8.
È tardi.
Dio è solo in ufficio; una lampada da tavolo con il paralume di vetro proietta una pozza di luce verde sulla Sua scrivania, gli scatoloni impilati che torreggiano intorno gettano lunghe ombre: il xx secolo nei dettagli, compresi quelli piú terrificanti.
Un peso sullo stomaco. Dio sa che quando i luoghi comuni ti sembrano veri vuol dire che devi prendere decisioni davvero epocali, da far tremare i polsi. Eh sí, aveva proprio un peso sullo stomaco. Un peso? Altroché, gli sembrava di avere una barra di plutonio, con il peso atomico di 244, una densità dieci volte maggiore del platino. Anzi no, altro che plutonio, si sentiva sullo stomaco un peso di francio, il piú pesante dei metalli alcalini, un minerale cosí denso che Dio si era assicurato di non lasciarne mai nella crosta terrestre piú di trenta grammi per volta.
E il peso non ce l’aveva solo sullo stomaco, ma dappertutto. Le gambe, le braccia, gli organi interni, sembravano tutti fatti di francio. Riusciva a malapena a portare il whisky alle labbra. Dio appoggia il Suo mento di francio a una mano di francio e i Suoi occhi, annacquati dai fumi dell’alcol, scivolano verso l’altissima pila di fascicoli piú vicina alla scrivania. Quello in cima recita: «GUERRA IN BOSNIA-ERZEGOVINA». Sente il sangue raggelarsi per la rabbia, sente i pensieri farsi cinici e brutali: qualche pagliaccio, qualche ritardato del cazzo, ha deciso di credere a un mucchio di stronzate ed ecco il risultato.
Butta tutto nel cesso e ricominciamo da zero.
Facile. Sarebbe bastato alzare la temperatura del sole di qualche grado, spingere l’orbita appena piú vicina alla palla di fuoco e tutto sarebbe finito nel giro di pochi anni. Oppure buttargli un altro meteorite… Un affare grosso piú o meno come il Belgio – o come Manchester, quel buco merdoso – sarebbe stato piú che sufficiente. Bum. Ciao ciao bambina. Un virus? Aveva delle cosucce in laboratorio che perfino Lui aveva paura a tirare fuori dalla capsula di Petri: roba che in confronto l’Aids era un raffreddore e l’Ebola innocuo come il lato B di un singolo indie. Qualche gocciolina nella falda acquifera e nel giro di un mese l’Europa si sarebbe trasformata nel finale di un film con gli zombi.
Poi… Poi… Si gira e guarda i nuovi scaffali che occupano la parete alle Sue spalle: strabordano di libri, dischi, cd e dvd. Scorrendoli da sinistra a destra, in ordine cronologico, passa da Daniel Defoe a Irvine Welsh, da un 78 giri gracchiante del Bel Danubio blu ai Chemical Brothers. Dalla Corazzata Potëmkin a un cofanetto con tutta la serie di The Wire. Letteratura, musica, cinema e tv: da un estremo all’altro in cosí poco tempo…
Quand’è che le cose hanno cominciato ad andare a puttane? Colpa di Mosè, forse. Quel falsario. Uno dei primi a cedere al protagonismo. Quando era arrivato in cima al Sinai e aveva messo gli occhi su quell’unica tavola perfettamente cesellata – le parole «FATE I BRAVI» incise nell’elegante corsivo inglese di Dio – aveva dato fuori di matto. Tutto quel can can e lui doveva, cosa?, scendere e dire: «Ehi ragazzi, fate i bravi! Be’, non c’è altro. In bocca al lupo per tutto»? Col cazzo. E cosí quel figlio di mignotta si era messo sotto con lo scalpello. Quaranta sudati giorni di lavoro su quella sequela di minchiate. Quella stronzata del «Non desiderare la donna d’altri»? Tipico di Mosè. (Quante pedate nel culo s’era beccato quand’era arrivato qui? Dio gli aveva assestato la prima appena quel coglione aveva varcato la soglia, e aveva smesso solo nei Secoli Bui: almeno un centinaio d’anni. Alla fine c’aveva le chiappe che sembravano due barbabietole bollite). Poi di male in peggio. L’interpretazione. La fiera del «Io-credo-di-sapere-cosa-voleva-dire-Dio». Sbadabum: un millennio dopo qualche sciroccato taglia la gola ai neonati e se li getta alle spalle perché crede di avere Dio dalla sua parte.
Cosa cazzo c’era da interpretare in «FATE I BRAVI»?
La stessa, identica domanda che Dio aveva ripetuto per secoli, mentre prendeva a pedate Mosè.
In ogni caso, ormai la frittata è fatta, pensa Dio con un sospiro, mentre si rende conto della piega che stanno prendendo i Suoi pensieri. Qualcuno avrebbe dovuto rispiegare al genere umano cosa significa «Fate i bravi».
Si allenta ancora il nodo della cravatta e si versa un altro dito di whisky. Prende l’Avana acceso dal posacenere e si allunga sullo schienale della sedia, appoggiando le scarpe di cuoio lavorate a mano sulla scrivania. Con il telecomando alza il volume della musica, una compilation su cd che gli ha fatto Suo figlio. («Robba buona», l’ha intitolata il ragazzo). Dio ascolta Townes Van Zandt cantare Tecumseh Valley, ammaliato dalla maestria con cui i giri d’accordi della chitarra acustica accompagnano la voce del cantante, da come i due suoni – la voce rauca e lo strumento in legno – si sovrappongono, si mescolano, si distinguono, s’impennano e precipitano.
Il padreterno è incantato.
Dio è prima di tutto un creatore e la cosa che piú lo rende orgoglioso delle Sue creature è di vederle all’opera nel piú divino dei gesti: quello di dare vita a qualcosa dal niente. Questa canzone: tre-quattro accordi e una manciata di parole, un piacere sublime da una cosa tanto semplice. I suoi occhi scivolano verso lo schermo di un portatile che luccica in un angolo della scrivania, un’antologia di citazioni di sedicenti leader religiosi. A dirla tutta, un compendio di bile, invettive, odio e istigazione all’odio, ed è quest’ultimo che piú lo fa infuriare. E invece l’idea è passata. Se l’erano venduta, cazzo: milioni di esseri umani erano convinti che gli omosessuali non avrebbero mai visto il volto di Dio. O quelli che fornicavano con piú di una persona. I tossicomani. I giocatori d’azzardo. I non battezzati. I blasfemi. I non credenti.
Che fine aveva fatto il sense of humour in tutto questo fanatismo? Ogni angolo del paradiso riecheggia di risate. La gente non fa che sghignazzare. Là fuori nell’ufficio principale, dov’era sempre venerdí pomeriggio, l’ultima spassosa battuta era sempre sulle labbra di tutti. Era una delle prime cose a essere insegnata alle anime salve ma prive di spirito: il senso dell’umorismo. Quel momento fatidico in cui si levavano il prosciutto dagli occhi e il mondo esplodeva in technicolor, quando tutti quelli che di norma aggrottavano la fronte e dicevano «Non l’ho capita» finalmente la capivano. Impagabile.
La musica, di nuovo. John Coltrane alle prese con A Love Supreme. Il fraseggio piú semplice, tre note appena, eppure… Lo stereo, le scarpe italiane, il sigaro aromatico, il whisky di malto, il portatile… Quanta roba figa che non c’era prima della vacanza. Eh sí, sono creaturine che si dànno da fare.
Qualcuno bussa piano. – Avanti, – risponde Dio, e Pietro fa capolino sulla soglia.
– Si lavora fino a tardi, eh?
– Già. Entra pure, Pietro. Fatti un goccio.
Pietro si versa un cicchetto. Il tintinnio dei bicchieri sembra fondersi con la musica, mentre Pietro sprofonda in un’enorme e morbida poltrona a sacco ai piedi del capo. Dio tiene gli occhi chiusi, dondola la testa seguendo il sax di Coltrane. Pietro sa leggere l’umore del capo meglio di chiunque altro e capisce che questo non è il momento giusto per affrontare una conversazione del tipo «cos’haiintenzione-di-fare». E allora anche Pietro si lascia cullare dalla musica, chiude gli occhi e muove la testa a ritmo, godendosi Dio che si gode la musica tanto quanto la musica in sé. È da un po’ che non fanno uno di questi siparietti in cui tirano tardi nel Suo ufficio pensando a come sistemare il mondo mentre si scolano una bottiglia di quello buono.
– Bella, no? – chiede Dio.
– Oh sí, – risponde Pietro. Una pausa, esattamente della giusta durata, prima di aggiungere: – Vale la pena di salvarla –. Non c’è un punto di domanda alla fine.
Apre gli occhi e guarda il capo. Dio si alza lentamente in piedi, tiene il bicchiere di whisky dalla base con la punta delle dita, facendo oscillare il liquido ambrato. Lo scola, appoggia il bicchiere vuoto e afferra il portaritratti con la fotografia di Gesú. È stata scattata alla festa per il suo decimo compleanno. Gesú sghignazza per qualcosa accaduto al di là dell’obiettivo, gli occhi socchiusi e una gioia infinita dipinta in viso, i tratti dell’uomo maturo che si intravedono appena, ancora nascosti dietro le guance paffute e i dentoni da bambino. Dio passa teneramente una mano sulla fotografia, sul viso di Suo figlio.
– Ne vale la pena, sí, – mormora Dio.
Pietro si accorge che adesso Dio è quasi in lacrime. – Oh no, – dice, inorridendo. – Non vorrai…
– È l’unica, – risponde Dio con un filo di voce.
– M-ma… Laggiú sono delle bestie. Lo faranno a pezzi. Già l’altra volta è stato un disastro. Ma oggi? Insomma, i romani in confronto sembreranno dame di carità.
– Pensi che non lo sappia?
Pietro chiude il becco. Restano in silenzio a fissare la foto di Gesú per un bel po’. Quando Dio ha deciso, ha deciso. Pietro ha già la testa alle questioni pratiche.
– Avrà bisogno di un nuovo nome, – dice.
– Che ha che non va Gesú? – chiede Dio.
– Senza offesa, capo… – risponde Pietro, riempiendo i bicchieri. – Lo scambieranno per un cazzo di sguattero messicano.
– Gesú andrà benissimo, – risponde Dio.
Dio è un tipo all’antica.