22. Gli atleti dei piccoli muscoli: la distonia del musicista

Nel 1997 ricevetti una lettera da un giovane violinista italiano che mi raccontava come avesse iniziato a suonare il violino a sei anni, per poi entrare in conservatorio e intraprendere quindi la carriera di concertista. All'età di ventitré anni, però, aveva cominciato a incontrare difficoltà particolari con la mano sinistra – difficoltà che, scriveva, «mi hanno spezzato la carriera e la vita».

«Suonando brani di una cèrta difficoltà» continuava «mi accorsi che il medio non rispondeva ai miei comandi e tendeva impercettibilmente a spostarsi da dove io volevo metterlo sulla corda, alterando così l'altezza della nota».

Consultò un medico – uno dei molti che avrebbe sentito negli anni a venire – il quale gli disse che il sovraccarico di lavoro cui era sottoposta quella mano aveva causato «un'infiammazione dei nervi». Gli fu consigliato di riposare e di smettere di suonare per tre mesi – ma questo, come scoprì poi, non ebbe alcun effetto. Anzi, quando riprese a suonare il problema era peggiorato, e quella strana difficoltà nel controllare i movimenti del terzo dito si era estesa anche al quarto e al quinto. Adesso, l'unico a non essere colpito era il dito indice. Le dita gli «disobbedivano» soltanto quando suonava il violino, sottolineava il giovane; in tutte le altre attività funzionavano normalmente.

Proseguiva poi descrivendo un'odissea di otto anni, durante i quali aveva consultato medici, fisioterapisti, psichiatri, terapeuti e guaritori d'ogni sorta, in tutta Europa. Si era sentito formulare molte diagnosi: affaticamento muscolare, tendinite, «compressione» dei nervi. Oltre che a un intervento chirurgico per il tunnel carpale, si era sottoposto a faradizzazione dei nervi, mielogrammi, risonanze magnetiche e un'enorme quantità di fisioterapia e psicoterapia: tutto senza alcun risultato. Ora, a trentun anni, sentiva di non poter più nutrire alcuna speranza di riprendere la sua carriera. C'era anche, in lui, un profondo senso di smarrimento. Era convinto che la sua condizione fosse di natura organica, che in qualche modo scaturisse dal suo cervello e che eventuali fattori periferici – per esempio lesioni ai nervi – vi avessero avuto al massimo un ruolo sussidiario.

Aveva sentito parlare, mi scriveva, di altri esecutori con difficoltà simili. Quasi sempre un problema apparentemente banale si era aggravato, resistendo a tutti i tentativi di trattamento e ponendo fine alla carriera concertistica.

 

Nel corso degli anni avevo ricevuto un certo numero di lettere simili e avevo sempre indirizzato i miei corrispondenti a Frank Wilson, un collega neurologo che nel 1989 aveva scritto un importante articolo pionieristico, intitolato Acquisition and loss of skilled movement in musicians. Di conseguenza, io e Wilson avevamo intrattenuto per qualche tempo una corrispondenza sulla cosiddetta distonia focale dei musicisti.

Le difficoltà descritte dal mio corrispondente italiano, in realtà, non erano nulla di nuovo – tali problemi sono osservati ormai da secoli, non solo in chi suona uno strumento musicale, ma anche nel caso di numerose altre attività che richiedono l'esecuzione prolungata di movimenti rapidi e continui delle mani (o di altre parti del corpo). Nel 1833 Sir Charles Bell, il famoso anatomista, diede una descrizione dettagliata dei problemi che possono colpire le mani di chi scrive incessantemente, per esempio gli impiegati degli uffici statali. In seguito chiamò quella condizione «paralisi dello scrivano», sebbene fosse già conosciuta fra coloro che scrivevano molto come «crampo dello scrittore». Gowers, nel suo Manual del 1888 (un trattato sulle malattie del sistema nervoso), dedicò venti pagine fittissime alla discussione del crampo dello scrittore e ad altre «neurosi occupazionali»: quest'ultimo era il termine generico adottato per «un gruppo di affezioni in cui certi sintomi sono risvegliati dal tentativo di eseguire una qualche azione muscolare spesso ripetuta, solitamente implicata nell'occupazione del paziente».

«Fra gli impiegati che soffrono» di crampo dello scrittore, diceva Gowers, «i dipendenti degli uffici legali sono una frazione sproporzionata. Senza dubbio questo è dovuto alla grafia fitta e minuta con cui solitamente scrivono costoro. D'altro canto, il crampo dello scrittore è pressoché sconosciuto fra coloro che, rispetto a chiunque altro, scrivono di più e sotto maggiori pressioni, ovvero gli stenografi». Gowers attribuiva questa loro immunità a «uno stile di scrittura molto sciolto, con un movimento che parte dalla spalla e che essi adottano anche quando scrivono normalmente».113

Gowers parlava della suscettibilità di pianisti e violinisti alle loro «neurosi occupazionali» specifiche; fra le altre professioni che potevano indurre questi problemi c'erano quelle di «pittori, arpisti, fabbricanti di fiori artificiali, tornitori, orologiai, magliaie, incisori... muratori... compositori tipografici, smaltatori, confezionatori di sigarette, calzolai, mungitori, cassieri che contano denaro... e suonatori di salterio»: un vero e proprio inventario delle occupazioni vittoriane.

Gowers non considerava benigni questi problemi: «La malattia, quando ben sviluppata, è una di quelle la cui prognosi è sempre incerta e spesso non favorevole». È interessante osservare che, in un'epoca in cui sintomi di questo genere o erano attribuiti a problemi di natura periferica – muscolari, tendinei o nervosi – o erano considerati di origine isterica o «mentale», Gowers non trovasse soddisfacente né l'una né l'altra spiegazione, sebbene concedesse che tali fattori potessero avervi un ruolo sussidiario. Insisteva piuttosto sul fatto che queste «neurosi» occupazionali avessero origine nel cervello.

Una ragione di tale convinzione era il fatto che, sebbene potessero essere colpite parti del corpo diverse, tutte le occupazioni a rischio comportavano movimenti rapidi e ripetitivi di piccoli muscoli. Un'altra ragione era la coesistenza di aspetti inibitori (per esempio l'assenza di risposta o la «paralisi») con aspetti eccitatori (per esempio movimenti anomali o spasmi che aumentavano quanto più forte era il tentativo di combattere l'inibizione). Tutte queste considerazioni inducevano Gowers a ritenere le «neurosi occupazionali» alla stregua di disturbi del controllo motorio a livello cerebrale: disturbi che secondo lui potevano coinvolgere la corteccia motoria (a quell'epoca le funzioni dei gangli basali erano sconosciute).

Una volta che le «neurosi occupazionali» si sviluppavano, c'erano poche possibilità di continuare a svolgere la stessa occupazione o professione. Ma nonostante la natura misteriosa e le conseguenze invalidanti di questi disturbi, per quasi un secolo la medicina vi prestò pochissima attenzione.

Nel mondo dei concertisti era ben noto che questo terribile evento poteva essere in agguato lungo il cammino di chiunque: forse un musicista su cento sarebbe stato colpito, prima o poi, nel corso della carriera; prevaleva tuttavia un naturale riserbo, per non dire una vera e propria segretezza. Ammettere un problema del genere era qualcosa di molto simile a un suicidio professionale; era inteso che il musicista così colpito avrebbe dovuto abbandonare la carriera concertistica e dedicarsi all'insegnamento, alla direzione o alla composizione.114

Solo negli anni Ottanta, finalmente, il velo di segretezza fu squarciato con grande coraggio da due virtuosi del pianoforte: Gary Graffman e Leon Fleisher. Le loro storie erano straordinariamente simili. Fleisher, come Graffman, era stato un bambino prodigio e poi, fin dall'adolescenza, uno dei più grandi pianisti del mondo. Nel 1963, a trentacinque anni, scoprì che il quarto e il quinto dito della destra cominciavano a piegarglisi sotto la mano mentre suonava. Fleisher combattè contro questa tendenza e continuò a suonare, ma più combatteva, più lo spasmo peggiorava. Un anno dopo, fa costretto ad abbandonare l'attività di concertista. Nel 1981, intervistato da Jennifer Dunning per il «New York Times», Fleisher diede una descrizione chiara e incisiva dei problemi che avevano compromesso la sua carriera, ivi compresi tutti gli anni in cui aveva ricevuto diagnosi – e a volte trattamenti – sbagliati. Non ultimo dei suoi problemi era il fatto di non essere creduto; i suoi sintomi affioravano infatti soltanto mentre suonava il pianoforte, e pochissimi medici avevano un pianoforte in studio.

Il riconoscimento pubblico, da parte di Fleisher, della propria condizione avvenne nel 1981 subito dopo un'analoga ammissione da parte di Graffman: questo sollecitò altri musicisti a riconoscere di essere affetti da problemi simili. Tali rivelazioni stimolarono anche la medicina e la scienza a prestare attenzione a questo problema per la prima volta, dopo quasi un secolo.

Nel 1982, David Marsden, un pioniere della ricerca sui disturbi del movimento, ipotizzò che il crampo dello scrittore fosse espressione di una funzione disturbata dei gangli basali e che il disturbo fosse affine alla distonia.115 (Il termine «distonia» è stato usato a lungo per riferirsi a certi spasmi muscolari, come il torcicollo, che determinano torsioni o posture abnormi. È tipico delle distonie, come anche del parkinsonismo, che l'equilibrio reciproco fra muscoli agonisti e antagonisti sia perduto, così che invece di lavorare in modo coordinato come dovrebbero – con un gruppo che si rilassa quando l'altro si contrae – essi si contraggono insieme, producendo una contrattura o uno spasmo).

L'ipotesi di Marsden fu raccolta da altri ricercatori, e in modo particolare da Hunter Fry e Mark Hallett dei National Institutes of Health, i quali iniziarono una ricerca intensiva sulle distonie focali compito-specifiche come il crampo dello scrittore e la distonia del musicista. Invece di considerarle in termini esclusivamente motori, però, Fry e Hallett si chiesero anche se i movimenti rapidi e ripetitivi non potessero causare un sovraccarico sensoriale in grado di dar poi luogo a una distonia, con un fenomeno a cascata.116

Allo stesso tempo, Frank Wilson, che era da tempo affascinato dalla velocità e dall'abilità delle mani dei pianisti e dagli infortuni «distonici» da cui potevano essere colpite, si ritrovò a pensare in termini generali al tipo di sistemi di controllo che dovevano essere implicati nell'esecuzione ripetuta e «automatica» di sequenze complicate e velocissime di piccoli movimenti precisi delle dita, con un perfetto equilibrio reciproco di muscoli agonisti e antagonisti. Secondo Wilson, un tale sistema – che implica il coordinamento di molte strutture cerebrali (corteccia sensoria e motoria, nuclei talamici, gangli basali e cervelletto) – opererebbe al massimo della sua capacità funzionale (o molto vicino ad esso). «Il musicista lanciato in un'esecuzione a gran velocità» scrisse nel 1988 «è un miracolo operazionale, che tuttavia presenta vulnerabilità peculiari e a volte imprevedibili».

Negli anni Novanta si erano ormai resi disponibili gli strumenti per un'indagine minuziosa; poiché la distonia focale sembrava essere un problema motorio, la prima sorpresa fu la scoperta che in realtà vi avevano un ruolo importantissimo alcuni disturbi del sistema sensoriale. Il gruppo di Hallett scoprì che la mappatura delle mani distoniche a livello della corteccia sensoriale era disorganizzata sia dal punto di vista funzionale, sia da quello anatomico. Queste alterazioni erano massime per le dita più colpite. Con l'insorgere della distonia, le rappresentazioni sensoriali delle dita colpite dal disturbo cominciavano ad allargarsi eccessivamente, e poi a sovrapporsi e a fondersi, a «de-differenziarsi». Questo portava a un deterioramento della discriminazione sensoriale e a una potenziale perdita di controllo, che l'esecutore di solito combatteva aumentando l'esercizio e la concentrazione o suonando con maggior energia. Si sviluppava allora un circolo vizioso fra input sensoriale abnorme e output motorio, esso pure abnorme.

Altri scienziati scoprirono la presenza di alterazioni nei gangli basali (i quali, insieme alla corteccia sensoriale e motoria, formano un circuito essenziale per il controllo del movimento). Era la distonia a causare queste alterazioni, oppure esse erano primarie, e predisponevano al disturbo alcuni individui suscettibili? Il fatto che nei pazienti distonici la corteccia sensomotoria presentasse delle alterazioni anche sul lato «normale» indicava che queste alterazioni erano in effetti primarie, e che probabilmente vi era una predisposizione genetica alla distonia, che poteva diventare evidente solo dopo anni di movimenti rapidi e ripetitivi eseguiti da gruppi di muscoli adiacenti.

Oltre alle vulnerabilità genetiche, potrebbero esserci, come ha sottolineato Wilson, significative considerazioni biomeccaniche: la forma delle mani di un pianista e il modo in cui egli le tiene, per esempio, potrebbero avere un ruolo nel determinare se – dopo anni di intenso esercizio e di esecuzioni – egli sarà colpito, oppure no, dalla distonia.117

Il fatto che anormalità corticali simili possano essere indotte sperimentalmente nelle scimmie ha consentito a Michael Merzenich e ai suoi colleghi di San Francisco di studiare a fondo un modello animale della distonia focale, e di dimostrare la presenza sia di feedback anormali nel circuito sensoriale, sia di output motori impropri che, una volta iniziati, continuano inesorabilmente a peggiorare.118

La plasticità corticale che consente alla distonia focale di svilupparsi non potrebbe essere utilizzata anche per correggerla? In Germania, Victor Candia e i suoi colleghi hanno usato il riaddestramento sensoriale per ridifferenziare le rappresentazioni deteriorate delle dita. Sebbene l'investimento di tempo e di fatica sia considerevole e il successo non sia assicurato, essi hanno dimostrato che almeno in alcuni casi questa «riaccordatura» sensomotoria può ripristinare una relativa normalità nel movimento delle dita e nella sua rappresentazione corticale.

Nella genesi della distonia focale è implicata una sorta di apprendimento perverso, e una volta che le mappe della corteccia sensoriale sono state alterate, per consentire un sano ri-apprendimento occorre un massiccio dis-apprendimento. E come tutti gli insegnanti e gli allenatori ben sanno, il disapprendimento è difficilissimo, a volte impossibile.

 

Un approccio completamente diverso fu introdotto verso la fine degli anni Ottanta: una forma di tossina botulinica, che in forti dosi causa la paralisi, era stata usata in dosi piccolissime in situazioni nelle quali i muscoli sono così tesi o in condizioni di tale spasmo da non consentire il movimento. Mark Hallett e il suo gruppo hanno svolto un lavoro pionieristico nell'uso sperimentale del Botox per trattare la distonia del musicista e hanno scoperto che piccole iniezioni ben localizzate possono permettere un livello di rilassamento muscolare che non innesca il feedback caotico – i programmi motori aberranti – della distonia focale. Tali iniezioni, sebbene non sempre efficaci, hanno consentito ad alcuni musicisti di riprendere a suonare i loro strumenti.

Il Botox non rimuove la predisposizione neurale e forse genetica alla distonia, pertanto tentare di tornare a suonare potrebbe essere poco saggio o scatenare nuove ricadute. Questo fu il caso, per esempio, di Glen Estrin, un talentuoso cornista che aveva sviluppato una distonia dell'imboccatura interessante i muscoli della parte inferiore della faccia, delle mascelle e della lingua. Sebbene le distonie della mano di solito si manifestino solo nell'atto particolare di suonare (ed è per questo che vengono dette «compito-specifiche») le distonie della parte inferiore della faccia e delle mascelle possono comportarsi diversamente. Steven Frucht e i suoi colleghi, in uno studio pionieristico su ventisei suonatori professionisti di strumenti a fiato affetti da questo tipo di distonia, osservarono che in più di un quarto di loro il disturbo si estendeva ad altre attività. Questo accadde anche nel caso di Estrin, che sviluppò movimenti invalidanti della bocca non solo quando suonava il corno, ma anche quando mangiava o parlava, con grave compromissione della sua vita quotidiana.

Estrin è stato curato col Botox ma ha smesso di suonare per il pericolo di ricadute e per la natura invalidante dei suoi sintomi. Si è invece concentrato sul lavoro con Musicians with Dystonia, un gruppo che lui stesso ha fondato nel 2000 insieme a Frucht per pubblicizzare questo problema e aiutare i musicisti che combattono contro di esso. In passato, musicisti come Fleisher e Graffman, o come il violinista italiano che mi scrisse nel 1997, potevano attendere anni senza ricevere una diagnosi o un trattamento appropriati; oggi, invece, la situazione è cambiata. I neurologi sono molto più consapevoli della distonia del musicista proprio come lo sono, del resto, gli stessi interessati.

 

Recentemente Leon Fleisher è venuto a trovarmi qualche giorno prima di tenere un concerto alla Carnegie Hall. In quell'occasione mi ha parlato di come la sua distonia fosse comparsa la prima volta. «Ricordo bene il pezzo che la fece affiorare» ha raccontato: si stava esercitando sulla Wanderer-Fantasie di Schubert e ci lavorava otto o nove ore al giorno. Poi aveva dovuto prendersi un riposo forzato in seguito a un piccolo incidente al pollice della mano destra, e per qualche giorno non potè suonare. Fu quando tornò alla tastiera, dopo la pausa, che osservò il quarto e il quinto dito di quella mano cominciare a ripiegarsi sotto di essa. La sua reazione era stata di continuare a lavorarci sopra, proprio come spesso si dice agli atleti di «lavorare» sul dolore. Ma, come ha osservato lui stesso, «i pianisti non dovrebbero lavorare sul dolore né su altri sintomi.

Io metto in guardia gli altri musicisti perché non lo facciano. Dico loro di trattarsi come atleti dei piccoli muscoli. Essi pretendono dai piccoli muscoli delle mani e delle dita prestazioni straordinarie».

Nel 1963, tuttavia, quando il suo problema era appena insorto, Fleisher non aveva nessuno che potesse consigliarlo e non aveva la minima idea di che cosa stesse accadendo alla sua mano. Si impose di lavorare di più – e mentre altri muscoli venivano coinvolti nel disturbo, da parte sua occorse uno sforzo sempre maggiore. Ma quanto più si esercitava, tanto più la situazione si aggravava, finché a un certo punto, dopo un anno, rinunciò alla lotta. «Quando gli dèi ce l'hanno con te,» mi ha confidato «sanno benissimo dove colpirti».

Ebbe un periodo di profonda depressione e disperazione, durante il quale pensò che la sua carriera di concertista fosse finita. Gli era sempre piaciuto insegnare, però, e si dedicò anche alla direzione. Negli anni Settanta fece una scoperta, e a posteriori si sorprende di non esserci arrivato prima. Paul Wittgenstein, il pianista viennese con un braccio solo, aveva commissionato (essendo immensamente ricco) ai più grandi compositori del mondo – Prokof'ev, Hindemith, Ravel, Strauss, Korngold, Britten e altri – brani per pianoforte e concerti da eseguire con la sola mano sinistra. E questo fu il tesoro scoperto da Fleisher, il tesoro che gli permise di riprendere la sua carriera di concertista; ora però, come Wittgenstein e Graffman, nelle vesti di pianista con una mano sola.

All'inizio, suonare solo con la mano sinistra parve a Fleisher una grandissima perdita, una limitazione delle possibilità, ma a poco a poco arrivò a capire che era vissuto «in automatico», seguendo un percorso brillante ma (in un certo senso) unidirezionale. «Tieni i concerti, suoni con le orchestre, incidi i dischi... e questo è quanto, finché non ti viene un infarto sul palco e muori». Adesso, invece, cominciò a capire che la sua perdita poteva essere «un'esperienza di crescita».

«Improvvisamente mi resi conto che la cosa più importante della mia vita non era suonare con due mani: era la musica... Per poter attraversare questi ultimi trenta o quarant'anni, ho dovuto in qualche modo smorzare l'enfasi sul numero delle mani o delle dita e tornare al concetto di musica come musica. La strumentazione perde importanza, e a prendere il sopravvento sono la sostanza e il contenuto».

E tuttavia, per tutti questi decenni Fleisher non ha mai accettato completamente l'irreversibilità della sua condizione di pianista con una mano sola. «Così come mi ha colpito,» pensava «potrebbe anche andarsene».

Ogni mattina, per più di trentanni, ha verificato le condizioni della sua mano, sempre sperando.

Verso la fine degli anni Ottanta Fleisher conobbe Mark Hallett e provò il trattamento con il Botox; nel suo caso però sembrava occorrere un trattamento aggiuntivo – il Rolfing – per sciogliere i muscoli distonici della mano e del braccio: una mano così contratta che non riusciva più ad aprirla, e un braccio «duro come legno pietrificato». Per Fleisher l'associazione di Rolfing e Botox ha rappresentato la svolta: nel 1996 è riuscito a tenere un concerto suonando a due mani con la Cleveland Orchestra, e nel 2003 si è esibito in un recital come solista alla Carnegie Hall. Fleisher ha intitolato la sua prima incisione a due mani dopo quarant'anni Two Hands – due mani.

Non sempre il trattamento con il Botox funziona; la dose, che va ripetuta a distanza di qualche mese, deve essere perfettamente calibrata, altrimenti indebolirà troppo i muscoli. Fleisher però è stato uno dei fortunati: con delicatezza, umiltà, gratitudine e cautela è tornato a suonare a due mani; ma non dimentica mai, nemmeno per un istante, che – come dice lui stesso – «distonico una volta, distonico per sempre».

Fleisher adesso è tornato a esibirsi in tutto il mondo, e parla del proprio ritorno come di una rinascita, «uno stato di grazia, di estasi». La situazione, tuttavia, è delicata. Continua a sottoporsi regolarmente al Rolfing e fa esercizi di stretching con tutte le dita, prima di mettersi a suonare. Sta attento a evitare musica "pericolosa" («con troppe scale»), che potrebbe innescare la distonia. Di tanto in tanto, poi, «ridistribuisce parte del materiale», come dice lui, modificando la diteggiatura e passando alla mano sinistra quello che per la destra potrebbe essere troppo impegnativo.

Alla fine del nostro incontro, Fleisher ha accettato di suonare qualcosa sul mio pianoforte, un bellissimo, vecchio Bechstein a coda del 1894 insieme al quale sono cresciuto: il pianoforte di mio padre. Fleisher si è seduto alla tastiera e con cautela si è stirato le mani, un dito alla volta, e poi, con braccia e mani quasi allineate, ha cominciato a suonare. Era una trascrizione per pianoforte di Schafe können sicher weiden di Bach, arrangiata per pianoforte da Egon Petri. Pensai che mai, nei suoi 112 anni di vita, quel pianoforte era stato suonato da un tal maestro: avevo la sensazione che Fleisher avesse colto, nel giro di qualche secondo, il carattere dello strumento e le sue particolarità, che avesse adattato il proprio modo di suonare per estrarre dal mio Bechstein tutto il suo potenziale e la sua personalità. Come un alchimista, Fleisher sembrava distillare la bellezza goccia a goccia, in un flusso di note: una bellezza quasi insostenibile. E a quel punto non rimase nient'altro da dire.