20. Melodia cinetica: il morbo di Parkinson e la musicoterapia
Nel 1628, scrivendo a proposito del movimento animale, William Harvey lo definì «la musica silenziosa del corpo». I neurologi usano spesso metafore simili: per esempio parlano del movimento attribuendogli, in condizioni normali, naturalezza e fluidità, e definendo lo una «melodia cinetica». Nel parkinsonismo e in alcuni altri disturbi questo flusso di movimento così spontaneo e pieno di grazia è compromesso, e in tal caso i neurologi parlano di «balbuzie cinetica». Quando camminiamo, i nostri passi sono inseriti in un flusso ritmico: un flusso automatico e auto-organizzato. Nel parkinsonismo, questa normalità, questo felice automatismo è perduto.
L'ambiente familiare in cui sono nato era permeato di musica e fin dai primi anni di vita, a livello personale, la musica è stata per me molto importante; tuttavia fu solo nel 1966 – quando cominciai a lavorare al Beth Abraham Hospital, un cronicario del Bronx – che mi imbattei in essa in un contesto clinico. La mia attenzione fu subito attratta da un certo numero di pazienti stranamente immobili, che a volte parevano come in trance: erano i sopravvissuti all'encefalite dei quali avrei poi scritto in Risvegli All'epoca ve n'era ancora un'ottantina: li vedevo nell'atrio, nei corridoi e nei reparti, a volte in strane posizioni, assolutamente immobili, congelati in uno stato simile alla trance. (Alcuni di questi pazienti, lungi dall'essere così pietrificati si trovavano nella condizione opposta: uno stato di attività forzata quasi continua, in cui ogni movimento era accelerato, eccessivo ed esplosivo). Tutti, scoprii, erano stati vittime dell'encefalite letargica, l'epidemia dilagata in tutto il mondo subito dopo la prima guerra mondiale; alcuni di loro erano rimasti così congelati da quando erano entrati in ospedale quarant'anni prima, o anche di più.
Nel 1966, non esistevano farmaci di una qualche utilità per questi pazienti; quanto meno nessun medicamento per quel loro essere congelati, per quella loro immobilità parkinsoniana. Era tuttavia ben noto a medici e infermiere che a volte questi pazienti potevano muoversi con una spontaneità e un'eleganza che parevano smentire il loro parkinsonismo – e che di fatto lo strumento più potente per creare tali occasioni era la musica.
Di solito, questi pazienti postencefalitici, come del resto anche quelli con il Parkinson comune, avevano difficoltà a prendere qualsiasi iniziativa; spesso però erano in grado di rispondere. Molti potevano afferrare e rimandare una palla se gliela si lanciava, e quasi tutti tendevano a reagire in qualche modo alla musica. Alcuni, pur non potendo avviare da soli nemmeno un passo, si lasciavano trascinare nella danza e riuscivano a ballare muovendosi armoniosamente. Altri erano a malapena in grado di pronunciare una sillaba; la loro voce, quando potevano parlare, mancava di tono e di forza, era quasi spettrale. In certe occasioni, però, questi pazienti riuscivano a cantare con voce forte e chiara, mostrando di possedere una forza vocale integra e una gamma normale di espressioni e di toni. Altri pazienti ancora potevano camminare e parlare, ma solo in modo frammentario e a scatti, senza che il movimento seguisse un tempo costante e a volte con incontenibili accelerazioni: nel caso di questi soggetti la musica riusciva a modulare il flusso del movimento o della parola, conferendo loro la costanza e il controllo di cui mancavano.103
Sebbene negli anni Sessanta la «musicoterapia» non fosse ancora un'area di specializzazione professionale, il Beth Abraham aveva – fatto inconsueto – la sua musicoterapeuta, una donna piena di energia di nome Kitty Stiles (allorché la conobbi doveva essere già oltre gli ottanta, ma me ne resi conto solo quando morì, ormai quasi centenaria: possedeva la vitalità di una persona molto più giovane).
Kitty aveva una simpatia e una sensibilità speciali per i nostri pazienti postencefalitici, e nei decenni che precedettero la disponibilità di farmaci come la L-dopa solo lei era in grado di riportarli alla vita con la sua musica. Nel 1973, quando girammo un documentario su questi pazienti, il regista Duncan Dallas mi chiese immediatamente: «Posso incontrare la musicoterapeuta? Pare che sia la persona più importante, qui dentro». Era stato davvero così, prima della L-dopa; e continuò a esserlo anche in seguito, quando in molti pazienti gli effetti del farmaco divennero erratici e instabili.
Il potere della musica è noto da millenni, ma l'idea di una musicoterapia strutturata emerse soltanto durante la prima e la seconda guerra mondiale, quando un gran numero di soldati feriti furono ricoverati in ospedali per i veterani; in quelle circostanze si scoprì che il loro dolore, la loro sofferenza e perfino – pareva – alcune risposte fisiologiche (pulsazioni, pressione ematica e simili) potevano essere alleviati o migliorati dalla musica. In molti ospedali per veterani, medici e infermiere cominciarono a invitare musicisti affinché suonassero per pazienti, e gli artisti erano ben felici di portare la loro musica negli spaventosi reparti dov'erano ricoverati i feriti di guerra. Presto fu evidente, però, che entusiasmo e generosità non bastavano: occorreva anche, in una certa misura, una formazione professionale.
Il primo programma ufficiale di musicoterapia fu istituito nel 1944 presso la Michigan State University; la National Association for Music Therapy fu fondata nel 1950. Per tutto il successivo quarto di secolo, tuttavia, la musicoterapia continuò a essere scarsamente riconosciuta. Io non so se Kitty Stiles, la nostra musicoterapeuta al Beth Abraham, avesse ricevuto un'istruzione specifica, né se fosse una musicoterapeuta diplomata; in ogni caso, aveva un immenso talento intuitivo che le permetteva di presagire quale intervento avrebbe fatto muovere i nostri pazienti, per quanto regrediti o disabili potessero sembrare. Come per qualsiasi altra terapia strutturata, il lavoro di un musicoterapeuta con i singoli pazienti fa appello all'empatia e all'interazione personale, e in questo Kitty era abilissima. Era anche un'audace improvvisatrice e una donna molto allegra: tanto alla tastiera, quanto nella vita; senza queste qualità, ho il sospetto che molti dei suoi sforzi sarebbero stati inutili.104
Una volta invitai il poeta W. H. Auden a una delle sedute di Kitty, e lui rimase meravigliato di fronte alle istantanee trasformazioni che la musica può produrre; esse gli fecero pensare a un aforisma di Novalis: «Ogni malattia è un problema musicale; ogni cura è una soluzione musicale». Sembrava una descrizione quasi letterale di questi pazienti profondamente parkinsoniani.
Il parkinsonismo è definito di solito come un «disturbo del movimento»; quando è in forma grave, però, non compromette solo il movimento, ma anche il flusso della percezione, del pensiero e del sentimento. Questo disturbo può assumere molte forme; a volte – come implica l'espressione «balbuzie cinetica» – manca un flusso armonioso di movimenti, che sono invece frammentari, caratterizzati da scatti, avvii e inceppamenti. La balbuzie parkinsoniana (come quella verbale) può rispondere molto bene al ritmo e al flusso della musica, purché la musica sia del tipo «giusto» – e il tipo giusto è unico per ciascun individuo. Per una delle mie pazienti postencefalitiche, Frances D., la musica non era meno potente di un farmaco. Un minuto prima la vedevo compressa, contratta e bloccata, oppure agitata da movimenti a scatto, tic e discorsi incoerenti: una sorta di bomba a orologeria umana. Se le facevamo ascoltare della musica, un minuto dopo tutti quei fenomeni esplosivi-ostruttivi scomparivano, sostituiti da una beata facilità e fluidità di movimento; improvvisamente liberata dei suoi automatismi, la signora D., sorridente, si metteva a «dirigere» la musica, oppure si alzava e cominciava a ballare. Nel suo caso, tuttavia, era necessario che la musica fosse un legato) uno staccato, una musica percussiva avrebbero sortito infatti un bizzarro effetto contrario, facendola sobbalzare e scattare in balìa del ritmo, come una bambola meccanica o una marionetta. In generale, per i pazienti parkinsoniani, la musica «giusta» non deve soltanto essere legata, ma avere anche un ritmo ben definito. Se, d'altro canto, il ritmo è troppo forte, dominante o invadente, i pazienti possono trovarsi spinti o trascinati da esso, senza potersene in alcun modo difendere. Nel parkinsonismo, il potere della musica non dipende dal fatto che il paziente la conosca bene e nemmeno dal fatto che la apprezzi; in generale, però, essa funziona meglio quando è familiare e gradita.
Un'altra paziente, Edith T., ex insegnante di musica, parlava del suo bisogno di musica. Raccontava di come il parkinsonismo avesse significato per lei la «perdita della grazia», di come i suoi movimenti fossero diventati «legnosi, meccanici, come quelli di un robot o di una bambola». Aveva perso la naturalezza e la musicalità del movimento; per dirla in una parola, il parkinsonismo l'aveva «smusicata». Ma quando era bloccata o congelata, perfino immaginare la musica bastava a restituirle la capacità di agire. Ora, come diceva lei stessa, poteva danzare «fuori dal fotogramma», fuori dal paesaggio piatto e cristallizzato di cui era prigioniera, e muoversi liberamente, con grazia: «Era come ricordarmi all' improvviso di me stessa, della mia melodia vitale». Ma poi, con la stessa subitaneità, la musica interiore cessava e lei ripiombava ancora una volta nell'abisso del parkinsonismo. Altrettanto impressionante, e per certi versi analoga, era la capacità di Edith di servirsi, condividendole, delle capacità deambulatone altrui: era facile e automatico, per lei, camminare insieme a un'altra persona, seguendone il ritmo e il tempo, e condividendone la melodia cinetica; ma non appena l'altro si fermava, anche Edith si fermava.
I movimenti e le percezioni delle persone parkinsoniane sono spesso troppo veloci o troppo lenti, sebbene loro stesse possano non esserne consapevoli e inferiscano il fenomeno solo quando si confrontano con orologi o altre persone. Il neurologo William Gooddy ha descritto questo aspetto del parkinsonismo nel suo libro Time and the Nervous System: «È probabile che un osservatore noti quanto siano rallentati i movimenti di un parkinsoniano; il paziente invece dirà: “I miei movimenti mi paiono normali, a meno che io non veda quanto impiego a compierli guardando un orologio. L'orologio appeso alla parete del reparto sembra essere eccezionalmente veloce”». Gooddy scrisse delle disparità a volte enormi che tali pazienti possono presentare fra «tempo personale» e «tempo dell'orologio».105
Il tempo e la velocità della musica, però, quando essa è presente, prevalgono sul parkinsonismo e – fintanto che la musica dura – consentono ai pazienti di tornare alla loro personale velocità di movimento, quella che per loro era naturale prima della malattia.
La musica, in effetti, resiste a tutti i tentativi di accelerazione o rallentamento e impone il proprio tempo.106 Di recente ho constatato questo fenomeno a un recital dell'insigne compositore e direttore Lukas Foss (adesso parkinsoniano). All'inizio dello spettacolo, Foss si precipitò in modo quasi irrefrenabile al piano, ma una volta seduto suonò un notturno di Chopin con un controllo, un senso del tempo e una grazia squisiti – per poi riprendere la festinazione non appena la musica finì.
Questo potere della musica si rivelò prezioso nel caso di Ed M., uno straordinario paziente postencefalitico i cui movimenti erano troppo veloci sul lato destro del corpo e troppo lenti sul lato sinistro. Non riuscivamo a trovare nessun sistema per curarlo: qualsiasi cosa risultasse efficace su un lato, peggiorava le condizioni sull'altro. Ed però amava la musica, e aveva un piccolo organo in camera sua. Quando si sedeva allo strumento e suonava – in quel modo, e in quel modo soltanto -, Ed riusciva a riconciliare le mani e i due lati del corpo, portandoli a muoversi in sincronia e all'unisono.
Un problema fondamentale nel parkinsonismo è l'incapacità dei pazienti – che sono perennemente «bloccati» o «congelati» – di iniziare in modo spontaneo il movimento. In condizioni normali si ha una corrispondenza pressoché istantanea fra le nostre intenzioni, da una parte, e i meccanismi sottocorticali (soprattutto i gangli basali) che consentono la loro automatica realizzazione, dall'altra. (Gerald Edelman, in II presente ricordato, si riferisce ai gangli basali, insieme al cervelletto e all'ippocampo, come agli «organi della successione»). Sono soprattutto i gangli basali, però, a essere compromessi nel parkinsonismo. Se il danno è molto grave, il paziente può essere ridotto a uno stato di immobilità e silenzio virtuali: pur non essendo paralizzato, in un certo senso è «prigioniero», incapace di iniziare da sé qualsiasi movimento e tuttavia perfettamente in grado di rispondere a certi stimoli.107 Il parkinsoniano è bloccato, per così dire, in una trappola sottocorticale, e può emergerne (come mostra Lurija) con l'aiuto di uno stimolo esterno.108 Ecco dunque che i pazienti parkinsoniani possono essere chiamati in azione a volte semplicemente lanciando loro una palla (sebbene, una volta che l'hanno afferrata o l'hanno rilanciata, tornino nel loro stato congelato). Per godere di un qualsiasi senso reale di libertà, di una più lunga evasione, hanno bisogno di qualcosa che possa durare nel tempo – e a tal fine l'agente sbloccante più potente è la musica.
Questo era chiarissimo nel caso di Rosalie B., una donna postencefalitica che ogni giorno tendeva a rimanere pietrificata per ore, completamente immobile, congelata, di solito con un dito «incollato» agli occhiali. Se le si faceva percorrere il corridoio, camminava in modo passivo, legnoso, sempre col dito attaccato agli occhiali. Rosalie era però una persona musicalmente molto dotata, e le piaceva suonare il pianoforte. Non appena sedeva sullo sgabello, la mano incollata agli occhiali scendeva sulla tastiera, e lei suonava con spontaneità e fluidità, mentre il suo volto (di solito pietrificato in una maschera parkinsoniana) si animava di espressione e sentimento. La musica la liberava per un po' dal suo parkinsonismo (e non occorreva che la suonasse, era sufficiente per lei immaginarla). Rosalie conosceva tutto Chopin a memoria, e bastava che dicessimo «opera 49» per vedere tutto il suo corpo, la sua postura e la sua espressione cambiare e il parkinsonismo svanire, mentre la Fantasia in fa minore le risuonava nella mente. In quei momenti, anche il suo EEG diventava normale.109
Nel 1966, quando arrivai al Beth Abraham, la musica era offerta principalmente dall'infaticabile Kitty Stiles, che passava all'ospedale decine di ore ogni settimana. A volte si sentiva la musica provenire da un grammofono o da una radio, ma Kitty stessa sembrava avere un potere stimolante tutto suo. La musica registrata, allora, non era portatile: le radio a batteria e i registratori a nastro erano ancora grossi e pesanti. Adesso, naturalmente, tutto questo è cambiato, e possiamo registrare centinaia di melodie su un iPod delle dimensioni e del peso di una scatola di fiammiferi. Se è vero che l'estrema disponibilità di musica può avere i suoi rischi (mi chiedo, in effetti, se oggi i «tarli» o le allucinazioni musicali non siano più comuni rispetto al passato), per i parkinsoniani è una vera manna. Sebbene i pazienti che io visito siano per la maggior parte persone gravemente disabili, ricoverate in cronicari e in case di riposo, ricevo anche lettere da molti parkinsoniani ancora relativamente indipendenti che vivono a casa loro, magari con un poco di aiuto. Di recente Carolina Yahne, una psicoioga di Albuquerque, mi ha scritto per raccontarmi di sua madre la quale, a causa del morbo di Parkinson, aveva avuto grandi difficoltà di deambulazione. «Ho inventato una canzoncina stupida,» mi scriveva la figlia «intitolata Mamma cammina, in cui il ritmo era dato dallo schiocco delle dita. Io ho una voce orrenda ma a lei piaceva sentirla. L'ascoltava in cuffia sul registratore a nastro che teneva agganciato alla cintura. Sembrava proprio che l'aiutasse a muoversi in giro per casa».
In tutta la sua vita, Nietzsche provò un vivo interesse per la relazione fra arte – specialmente la musica – e fisiologia. Parlava del suo effetto «tonico», della sua capacità di indurre un risveglio generale del sistema nervoso, soprattutto durante gli stati di depressione fisiologica e psicologica (lui stesso era sovente depresso, fisiologicamente e psicologicamente, a causa di gravi emicranie).
Parlava anche dei poteri «dinamici» o propulsivi della musica: della sua capacità di evocare, guidare e regolare il movimento. Il ritmo, riteneva, poteva dare impulso e articolare il flusso del movimento (e anche il flusso dell'emozione e del pensiero, che egli considerava non meno dinamico o motorio di quello esclusivamente muscolare). E la vitalità e l'esuberanza ritmiche, secondo lui, si esprimevano nel modo più naturale sotto forma di danza. Nietzsche definiva il suo stesso filosofare una «danza in catene» e pensava che la musica fortemente ritmica di Bizet fosse l'ideale per questo. Spesso si portava dietro il taccuino ai concerti di Bizet: «Bizet fa di me un filosofo migliore» scrisse.110
Avevo letto gli appunti di Nietzsche su fisiologia e arte, molti anni prima, quando ero ancora studente, ma le sue formulazioni acute e concise in Volontà di potenza presero vita, per me, solo quando arrivai al Beth Abraham e constatai gli straordinari poteri esercitati dalla musica sui nostri pazienti postencefalitici: il suo potere di «risvegliarli» a tutti i livelli, ovvero di renderli vigili quando erano letargici, di normalizzarne i movimenti quando erano congelati e – cosa particolarmente misteriosa – di restituire loro emozioni e ricordi intensi, fantasie e intere identità alle quali, in massima parte, era loro negato l'accesso. La musica faceva tutto quello che la L-dopa – ancora da venire – avrebbe fatto in seguito, e anche di più; solo per il breve periodo in cui durava, però, e forse anche per qualche minuto dopo esser cessata. Metaforicamente, era come una dopamina uditiva: una «protesi» per i gangli basali compromessi.
È proprio della musica che il parkinsoniano ha bisogno, perché solo la musica – col suo rigore e la sua spazialità, sinuosa e viva com'è – può evocare risposte che lo siano altrettanto. E ha bisogno non solo della struttura metrica del ritmo e del libero movimento della melodia – dei suoi profili e delle sue traiettorie, del suo salire per poi ridiscendere, del suo tendersi e allentarsi -, ma anche della «volontà» e dell'intenzionalità della musica, che gli consentono di riguadagnare la libertà della sua stessa melodia cinetica.