1. Un fulmine a ciel sereno: musicofilia improvvisa
A quarantadue anni, Tony Cicoria era un uomo robusto e in ottima forma; giocatore di football ai tempi del college, era diventato uno stimato chirurgo ortopedico in una cittadina nella parte settentrionale dello Stato di New York. In un pomeriggio d'autunno, si trovava in un padiglione sulle rive di un lago per una riunione di famiglia. Era una bella giornata ventosa, ma lui fece caso, in lontananza, ad alcune nubi temporalesche. Aveva tutta l'aria di voler piovere.
Uscito dal padiglione si diresse a un telefono pubblico per chiamare sua madre (era il 1994, prima dell'èra dei cellulari). Ricorda ancora ogni secondo di ciò che accadde poi: «Stavo parlando con mia madre al telefono. Pioveva appena, si sentiva tuonare in lontananza. Mia madre riattaccò. Il telefono era a una trentina di centimetri da dove mi trovavo io, quando fui colpito. Ricordo un lampo di luce uscire dall'apparecchio. Mi prese in pieno viso. La prima cosa che ricordo, subito dopo, è che stavo volando all'indietro».
«Poi» e qui sembrò esitare prima di raccontarmelo «stavo volando in avanti. Stupefatto. Mi guardai intorno. Vidi il mio corpo per terra. Dissi a me stesso: “Cazzo, sono morto”. Vidi della gente radunarsi convergendo intorno al corpo. E vidi una donna – una che prima era in piedi proprio dietro di me, in attesa che io liberassi il telefono – mettersi sopra al corpo e praticargli una manovra di rianimazione … Salii fluttuando le scale, e la coscienza mi venne dietro; vidi i miei figli ed ebbi la percezione che sarebbero stati bene. Poi mi ritrovai circondato da una luce bianco-azzurra … una sensazione di enorme benessere e di pace. Vidi scorrere velocissimi, vicino a me, i momenti migliori della mia vita e quelli peggiori. Non erano associati ad alcuna emozione … puro pensiero: estasi pura. Ebbi la percezione di accelerare, di essere attirato verso l'alto … percepii velocità e direzione. Poi, mentre stavo dicendo a me stesso: “Questa è la sensazione più splendida che abbia mai provato” – PAM! Ero tornato».
Il dottor Cicoria capì di essere tornato nel suo corpo perché sentì dolore – il dolore causato dalle bruciature al volto e al piede sinistro, dove la scarica elettrica era entrata e uscita – e, si rese conto, «solo un corpo prova dolore». Voleva tornare indietro, pensava, voleva dire a quella donna di smetterla con la rianimazione, di lasciarlo morire; ma ormai era troppo tardi: era stabilmente tornato fra i vivi. Dopo uno o due minuti, quando riuscì a parlare, disse: «Va tutto bene, sono un medico!». La donna (emerse in seguito che faceva l'infermiera in una unità di terapia intensiva) replicò: «Qualche minuto fa non andava bene per niente».
Arrivò la polizia; volevano chiamare un'ambulanza, ma Cicoria rifiutò, farneticando. Così lo portarono a casa («mi sembrò di impiegarci ore»), da dove potè chiamare il suo medico, un cardiologo. Questi, visitandolo, pensò che Cicoria avesse avuto un breve arresto cardiaco, ma non riuscì a trovare nulla fuori posto, né a un esame obiettivo, né facendogli un ECG. «In questi casi, o vivi o muori» osservò. Pensava che il dottor Cicoria non avrebbe patito alcuna conseguenza per quel bizzarro incidente.
Cicoria consultò anche un neurologo: si sentiva indolente (cosa estremamente insolita per lui) e aveva qualche problema di memoria. Gli capitava di dimenticare nomi di persone che conosceva bene. Fu sottoposto a un esame neurologico; gli fecero un EEG e una risonanza magnetica. Ancora una volta, sembrava non ci fosse nulla fuori posto.
Un paio di settimane dopo, ritrovate le energie, il dottor Cicoria tornò al lavoro. Aveva ancora qualche problema con la memoria – capitava che dimenticasse il nome di malattie rare o di procedure operatorie; tutte le abilità chirurgiche, però, erano intatte. Scomparsi nell'arco di altre due settimane i problemi di memoria, Cicoria pensò che ormai la faccenda fosse definitivamente chiusa.
Ciò che accadde poi lo riempie di meraviglia ancora oggi, a distanza di dodici anni. Quando in apparenza la vita era ormai tornata alla norma, «all'improvviso, nell'arco di due o tre giorni, mi venne un insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Era proprio una cosa senza precedenti. Da bambino, mi disse, aveva preso qualche lezione di piano, «ma senza alcun reale interesse». Non aveva un pianoforte in casa. Quella che ascoltava di solito era musica rock.
Spinto da questo improvviso, intenso desiderio di musica per pianoforte, Cicoria cominciò ad acquistare dischi e si innamorò in modo particolare di un'incisione di Vladimir Aškenazi, Chopin Favorites: la Polacca «Militare», lo Studio «Vento d'inverno», lo Studio «Sui tasti neri», la Polacca in la bemolle e lo Scherzo in si bemolle minore. «Mi piacevano tutti moltissimo» mi spiegò Tony. «Volevo suonarli io. Ordinai tutti gli spartiti. A questo punto, una delle nostre baby-sitter ci chiese il permesso di portare il suo pianoforte da noi; così, proprio nel momento in cui ne desideravo immensamente uno, ecco che mi arrivava uno strumento: un piccolo piano verticale, molto bello. Per me era perfetto. Leggevo appena la musica, a malapena riuscivo a suonare, ma cominciai a imparare da autodidatta». Erano passati più di trent'anni da quelle poche lezioni prese da bambino, e le sue dita parevano rigide e legate.
E poi, subito dopo questo improvviso desiderio di pianoforte, Cicoria cominciò a sentirsi suonare in testa della musica. «La prima volta» mi disse «fu in sogno. Ero su un palco, con uno smoking addosso; stavo suonando qualcosa che avevo scritto io. Mi svegliai stupito, e la musica era ancora lì, nella mia testa. Saltai giù dal letto, e cercai di metter nero su bianco tutto quello che riuscivo a ricordare. Ma non sapevo da che parte cominciare per scrivere con le note ciò che sentivo». Il tentativo non riuscì molto bene: prima di allora, non aveva mai cercato di scrivere della musica usando la notazione. Adesso, però, ogni volta che sedeva al piano per lavorare su Chopin, ecco che subentrava la sua musica: «affiorava e mi assorbiva completamente. Era una presenza prepotente».
Proprio non sapeva che cosa pensare di questa musica perentoria che si insinuava in lui in modo quasi irresistibile, sopraffacendolo. Erano forse delle allucinazioni musicali? No, disse il dottor Cicoria, non erano allucinazioni: «ispirazione» era una parola più appropriata. La musica era là, in lui, nel profondo – o comunque da qualche parte – e tutto quello che lui doveva fare era lasciare che gli venisse incontro. «È come una frequenza, una banda radio. Se io mi apro, lei arriva. Insomma, intendo che “viene dal cielo”, come diceva Mozart».
La sua musica è incessante: «Non si esaurisce mai» continuò Cicoria. «Quanto meno, sono io che devo spegnerla».
Ora Cicoria doveva combattere non solo per imparare a suonare Chopin, ma anche per dar forma alla musica che gli scorreva continuamente in testa, provare a suonarla al piano, fissarla sulla carta. «Era una lotta terribile» mi disse. «Mi alzavo alle quattro di mattina e suonavo finché non andavo al lavoro; e quando tornavo a casa, me ne stavo al piano tutta la sera. Mia moglie non era certo contenta. Ero come posseduto».
Nel terzo mese dall'incidente, Cicoria (che un tempo era stato un tipo socievole, tutto casa e famiglia, quasi indifferente alla musica) si ritrovò così ispirato, addirittura posseduto, dalla sua nuova passione che quasi non trovava il tempo di fare altro. Gli venne in mente che forse era stato «salvato» per un motivo particolare. «Arrivai a pensare» mi raccontò «che la musica fosse l'unica ragione per la quale mi era stato concesso di sopravvivere». Gli chiesi del suo rapporto con la religione prima dell'incontro con il fulmine. Aveva ricevuto un'educazione cattolica, mi disse, ma non era mai stato troppo osservante: oltretutto, aveva qualche credenza «non proprio ortodossa», per esempio la reincarnazione.
Era giunto a convincersi di essere lui stesso protagonista di una sorta di reincarnazione: aveva subito una metamorfosi e ricevuto un dono speciale, una missione – quella di «sintonizzarsi» sulla musica che lui chiamava, solo per metà metaforicamente, «la musica venuta dal cielo». Spesso, essa si presentava come un «torrente assoluto» di note senza interruzioni fra una e l'altra – senza pause – e toccava a lui dar loro un contorno e una forma. (Mentre mi raccontava questo, mi venne in mente Caedmon, il poeta anglosassone del settimo secolo, un pastore analfabeta che si diceva avesse ricevuto l'«arte del canto» in sogno, una notte, e che aveva passato il resto della vita tessendo le lodi di Dio e del creato nei suoi inni e nelle sue poesie).
Cicoria continuò a lavorare alla tecnica del pianoforte e alla composizione. Acquistò libri sulla notazione musicale e subito si rese conto di aver bisogno di un maestro. Andava ai concerti tenuti dai suoi esecutori preferiti, ma non aveva nulla a che fare con i circoli musicali della sua città o con le attività musicali che vi si svolgevano. La sua era una ricerca solitaria, qualcosa fra lui e la sua musa.
Gli chiesi se avesse sperimentato altri cambiamenti dal giorno in cui era stato colpito dal fulmine: un nuovo apprezzamento dell'arte, forse, oppure gusti diversi nella lettura, o nuove credenze. Cicoria mi disse che dopo quella sua esperienza di quasi-morte era diventato «molto spirituale»: aveva cominciato a leggere tutti i libri che era riuscito a trovare sulle esperienze di quasi-morte o sulle persone colpite dai fulmini. Inoltre, si era fatto «un'intera biblioteca su Tesla» e aveva raccolto qualsiasi cosa riguardasse il potere, meraviglioso e terribile, dell'elettricità ad alto voltaggio. Era convinto di riuscire a vedere, a volte, «aure» di luce o di energia intorno al corpo delle persone: una cosa che non gli era mai capitata prima di essere colpito dal fulmine.
Passarono alcuni anni e, nella sua nuova vita, Cicoria non perse mai l'ispirazione, nemmeno per un momento. Continuò a lavorare a tempo pieno come chirurgo, ma il suo cuore e la sua mente erano ormai concentrati sulla musica. Nello stesso anno del suo divorzio, il 2004, ebbe uno spaventoso incidente in motocicletta, del quale non conservò alcun ricordo. La sua Harley fu tamponata da un altro veicolo e lui, incosciente e ferito in modo grave, fu ritrovato in un fosso con le ossa rotte, la milza spappolata, un polmone perforato, contusioni cardiache e, nonostante il casco, un trauma cranico. A dispetto di tutto questo, guarì completamente e in capo a due mesi era di nuovo al lavoro. Né l'incidente, né il trauma cranico e nemmeno il divorzio sembravano aver scalfito la sua passione per l'esecuzione musicale e la composizione.
Non ho mai conosciuto nessuno con una storia simile a quella di Tony Cicoria, tuttavia mi è capitato di avere pazienti nei quali l'interesse per la musica e l'arte era emerso in modo altrettanto improvviso; fra di essi c'è Salimah M., una ricercatrice chimica. Varcata da poco la soglia dei quaranta, Salimah M. cominciò ad avere brevi periodi, un minuto o anche meno, in cui provava «una strana sensazione»: a volte era, appunto, la sensazione di trovarsi su una spiaggia conosciuta in passato, mentre allo stesso tempo rimaneva del tutto cosciente di quanto la circondava ed era in grado di continuare una conversazione, di guidare l'automobile o di fare qualsiasi cosa la stesse impegnando in quel momento. Di tanto in tanto questi episodi erano accompagnati da un «sapore acido» in bocca. Pur avendo osservato tutte queste stranezze, non ritenne che avessero un'importanza neurologica. Fu solo quando ebbe un attacco di grande male nell'estate del 2003, che andò da un neurologo e fu sottoposta a delle scansioni cerebrali: gli esami rivelarono la presenza di un grosso tumore nel lobo temporale destro. Era quella la causa dei suoi strani episodi che, ora lo si capiva, erano crisi epilettiche del lobo temporale. Il tumore, secondo il medico, era maligno (sebbene si trattasse probabilmente di un oligodendroglioma, che presenta un livello di malignità relativamente basso) e doveva essere rimosso. Salimah si chiese se quella non fosse una sentenza di morte e aveva paura dell'operazione come delle sue possibili conseguenze; lei e il marito erano stati avvertiti: in seguito all'intervento avrebbero potuto verificarsi dei «cambiamenti di personalità». Di fatto, però, l'operazione andò bene, gran parte della massa tumorale fu rimossa e dopo un periodo di convalescenza Salimah poté tornare al suo lavoro di chimica.
Prima dell'intervento era una donna piuttosto riservata, che di tanto in tanto si irritava o si preoccupava per piccole cose come la polvere o il disordine; suo marito diceva che a volte era «ossessiva» a proposito delle faccende da sbrigare in casa. Ora però, dopo l'operazione, sembrava che Salimah non si lasciasse più scalfire da queste incombenze domestiche. L'inglese non era la loro prima lingua e, per dirla con le parole curiose usate dal marito, Salimah era diventata «una tipa felice». Era, dichiarò l'uomo, «una gioiologa».
Sul lavoro, la nuova allegria di Salimah era evidente. Lavorava nello stesso laboratorio da quindici anni ed era sempre stata ammirata per la sua intelligenza e la sua dedizione. Ora, però, senza aver perso nulla della sua competenza professionale, sembrava una persona molto più cordiale, profondamente comprensiva e interessata alla vita e ai sentimenti dei suoi colleghi. Là dove prima, secondo uno di loro, si era tenuta «molto sulle sue», adesso era diventata la confidente e il centro della vita sociale dell'intero laboratorio.
Anche a casa, Salimah s'era liberata di parte della sua personalità alla Marie Curie, tutta orientata al lavoro. Si concedeva del tempo libero e prese a interessarsi di più a passatempi come il cinema e le feste, godendosi moltissimo queste parentesi. E poi entrò nella sua vita un nuovo amore, una nuova passione. Come diceva lei stessa, da bambina era stata un tipo «vagamente musicale» e aveva suonato un po' il piano, ma la musica non aveva mai avuto un gran ruolo nella sua vita. Adesso era diverso. Provava un fortissimo desiderio di sentire musica, andare ai concerti, ascoltare musica classica alla radio o dai CD. Brani musicali che in precedenza non le avevano trasmesso «alcuna emozione speciale» adesso potevano spingerla all'estasi o alle lacrime. Divenne «dipendente» dall'autoradio, che ascoltava mentre si recava al lavoro. Un collega a cui era capitato di sorpassarla sulla strada che portava al laboratorio disse che la sua radio sparava musica a un volume «incredibilmente alto»: al punto da sentirla ancora a quattrocento metri di distanza. Nella sua decappottabile, Salimah stava «intrattenendo tutta la superstrada».
Come Tony Cicoria, Salimah mostrava una drastica trasformazione nel suo rapporto con la musica; se prima era stata solo vagamente interessata ad essa, ora ne ricavava emozioni intense e non poteva più farne a meno. In entrambi, Tony e Salimah, ci furono anche altri cambiamenti più generali. Un'impennata dell'emotività, come se emozioni di ogni tipo fossero state in qualche modo stimolate o liberate. «Dopo l'intervento … mi sono sentita come rinata» disse Salimah. «Questo ha cambiato la mia visione della vita e me ne ha fatto apprezzare ogni singolo istante».
È possibile che una persona sviluppi una musicofilia «pura» senza alcuna concomitante alterazione della personalità o del comportamento? Nel 2006 Rohrer, Smith e Warren descrissero proprio una situazione di questo tipo quando raccontarono il singolare caso clinico di una donna sui sessantacinque anni con un'epilessia temporale intrattabile e un focus epilettico nel lobo temporale destro. Dopo sette anni di attività epilettica, le sue crisi furono finalmente controllate con la somministrazione di lamotrigina (LTG), un farmaco anticonvulsivante. Rohrer e i suoi colleghi scrissero che prima di cominciare la cura con questo medicamento la donna
era sempre stata indifferente alla musica, non l'aveva mai ascoltata per trarne piacere, né aveva mai assistito a concerti. In questo era ben diversa dal marito e dalla figlia, che suonavano il pianoforte e il violino … Tanto la tradizionale musica thai che aveva ascoltato durante le ricorrenze familiari e gli eventi pubblici a Bangkok, quanto i generi classici e leggeri della musica occidentale, che aveva conosciuto dopo essersi trasferita nel Regno Unito, non suscitavano in lei alcuna emozione. Continuava anzi a evitare la musica quando poteva, e aveva una decisa antipatia per alcuni timbri (per esempio, chiudeva la porta per non sentire il marito che suonava il pianoforte e trovava «irritante» il canto corale).
Questa indifferenza nei confronti della musica cambiò bruscamente non appena la paziente iniziò la terapia con la lamotrigina.
Diverse settimane dopo che aveva cominciato ad assumere la LTG, si notò un profondo cambiamento nel suo apprezzamento della musica. Cercava programmi musicali alla radio e alla televisione, ascoltava i canali radiofonici di musica classica per molte ore al giorno e chiedeva di andare ai concerti. Il marito raccontò di come avesse assistito «trasfigurata» a tutta La traviata e di come si fosse infastidita per via di alcuni spettatori che chiacchieravano durante la rappresentazione. Ora la donna descriveva l'ascolto della musica classica come un'esperienza estremamente piacevole e carica di emozione. Non cantava né fischiava e non furono riscontrati altri cambiamenti nel suo comportamento o nella sua personalità. Non si rilevarono neppure tracce di disturbi del pensiero, allucinazioni o disturbi dell'umore.
Sebbene non fossero in grado di individuare la base precisa della musicofilia della loro paziente, Rohrer et al. azzardarono l'ipotesi che, negli anni in cui la donna aveva sofferto di crisi epilettiche intrattabili, potesse aver sviluppato un'intensificazione della connessione funzionale fra i sistemi percettivi dei lobi temporali e alcune parti del sistema limbico coinvolte nella risposta emozionale: una connessione divenuta evidente solo quando le sue crisi epilettiche furono controllate grazie al farmaco. Negli anni Settanta, David Bear ipotizzò che una tale iperconnessione limbico-sensoriale potesse essere alla base dell'inatteso emergere di sentimenti artistici, sessuali, mistici o religiosi che a volte ha luogo in persone con epilessia del lobo temporale. Qualcosa di simile non poteva forse essere accaduto anche a Tony Cicoria?
La scorsa primavera, Cicoria prese parte a un ritiro musicale di dieci giorni per studenti, dilettanti di talento e giovani professionisti. Il luogo dell'evento faceva anche da show-room per Erica vanderLinde Feidner, che oltre a essere una pianista è specializzata nel trovare il pianoforte perfetto per ciascuno dei suoi clienti. Tony aveva appena acquistato uno dei suoi strumenti, un Bösendorfer a coda, prototipo unico fabbricato a Vienna; Erica pensava che Tony avesse uno straordinario istinto per individuare un pianoforte che avesse esattamente il suono che desiderava lui. Secondo Cicoria, quello era un buon momento e un buon luogo per debuttare come musicista.
Per il suo concerto preparò due pezzi: il suo primo amore, lo Scherzo in si bemolle minore di Chopin; e la sua prima composizione, che aveva intitolato Rapsodia, opera 1. Il suo modo di suonare e la sua storia elettrizzarono tutti i presenti al ritiro (molti fantasticarono di poter essere a loro volta colpiti da un fulmine). Come disse Erica, Tony suonò con «gran passione, grande brio» – e se non proprio con un genio soprannaturale, quanto meno con un'abilità degna di elogio: impresa sorprendente per uno che in effetti non aveva alcuna formazione musicale e aveva imparato a suonare da autodidatta a quarantadue anni.
Il dottor Cicoria mi chiese che cosa pensassi, tutto considerato, della sua storia. Mi ero mai imbattuto in qualcosa di simile? Io gli chiesi che cosa ne pensasse lui, che interpretazione desse di quanto gli era accaduto. Mi rispose che come medico proprio non sapeva come spiegare gli eventi, e si vedeva quindi costretto a considerarli in termini «spirituali». Io ribattei che secondo me, senza nulla togliere alla dimensione spirituale, perfino gli stati della mente più esaltati e le trasformazioni più sorprendenti dovevano avere una qualche base fisica o per lo meno un correlato fisiologico nell'attività neurale.
Quando era stato colpito dal fulmine, il dottor Cicoria aveva vissuto un'esperienza di quasi-morte e, insieme, un'esperienza extracorporea. Per dare ragione di queste ultime sono state chiamate in causa molte spiegazioni soprannaturali o mistiche; esse sono state però anche oggetto – ormai da un secolo, o forse più – di indagine neurologica. Lo schema di tali esperienze sembra relativamente stereotipato: l'individuo ha la sensazione di non essere più nel proprio corpo ma fuori di esso e molto spesso lo guarda da due-tre metri di altezza (i neurologi chiamano questo dettaglio «autoscopia»). Il soggetto ha la sensazione di vedere chiaramente la stanza o lo spazio circostante, come pure le persone e gli oggetti nei pressi, ma li percepisce da una prospettiva aerea. Chi ha avuto esperienze di questo tipo spesso descrive sensazioni vestibolari, per esempio quella di «galleggiare» o di «volare» sospeso in aria. Le esperienze extracorporee possono ispirare paura o gioia o un senso di distacco; di solito però sono descritte come intensamente «reali»: assolutamente diverse da sogni o allucinazioni. Sono state riferite in molti tipi di esperienze di quasi-morte, come pure nel caso di crisi epilettiche del lobo temporale. Alcuni dati indicano che sia gli aspetti visivo-spaziali, sia quelli vestibolari delle esperienze extracorporee sono legati a un disturbo della funzione corticale, soprattutto a livello della giunzione fra lobi temporali e parietali.1
Quella descritta dal dottor Cicoria, però, non era soltanto un'esperienza extracorporea. Cicoria vide una luce bianco-azzurra, vide i suoi figli, la sua vita intera gli passò davanti agli occhi come un flash, provò un senso di estasi e, soprattutto, ebbe la percezione di qualcosa di trascendentale ed enormemente importante. Quale potrebbe essere la base neurale di tutto questo? Esperienze di quasi-morte simili a questa sono state spesso descritte da persone che si sono trovate o hanno creduto di trovarsi in grande pericolo, non importa se coinvolte in incidenti improvvisi, colpite da fulmini o, più comunemente, rianimate dopo un arresto cardiaco. Tutte queste situazioni non sono solo permeate di terrore; ci sono buone probabilità che causino anche una brusca caduta della pressione arteriosa con una riduzione del flusso ematico a livello cerebrale (e, in caso di arresto cardiaco, con una privazione di ossigeno del cervello). È probabile che in questi stati vi sia un'intensa attivazione emozionale e un'impennata di noradrenalina e altri neurotrasmettitori, indipendentemente dal fatto che l'emozione sia dominata dal terrore o dall'estasi. A tutt'oggi, non abbiamo un'idea precisa di quali possano essere gli effettivi correlati neurali di tali esperienze; le alterazioni della coscienza e dell'emozione che vi hanno luogo, tuttavia, sono molto profonde e devono coinvolgere le parti emozionali del cervello – l'amigdala e i nuclei del tronco encefalico – come pure la corteccia.2
Mentre le esperienze extracorporee hanno il carattere di un'illusione percettiva (per quanto complessa e singolare), le esperienze di quasi-morte hanno tutti i segni distintivi dell'esperienza mistica definiti da William James: passività, ineffabilità, transitorietà e una qualità noetica. Quando vive un'esperienza di quasi-morte, l'individuo è del tutto consumato, spazzato via, quasi letteralmente, in un lampo (a volte un tunnel o un imbuto) di luce, e attirato verso un Aldilà: al di là della vita, al di là dello spazio e al di là del tempo. Mentre ci si libra verso la propria destinazione, si ha la sensazione di guardare tutto per l'ultima volta, di dare un addio (estremamente accelerato) alle cose terrene, ai luoghi e alle persone e agli eventi della propria vita, insieme a un senso di estasi e di gioia: un simbolismo archetipico della morte e della trasfigurazione. Chi ha vissuto esperienze come queste non le liquida con facilità; a volte esse possono portare a una conversione o a una metanoia, ovvero a un cambiamento radicale del modo di pensare che altera la direzione e l'orientamento di tutta una vita. Non si può supporre, non più di quanto lo si possa fare nel caso delle esperienze extracorporee, che tali eventi siano pura fantasia: tutte le descrizioni enfatizzano aspetti molto simili. Anche le esperienze di quasi-morte devono avere una loro base neurologica, qualcosa che alteri profondamente la coscienza stessa.
Che pensare della straordinaria acquisizione di musicalità del dottor Cicoria, della sua improvvisa musicofilia? Pazienti con degenerazione delle parti frontali del cervello, la cosiddetta demenza fronto-temporale, vanno a volte incontro – nel momento in cui perdono le capacità di astrazione e il linguaggio – alla comparsa o alla liberazione, comunque sorprendenti, di talenti e passioni musicali; ma questo chiaramente non era il caso del dottor Cicoria, il quale rimase perfettamente in grado di esprimersi e mantenne le proprie elevate competenze sotto ogni aspetto. Nel 1984, Daniel Jacome descrisse un paziente che aveva avuto un ictus riportando danni all'emisfero sinistro del cervello; insieme all'afasia e ad altri problemi, l'uomo aveva in seguito sviluppato un'«ipermusia» e una «musicofilia». Ma nulla indicava che Tony Cicoria avesse subito un ictus o avesse sperimentato un qualsiasi danno cerebrale significativo, a parte un disturbo molto transitorio che aveva interessato i sistemi mnemonici per una o due settimane dopo il colpo inferto dal fulmine.
La sua situazione mi ricorda quella di Franco Magnani, l'«artista della memoria» di cui ho scritto altrove.3 Franco non aveva mai pensato di essere un pittore finché, all'età di trentuno anni, non sperimentò una strana crisi o malattia, forse una forma di epilessia del lobo temporale. Ogni notte sognava Pontito, il piccolo paese toscano in cui era nato; quando si svegliava, quelle immagini rimanevano intensamente vive, con tutta la loro profondità e il loro realismo («come ologrammi»). Pressoché consumato dal bisogno di rendere reali quelle immagini – di ritrarle -, Franco imparò a dipingere, imparò da solo, dedicando ogni minuto libero a produrre centinaia di scorci di Pontito.
Il fulmine che aveva colpito il dottor Cicoria poteva forse aver innescato tendenze epilettiche presenti nei suoi lobi temporali? L'insorgenza di inclinazioni musicali o artistiche in associazione a crisi epilettiche del lobo temporale è stata più volte descritta, e le persone che soffrono di tali attacchi possono anche sviluppare forti sentimenti mistici o religiosi, come era capitato a lui. D'altra parte, Cicoria non aveva descritto nulla che somigliasse a una crisi epilettica e dopo l'incidente il suo EEG era parso del tutto normale.
E poi perché nello sviluppo della sua musicofilia c'era stato quel periodo di latenza? Che cosa era accaduto nelle sei o sette settimane intercorse fra l'arresto cardiaco e l'eruzione, alquanto improvvisa, della sua musicalità? Sappiamo che il fulmine aveva prodotto conseguenze immediate: l'esperienza extracorporea, l'esperienza di quasi-morte, lo stato confusionale che seguì per qualche ora e il disturbo della memoria protrattosi un paio di settimane. Tutti questi fenomeni potevano essere stati indotti soltanto dall'anossia cerebrale, giacché il suo cervello doveva essere rimasto senza un adeguato apporto di ossigeno per un minuto o forse di più; d'altra parte, era anche possibile che il fulmine avesse avuto effetti diretti sul cervello. C'è comunque da sospettare che l'apparente guarigione del dottor Cicoria, a un paio di settimane da quegli eventi, non fosse completa come sembrava, che altre forme di danno cerebrale fossero passate inosservate, e che durante quel periodo il suo cervello stesse ancora reagendo all'insulto originale, cercando di riorganizzarsi.
Il dottor Cicoria si sente, adesso, «una persona diversa»: diversa dal punto di vista musicale, emotivo, psicologico e spirituale. Questa era anche la mia impressione mentre ascoltavo la sua storia e osservavo il manifestarsi delle nuove passioni che lo avevano trasformato. Considerandolo da un punto di vista neurologico, pensavo che il suo cervello dovesse essere molto diverso, ora, rispetto a quello che era stato prima dell'incidente o nei giorni immediatamente successivi, quando i test avevano dimostrato che nulla era fuori posto. Possiamo presumere che i cambiamenti avessero avuto luogo nelle settimane successive, quando il suo cervello si stava riorganizzando – preparandosi, in un certo senso, alla musicofilia. Era possibile adesso, a distanza di oltre dieci anni, definire quei cambiamenti, definire la base neurologica della sua musicofilia? Da quando Cicoria subì quella lesione, nel 1994, sono stati sviluppati molti nuovi test, assai più sensibili; lui stesso convenne che sarebbe stato interessante indagare ulteriormente. Un attimo dopo, però, ci aveva ripensato e disse che forse la cosa migliore era lasciare tutto com'era. Per lui, quel colpo di fulmine era stato un colpo di fortuna – e la musica, comunque fosse arrivata a lui, era stata una benedizione, una grazia: non qualcosa da sottoporre a esame.