Stava cercando di scrivere una canzone in testa, un pezzo cui lavorava da mesi. Aveva un buon attacco – «Lo so che non tornerai piú dal passato / a disegnare una faccina sul vetro appannato» – e sentiva come avrebbe dovuto essere il primo giro di accordi: un la, poi do diesis minore quindi fa diesis, un po’ tipo Outdoor Miner dei Wire. Ma non capiva come avrebbe dovuto continuare. Su di un tono in si e ricominciare? O passare al mi per una specie di ritornello? Difficile senza una chitarra in mano, eppure aveva sentito di cantautori che scrivevano tutto a mente e buttavano giú la musica solo quando avevano sotto mano uno strumento.

Si tira a sedere sulla branda e guarda attraverso la finestrella con le sbarre: la primavera era ufficialmente arrivata ma ancora non volgeva al bello, un grigiore totale di nuvole grigiastre, il sole non pervenuto, mentre il vento sferzava la contea di Polk, fischiava attraverso la recinzione con il filo spinato in lontananza, investiva le sentinelle nelle garitte, sbatteva contro la grande insegna di metallo sopra il cancello d’ingresso, un’insegna della quale Gesú vedeva solo la parte posteriore, pur sapendo che davanti c’era scritto: «UNITÀ ALLAN B. POLUNSKY» («Giurisdizione del Dipartimento di Giustizia del Texas»).

Era la penultima fermata del sistema: una ventina di edifici sporchi e grigi disposti su un’area di duecento ettari sotto massima sorveglianza.

Sbadiglia e rotola giú dalla brandina al pavimento di cemento. Ha la cella tutta per sé. Come tutti quelli del suo blocco. Peccato, gradirebbe un po’ di compagnia. Infatti, come gli ha detto un secondino con un sorriso cattivo, in questo braccio sono in molti a perdere la testa. Gesú li sente di notte che piangono o parlano da soli, e quasi tutti si rivolgono a Dio o alla mamma.

Con la punta dell’alluce (qui hanno solo pantofole di plastica e lui odia la sensazione che ti dànno sulla pelle) sposta qui e là qualche giornale, i fogli sparsi che coprono il pavimento della cella. Cazzo, le pagine dei giornali negli ultimi mesi. Non riusciva a crederci, soprattutto nelle prime settimane: «Una strage di soldati!», «Leader di una setta coinvolto in una sparatoria!», «14 morti nell’assedio a una setta!», «Messia o assassino?», «Finalista di American Popstar coinvolto in un massacro!», «Accuse di pedofilia!», «Contrabbandiere di armi»!», «Spacciatore!» E cosí via. Di rado andava oltre il primo paragrafo. Grossomodo dicevano tutti la stessa cosa:

Il musicista e sedicente «Figlio di Dio», 32 anni, era diventato celebre lo scorso anno grazie al talent show della Abn American Popstar. Con i proventi della trasmissione, valutati a piú di due milioni di dollari, aveva fondato una comune utopistica nel Texas centrale. Il 10 dicembre, in seguito a crescenti sospetti su varie attività illecite (coltivazione di droga, occultamento di armi automatiche) e, in ultimo, per il timore di ripetuti abusi su minori, gli agenti di una task force congiunta formata dal Batf, dall’Fbi e dalla Dea hanno assaltato il covo della setta nei dintorni di Bruntsville, Texas. Sono stati accolti da una reazione violentissima: in seguito alla sparatoria hanno perso la vita sei agenti e otto membri della setta, mentre altri diciotto residenti, fra cui diversi bambini, sono rimasti feriti.

Poi c’era la fotografia – sempre la stessa – una foto sfocata e pixellata di Gesú che teneva in mano il fucile strappato a Deek Rennet, scattata in una frazione di secondo da una macchina fotografica montata sull’elicottero. Purtroppo al processo nessuno aveva creduto che lui stesse cercando solo di scagliarlo lontano. Gli esperti di balistica nominati dalla pubblica accusa avevano collegato a quel fucile i proiettili trovati nel corpo di due soldati morti, e avevano dedotto con grande sagacia che i colpi erano arrivati esattamente dal punto in cui si trovava Gesú.

– La pistola fumante, alla lettera, – aveva detto il pubblico ministero.

– Ma dài, – aveva risposto Gesú.

Anche se neppure un bambino residente all’interno della proprietà aveva confermato le accuse di molestie e abusi, ormai la frittata era fatta: pedofilia, spaccio di droga (Gesú aveva ammesso senza problemi di avere coltivato marijuana, ma unicamente per uso personale: il giudice s’era rifiutato di credere che simili quantità potessero venire consumate da quel pugno di persone, e aveva lasciato in piedi l’accusa di spaccio) e omicidio di sei agenti federali. Alla giuria texana ci erano volute solo quattro ore per giudicarlo colpevole dell’accusa di spaccio e omicidio. Idem per l’uccisione dei sei agenti. «Omicidio volontario di un difensore della legge nell’adempimento del proprio dovere».

Il motivo per cui Gesú tiene tutti questi giornali nella cella non è per ripassare i particolari del processo nella speranza di ricorrere in appello o roba del genere. (Anche se molti giornali piú «seri» – come il «Washington Post» e il «New York Times» negli Stati Uniti, il «Guardian» e l’«Independent» in Inghilterra – hanno cominciato a pubblicare articoli che mettono in dubbio gli obiettivi e la strategia delle forze governative, e addirittura qualche giornalista sta cominciando a insinuare che siano queste ultime le vere responsabili dei tragici eventi dell’8 dicembre). No, è perché ci sono le foto di tutti i suoi amici: Becky trascinata via in manette; una bella foto di Morgan sul palco qualche anno prima, che sorride e pesta i piatti della batteria. («Ma dov’eravamo quella volta?» si chiede Gesú). Una fotografia di Kris che parla con Gesú a bordo piscina, a Los Angeles. Una di Bob da ragazzo in divisa da combattimento, a braccia conserte davanti a un elicottero chissà dove. Persino una foto dei vecchi Gus e Dotty, che erano morti nel sonno: il fumo filtrato sotto la porta non li aveva nemmeno svegliati prima di portarseli via. Una foto di Steven Stelfox correda un paio di articoli: interviste rilasciate da Stelfox in cui bolla Gesú come «un visionario perverso» e promette al pubblico che, «per rispetto verso chi ha perso la vita», la musica che Gesú e il suo gruppo hanno registrato «non verrà mai pubblicata». Un aspetto positivo: nel corso del processo era riuscito a convincere tutti di essere l’unico responsabile di quanto era accaduto, Becky e Kris e Morgan erano stati soggiogati dal suo «irresistibile carisma», come l’avevano messa gli avvocati, e di conseguenza non erano responsabili delle proprie azioni. Certo, c’erano voluti un notevole sforzo e un mucchio di pressioni attraverso gli avvocati, per convincere Becky, Kris e Morgan a stare al gioco. Kris si era comunque beccato sei mesi per oltraggio alla corte dopo aver definito il giudice «merda umana di un coglione nazista». È chiuso in un’altra galera, da qualche parte piú a nord. Gesú spera che stia bene e che sia guarito. Quel proiettile nella spalla… Speriamo che possa riprendere a suonare. Strano ma vero, Morgan ha venduto la storia della sua militanza nella «setta» a un giornale scandalistico, sparando balle su come è stato «manipolato», sul lavaggio del cervello e stronzate simili. Cazzo, quello sí che era buffo. Gesú spera che il vecchio Morgs si sia messo in tasca un bel gruzzolo e che, dovunque si trovi, sia anche felice. Forse salire verso un si sarebbe meglio che scendere verso un mi…

– Ehilà…

Gesú alza lo sguardo dal giornale. È Tommy, il secondino cattivo che gli aveva raccontato, con un sorriso malvagio sulle labbra, della gente che dopo un po’ andava fuori di testa. Non che gli altri fossero diversi: credevano tutti a quel che c’era scritto sui giornali. Invece adesso Tommy è molto gentile. Quasi tutti lo sono. Quando passi un po’ di tempo con quel tizio…

– Come va?

– Bene, Tommy. Che mi racconti? È passata la varicella alla piccola?

– Mi pare che stia guarendo, sí. Senti, hai visite…

– Visite? Ma non erano vietate?

– È stata una cosa decisa all’ultimo. Non era regolare, ma il governatore ha deciso di lasciar correre, sai com’è… Ci siamo capiti.

– Fantastico. E chi è? Aspetta, non dirmelo: preferisco una sorpresa.

Ammanettato, viene scortato lungo il gelido corridoio fino alla sala colloqui. La porta si apre e un istante dopo Gesú sorride, vedendola corrergli incontro a braccia aperte.

– Becky…

A volte ritorno
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