25. Lamentazioni: musica e depressione

Robert Burton, in Anatomia della malinconia, scrisse a lungo sul potere della musica, e John Stuart Mill, da giovane, scoprì che quando precipitava in uno stato di malinconia o anedonia, la musica – e la musica soltanto – aveva il potere di aprirsi un varco in quel suo malessere, dandogli almeno per un po' una sensazione di piacere e di vitalità. Si pensa che la depressione di Mill fosse causata dal regime inumano impostogli dal padre, che fin da quando aveva tre anni pretese da lui un lavoro intellettuale incessante (e dei risultati) facendo ben poco per assecondare, o almeno riconoscere, le sue esigenze emotive. Non sorprende quindi che – raggiunta l'età adulta – il giovane prodigio avesse avuto una crisi e fosse entrato in una condizione in cui nulla poteva dargli piacere, salvo la musica. Nel suo amore per le melodie allegre e vivaci, certo non era schizzinoso: Mozart, Haydn e Rossini erano tutti ugualmente di suo gusto. Il suo unico timore era di poter esaurire il repertorio musicale e non aver più nulla a cui aggrapparsi.

Il bisogno continuo e generico di musica descritto da Mill è distinto dall'effetto cruciale che certi brani particolari possono esercitare in momenti specifici.

William Styron, nel suo diario Un oscurità trasparente, descrisse un'esperienza simile, in un momento in cui arrivò molto vicino al suicidio:

 

Mia moglie era già andata a letto, e io ero rimasto alzato, costringendomi guardare... un film... L'azione era ambientata a Boston, alla fine dell'Ottocento. A un certo punto, mentre i personaggi camminavano lungo il corridoio di un conservatorio, dalle pareti (i musicisti non si vedevano) giunse una voce di contralto e si librò all'improvviso nell'aria un brano della Rapsodia per contralto di Brahms.

Questo suono, che, come ogni forma di musica, anzi, di piacere, mi aveva lasciato indifferente per mesi e mesi, trafisse il mio cuore come un pugnale, e mi sommerse all'istante una marea impetuosa di ricordi, tutte le gioie che quella casa aveva conosciuto: le corse dei bambini per le stanze, l'allegria, l'amore e il lavoro...

 

Ho avuto io stesso qualche esperienza simile, in cui la musica, per usare le parole di Styron, «trafisse il mio cuore», quando nient'altro poteva farlo: soprattutto, forse, nel lutto.

Ero molto affezionato alla sorella di mia madre, zia Len. Pensavo spesso che quando fui allontanato da casa, da bambino – sfollato da Londra durante la guerra -, lei avesse salvato se non proprio la mia vita, la mia salute mentale. La sua morte aprì un'improvvisa, enorme voragine nella mia esistenza, ma per qualche ragione avevo difficoltà a elaborare il lutto. Ripresi il lavoro, la vita quotidiana, funzionando in modo meccanico; dentro però ero in uno stato di anedonia, torpidamente insensibile a qualsiasi piacere – e anche alla tristezza. Una sera andai a un concerto, sperando fino all'ultimo che la musica potesse rianimarmi, ma non funzionò; tutto il concerto mi annoiò – fino all'ultimo pezzo. Era un brano che non avevo mai ascoltato prima, di un compositore che non avevo mai sentito, Le lamentazioni di Geremia di Jan Dismas Zelenka (un compositore minore ceco, contemporaneo di Bach, come appresi in seguito). All'improvviso, mentre ascoltavo, mi ritrovai con gli occhi pieni di lacrime. Le mie emozioni, congelate per settimane, avevano ricominciato a scorrere. Le Lamentazioni di Zelenka avevano abbattuto la diga, lasciando fluire il sentimento che era rimasto bloccato e immobilizzato dentro di me.

Una reazione simile è stata descritta da Wendy Lesser nel suo libro Room for Doubt. Anche lei perse qualcuno di nome Lenny – nel suo caso, invece di una cara zia, un caro amico. Là dove per me l'agente liberatore dell'emozione, il fattore catartico, era stato Zelenka con le sue Lamentazioni, per Wendy Lesser era stato il Requiem di Brahms:

 

Quell'esecuzione del Requiem di Brahms ebbe su di me un effetto potente. Andai a Berlino pensando che avrei scritto di David Hume... ma... mentre le onde della musica si riversavano su di me – ascoltavo, così mi sembrava, con tutto il corpo e non solo con le orecchie – mi resi conto che invece avrei dovuto scrivere di Lenny.

Fino ad allora mi ero portata dietro la sua morte come un pacchetto chiuso: un pacchetto chiuso e congelato al cui contenuto non potevo arrivare, ma di cui non potevo nemmeno disfarmi... Non solo Lenny era stato congelato: anch'io. Tuttavia, non appena mi sedetti nella Berliner Philarmonie, e ascoltai le voci del coro cantare le loro incomprensibili parole, qualcosa in me si riscaldò e si ammorbidì. Per la prima volta dopo mesi, tornai a esser capace di «sentire».

 

Quando ricevetti la notizia della morte di mia madre, volai immediatamente a Londra, a casa dei miei genitori, dove, per una settimana, osservammo la shivah per lei. Mio padre, i miei tre fratelli e io, insieme ai fratelli e alle sorelle di mia madre, sedemmo tutti su degli sgabelli bassi, sostenuti emotivamente e fisicamente da una processione continua di parenti e amici che ci portavano cibo e ricordi. Molti dei pazienti e degli allievi di mia madre vennero a porgerci le loro condoglianze, e questo fu molto commovente. Ovunque c'era calore, premura, amore, sostegno, un flusso e una condivisione di sentimenti. Ma dopo quella settimana, quando me ne tornai a New York, nel mio appartamento vuoto e freddo, i miei sentimenti si «congelarono» e io sprofondai in quella che viene inadeguatamente definita «depressione».

Per settimane continuai ad alzarmi, vestirmi, prendere l'auto, andare al lavoro, visitare i pazienti, cercare di avere un aspetto normale. Ma dentro ero morto, senza vita come uno zombie. Poi, un giorno, mentre stavo percorrendo a piedi la Bronx Park East, mi sentii all'improvviso più leggero, rianimato nell'umore, percepii un improvviso sussurro – o un segno – di vita, di gioia. Solo allora mi accorsi che stavo ascoltando della musica, sebbene così tenue che avrebbe anche potuto esser solo una mia costruzione, o un mio ricordo. Mentre procedevo, la musica divenne più forte, finché arrivai alla sua fonte, una radio che riversava Schubert dalla finestra di un seminterrato. La musica mi penetrò, liberando una cascata di immagini e sentimenti – ricordi d'infanzia, ricordi di vacanze estive passate tutti insieme e dell'entusiasmo di mia madre per Schubert (spesso cantava, un po' stonata, il suo Nachtgesang). Mi ritrovai non solo a sorridere per la prima volta dopo settimane, ma a ridere forte – e a sentirmi nuovamente vivo.

Volevo fermarmi un po' accanto alla finestra di quel seminterrato: Schubert e solo Schubert, pensavo, era la vita. Solo la sua musica conteneva il segreto necessario a tenermi vivo. Ma avevo un treno da prendere, e continuai a camminare. E ripiombai nella depressione.

Qualche giorno dopo, per caso, venni a sapere che il grande baritono Dietrich Fischer-Dieskau avrebbe eseguito la Winterreise di Schubert alla Carnegie Hall. I biglietti erano tutti esauriti, ma io mi unii alla folla fuori del teatro nella speranza di entrare, e riuscii ad acquistare un biglietto per un centinaio di dollari. Nel 1973 era una somma enorme e a quell'epoca i miei guadagni erano modesti, ma mi parve che fosse un piccolo prezzo da pagare per la mia vita (fu così che presentai la cosa a me stesso). Ma quando Fischer-Dieskau aprì bocca per cantare le prime note, mi resi conto che qualcosa proprio non andava. Come sempre, era tecnicamente impeccabile, ma per qualche ragione il suo canto mi parve assolutamente piatto, orribilmente privo di vita. Intorno a me la gente sembrava soggiogata, rapita, e ascoltava con un'espressione profonda e impenetrabile. Decisi che stavano tutti simulando – educatamente fìngendo di essere commossi, quando sapevano benissimo, proprio come me, che Fischer-Dieskau aveva perso quel calore e quella sensibilità meravigliosi di cui un tempo la sua voce era pervasa. Ovviamente, lo capii in seguito, mi sbagliavo di grosso. Il giorno dopo i critici furono concordi nel dire che Fischer-Dieskau non era mai stato così grande. Ero io, dunque, di nuovo senza vita, ancora una volta chiuso in un bozzolo e congelato – congelato a tal punto che nemmeno Schubert poteva arrivare a toccarmi.

Forse mi stavo difendendo, stavo erigendo un muro intorno a me, per arginare sentimenti che minacciavano di schiacciarmi; forse, più semplicemente, pretendevo che la musica facesse effetto, sebbene l'esperienza mi avesse dimostrato che pretendere non funziona.

Il potere della musica, che sia gioioso o catartico, deve coglierti di sorpresa, arrivare spontaneamente, come una benedizione o una grazia – come quando la musica era uscita dalla finestra di quel seminterrato, o quando mi ero lasciato aprire, inerme, alla struggente eloquenza delle Lamentazioni di Zelenka. («Le arti non sono farmaci» scrisse una volta E. M. Forster. «Non c'è garanzia che una dose faccia effetto. Prima che possa agire, occorre che venga liberato qualcosa di misterioso e capriccioso come l'impulso creativo»).

John Stuart Mill voleva della musica allegra, che per lui sembrava funzionare come un tonico; Wendy Lesser e io, invece, entrambi alle prese con la perdita di una figura amata, avevamo bisogni molto diversi, e molto diversa fu anche la nostra esperienza con la musica. Non è una coincidenza che a sciogliere il nostro dolore e a consentire all'emozione di tornare a scorrere sia stato un requiem nel suo caso, e una lamentazione nel mio: musica appositamente concepita per la perdita e la morte, forse l'unica che poteva parlare alla nostra condizione.

Lo psichiatra Alexander Stein ha descritto la sua esperienza dell'11 settembre: abitava proprio di fronte al World Trade Center e vide le torri mentre furono colpite, le osservò crollare e poi si ritrovò in mezzo alla folla terrorizzata che fuggiva per strada, senza sapere se sua moglie fosse viva o morta. Rimasero entrambi senza un tetto per i tre mesi successivi. Durante quel periodo, scrive,

 

il mio mondo interiore era dominato da una cappa densa e silenziosa, come un'intera modalità di esistenza sotto vuoto, senz'aria. La musica, anche il consueto ascolto interiore di opere particolarmente amate, era stata zittita. Paradossalmente, per altri aspetti, la vita nella sfera uditiva era stata oltremodo potenziata, ma adesso sembrava regolata su uno spettro ristretto di suoni: le mie orecchie erano sintonizzate soprattutto sul rombo dei caccia e sul lamento delle sirene, sulla voce dei miei pazienti e sul respiro di mia moglie, la notte.

 

Fu solo dopo diversi mesi, scrive Stein, che «finalmente la musica fece ritorno per me e in me come parte della vita». La prima cosà che udì dentro di sé furono le Variazioni Goldberg di Bach.

Recentemente – era il quinto anniversario dell'11 settembre -, durante il mio giro mattutino in bicicletta a Battery Park, sentii della musica mentre mi avvicinavo alla punta di Manhattan: vidi una folla silenziosa che guardava verso il mare, ascoltando un giovane che suonava sul suo violino la Ciaccona in re minore di Bach, e mi unii a loro. Quando la musica finì e la folla si disperse in silenzio, era chiaro che Bach aveva donato a tutti una profonda consolazione, e lo aveva fatto in un modo che non sarebbe mai stato possibile con le parole.

La musica, unica fra le arti, è al tempo stesso completamente astratta e profondamente emozionale. Non ha il potere di rappresentare nulla di particolare né alcun oggetto esterno, ma ha la capacità esclusiva di esprimere sentimenti o stati interiori. La musica può penetrarti il cuore direttamente: non ha bisogno di mediazione. Non occorre sapere nulla di Bidone ed Enea per essere toccati dal lamento della regina: chiunque abbia perduto qualcuno sa bene che cosa stia esprimendo. Qui, infine, c'è un paradosso profondo e misterioso: perché proprio mentre questa musica fa vivere in modo più intenso l'esperienza del dolore e del lutto, al tempo stesso dona sollievo e consolazione.