o contribuire a organizzarci e sincronizzarci nel lavoro o nel gioco – è vero anche che può rivelarsi particolarmente efficace e avere un immenso potenziale terapeutico in pazienti con affezioni neurologiche assai diverse. Queste persone possono rispondere in modo intenso e specifico alla musica (e, a volte, quasi ad essa soltanto). Alcuni di tali pazienti hanno problemi corticali diffusi derivanti da ictus, dal morbo di Alzheimer o da altre cause di demenza; altri presentano sindromi corticali specifiche: perdita del linguaggio o di funzioni motorie, amnesie o sindromi frontali. Alcuni sono ritardati, alcuni autistici; altri hanno sindromi sottocorticali come il parkinsonismo o disturbi del movimento di natura diversa. Tutte queste condizioni, e molte altre ancora, possono rispondere alla musica e alla musicoterapia.
Il primo stimolo a pensare alla musica e a scriverne mi si presentò nel 1966, quando vidi i profondi effetti che essa esercitava sui pazienti gravemente parkinsoniani che in seguito avrei descritto in Risvegli. E da allora, in molti modi – più di quanti potessi forse immaginare – la musica si è imposta di continuo alla mia attenzione, mostrandomi i suoi effetti su quasi ogni aspetto della funzione cerebrale, e della vita.
La voce «musica» è sempre una delle prime che vado a cercare nell'indice di un nuovo manuale di neurologia o di fisiologia. Tuttavia, fino al 1977, quando MacDonald Critchley e Ronald Alfred Henson pubblicarono il loro libro La musica e il cervello, ricco di esempi storici e clinici, l'argomento era menzionato soltanto di rado. Forse, una ragione per spiegare la scarsità di casi clinici musicali è che raramente i medici interrogano i loro pazienti sugli incidenti che interessano la percezione della musica (un problema di linguaggio, invece, tanto per fare un esempio, affiorerà subito). Un'altra ragione di questa dimenticanza è che ai neurologi piace descrivere, spiegare e scovare ipotetici meccanismi: e prima degli anni Ottanta le neuroscienze non si erano praticamente mai occupate della musica.
Questa situazione è del tutto cambiata negli ultimi vent'anni, e oggi disponiamo di nuove tecnologie che ci consentono di osservare il cervello di un essere umano vivente mentre ascolta e immagina – e perfino mentre compone – della musica. Esiste oggi un corpus di ricerche, vastissimo e in rapida espansione, sulle basi neurali della percezione e dell'immaginazione musicali, come pure sui disturbi complessi e spesso bizzarri ai quali esse sono soggette. Queste nuove acquisizioni delle neuroscienze sono oltremodo stimolanti, tuttavia comportano sempre anche un certo rischio: e cioè che la semplice arte dell'osservazione possa andare perduta, la descrizione clinica divenga superficiale e la ricchezza del contesto umano finisca per essere ignorata.
È evidente che sono necessari tutti e due gli approcci: occorre miscelare giudiziosamente l'osservazione e la descrizione «all'antica» con gli ultimi ritrovati della tecnologia – e io qui ho cercato di incorporare entrambi. Soprattutto, però, ho cercato di ascoltare i miei pazienti e soggetti, di immaginare le loro esperienze e di penetrare in esse: sono proprio queste, infatti, che costituiscono il cuore di Musicofilia.