6.
Il grattacielo della Abn a Times Square: sembra che abbiano aperto le gabbie dello zoo. La coda si snoda lungo il lato occidentale della piazza, svolta all’angolo con la Quarantaduesima e continua per diversi isolati, per spingersi quasi fino all’Ottava Avenue. L’enorme schermo sopra il cartellone della Coca-Cola strilla: «AMERICAN POPSTAR – LA CACCIA COMINCIA QUI!» Intorno girano poliziotti a piedi e a cavallo, per evitare che la gente finisca sotto un’auto e per tenere libero il passaggio. I venditori ambulanti di hot dog e bibite sono arrivati puntuali a lavorarsi la coda, ben sapendo che le bestie dovranno aspettare a lungo. Molti aspiranti concorrenti sono arrivati già la sera prima: hanno passato questa calda nottata estiva sul marciapiede rovente. I turisti con la macchina digitale scattano una foto ai personaggi piú eccentrici della fila: che storia da raccontare agli amici quando si torna a Omaha/Idaho/Toledo!
E di personaggi eccentrici da immortalare non ne mancano: i due emo alti due metri e venti (lei con una cresta rosa confetto e lui blu elettrica), anche se in realtà gli zatteroni spaziali li alzano di una spanna. Il trio di sorelle gemelle agghindate da fatine perverse: gonna a sbuffo con collant e giarrettiera, le tette strizzate nel corpetto di pizzo bianco, i capelli a caschetto color lillà. Ci sono culturisti, trans, robot, supereroi, gente mezza nuda, altri truccatissimi e Dio solo sa cos’altro. Non mancano bambini e nonnetti, qualcuno che sembra abbastanza normale e qualcun altro da ricovero. In molti canticchiano, provano un passaggio della canzone, un’aria, una scala, un vocalizzo. Si fermano e si concedono alle cineprese delle troupe televisive che pattugliano la coda, qualcuna della trasmissione stessa, a caccia di spezzoni da rimontare nel programma, qualcun’altra del telegiornale locale. Mentre l’ennesimo furgoncino sfila lungo la Quarantaduesima per riprendere la folla dal finestrino, una ragazza si piega in avanti e alza la gonna, mostrando due grosse chiappe bianche e tremolanti sopra le autoreggenti nere. Un uomo si butta in ginocchio e comincia a sbraitare una canzone. Altri due sciroccati, un gigante e un nano – una specie di duo – non si lasciano pregare: il nano si arrampica come un macaco fin sulle spalle del gigante, poi entrambi spolmonano una nenia. Tutti quanti – nani, giganti, vecchi, giovani, belli, brutti – tutti quanti hanno la stessa malattia: il quarto d’ora di celebrità.
– Cazzarola, – fa Gesú, voltandosi dall’altra parte appena passa l’ennesima telecamera. – Quanto cazzo è imbarazzante…
– Soldi facili, vecchio mio – gli ripete Kris per la milionesima volta. – Soldi facili.
Gesú ha la Gibson a tracolla dietro la schiena e un piccolo amplificatore Pignose appeso alla cintura. È tutta la mattina che prova a battersela, ma ogni volta Kris lo convince a restare.
Passano le ore, la coda avanza un centimetro alla volta, Times Square sembra non arrivare mai. Un giornalista a piedi, con il microfono in mano e la troupe a ruota, passa in rassegna la processione facendo interviste qui e là a personaggi improbabili. Si gira all’improvviso e schiaffa il microfono in faccia a due belle ragazze in coda davanti a Gesú e a Kris.
– Ciao ragazze, – fa. – Sono Tom Barker di Abn Mattina. Da quanto siete in coda?
– Oddiooo! Dalle cinque-sei di stamattina, Tom! Siamo venute in autobus dal New Jersey. Io sono Debbie e lei è Tammy, siamo le Volpine! – L’ultima parola la dicono in coro.
– Pensate di farcela?
– Certo! – risponde Debbie. – America, stai all’occhio, – interviene Tammy senza neppure guardare Tom, rivolgendosi direttamente all’obiettivo. – Arriviamo noi! – Le due cominciano a cantare un motivetto di Britney Spears, inanellando una stecca dopo l’altra.
– Cazzarola, – borbotta Gesú alzando gli occhi al cielo. – Padre, perché mi hai abbandonato?
Samantha Jansen, produttore esecutivo di American Popstar, arrivata in aereo da Los Angeles quella mattina stessa, appoggia la fronte al vetro fumé del suo ufficio e copre con lo sguardo i quindici piani che la separano dall’angolo fra Times Square e la Quarantaduesima, dove la folla sembra pacifica e innocua. – Quanti? – chiede.
– Mmm, prevediamo… – dice Roger, l’assistente, appollaiato sullo spigolo della scrivania dove consulta un fascio di appunti. – Diecimila, suppergiú. Un incremento del venti per cento rispetto ai provini newyorchesi dello scorso anno.
– E altrove? – chiede la Jansen mentre si gira, incrocia le braccia e si appoggia alla finestra, e alle sue spalle il sole del pomeriggio la trasforma agli occhi di Roger in una silhouette nera.
– Alla grande. Affluenza record a Los Angeles, Chicago, Seattle. C’è una leggera flessione a Houston. Il caldo, forse.
– Mmm. Forse.
La Jansen è preoccupata.
Per un po’, durante la prima stagione, American Popstar è stata la piú grande attrazione del piccolo schermo. Anzi, l’unica. La trasmissione è spuntata dal nulla e ha stracciato ogni record d’ascolto. Oggi è ancora il programma piú seguito del paese: se fossero riusciti a mantenere la posizione per tre anni di fila, avrebbero eguagliato i tempi gloriosi dei Robinson nei lontani anni Ottanta. Però l’anno scorso la Nbc ha lanciato Talent Usa. Il format ricalca quello di American Popstar, ma è piú incentrato sui freak: pazzi, sbiellati, fuori di zucca. E sulle storie strappalacrime che i concorrenti avevano alle spalle. Nessuno ci avrebbe scommesso un soldo ma, come amava dire il capo, non c’è mai fine al peggio con quel tipo di merda (anzi, «dimmerda» avrebbe detto) e, come volevasi dimostrare, Talent Usa era arrivato alla seconda stagione e ogni giorno rosicchiava qualche spettatore ad American Popstar. A quanto sembrava l’America era interessata al talento, però impazziva per i maniaci fuori di melone che si sbavavano addosso e andavano rinchiusi in manicomio, magari imbottiti di Torazina. E ce n’erano a bizzeffe. Talent Usa non era ancora cosí vicino da far vacillare la posizione della Jansen come produttore esecutivo del piú grande programma americano, ma abbastanza da innervosire il capo. E quando il capo si innervosiva era il caso di cominciare a preoccuparsi. E parecchio, anche.
Si gira di nuovo verso la finestra e contempla la folla brulicante. – Diamoci sotto, – dice, piú a se stessa che a Roger.