2.
Partono nell’ultima settimana d’agosto, il grande autobus argentato che tossisce e borbotta e traballa attraverso la città, giú per Columbus Avenue, poi la Nona Avenue, la Quarantunesima Ovest e infine in coda per passare il Lincoln Tunnel, milioni di tonnellate di fiume Hudson che ruggiscono sopra di loro, i piccoli Miles e Danny che scorrazzano lungo il corridoio lanciando grida di gioia perché non sono mai usciti da Manhattan, a parte quella gita l’estate scorsa alla spiaggia di Fire Island, poi all’improvviso eccoli fuori città, dappertutto esplode il verde del New Jersey, Gesú fa in tempo a notare i cartelli «VENDESI» sulle case – ce ne sono tantissimi – prima di voltarsi a controllare la situazione sull’autobus.
C’è Bob in fondo, che freme e bofonchia e guarda fuori del finestrino; Gus e Dotty, che cantano e stappano la prima bottiglia alle dieci del mattino; Meg che tira su col naso e suda e sparge fazzolettini sporchi un po’ dovunque; Becky che grida e ride e rincorre i figli; Kris al posto di guida, compunto dietro agli occhiali a specchio mentre ignora i colpi di clacson e gli sguardi allibiti degli altri veicoli nel traffico dell’ora di punta; Morgan seduto lí in prima fila che ha da ridire sulla corsia da imboccare. E Gesú che strimpella la chitarra elettrica unplugged con un sorriso serafico, gli enormi pneumatici che friggono sull’asfalto bollente mentre il figlio di Dio guarda l’autostrada che conduce via da Manhattan, quell’isola agganciata alla costa americana, per entrare nell’America profonda.
Kris aveva battezzato il trabiccolo «L’orca» e aveva passato gli ultimi giorni ad attrezzarlo di quasi ogni comfort. C’era un minibar dietro al posto di guida. Bob aveva dato una mano ad allacciarlo al generatore alimentato dal motore e a inchiodarlo al pavimento per non farlo scivolare via. Era pieno di bibite e vivande, oltre a quel poco di metadone che Meg aveva racimolato per tirare avanti nei giorni successivi. Sul fondo, separati da una tendina, c’erano due materassi a due piazze, uno per ogni lato dell’autobus. Avevano sradicato i sedili e, come aveva detto Kris, ci stavano giusti giusti. C’era un altro materasso verso la metà del bus (sul lato destro, guardando la parte anteriore). Gus e Dotty dormivano alla loro maniera: sui sedili, con le bottiglie in braccio. Bob non chiudeva mai occhio, o cosí sembrava. Cosí restavano in sette, compresi i due piccoli, e tre materassi erano piú che sufficienti. C’era perfino un vecchio televisore con un videoregistratore attaccato. Secondo Morgan le videocassette si trovavano ovunque a prezzi stracciati, adesso che tutti erano passati ai dvd. Kris ci ha preso, pensa Gesú mentre Morgan percorre dondolando il corridoio e gli passa uno spinellone: è bello avere tutto quello spazio.
E anche se la velocità massima non supera i cento all’ora, American Popstar comincerà il giorno successivo al Labor Day, quindi restano quasi dieci giorni per arrivare a Los Angeles. Gli basta percorrere piú o meno quattrocento chilometri al giorno, che fra il traffico e le soste per riposare e i vari contrattempi vuol dire all’incirca sei o sette ore piene di guida. Mica dovevano sudare sette camicie.
(Cioè, in realtà sudavano eccome. L’unica cosa che Bob proprio non era riuscito a far funzionare era stato il vecchio impianto di aria condizionata. Ma, che cazzo, Gesú ne aveva viste di peggiori. Non era una cippa in confronto al caldo arido che c’era un tempo in Terra Santa. Quello sí che era una botta, tipo infilare la testa in un forno tutte le mattine).
– Ehilà –. Gesú alza lo sguardo. C’è Becky lí in piedi accanto a lui con in mano una videocassetta. Gliela picchietta contro un ginocchio. – Ti va un ripassino?
Gesú grugnisce. – Cazzo, è proprio necessario? Cioè, ora?
– Eddài, devi farti un’idea del guaio in cui ti sei cacciato.
Lui sbuffa e appoggia la chitarra sul posto accanto, poi prende la mano di Becky per alzarsi. Dondolano lungo il corridoio tra uno scossone e l’altro, reggendosi ai poggiatesta dei sedili. Passano accanto a Morgan sdraiato che dorme come un sasso.
– Si accomodi –. Becky lo guida sino alla fila di sedili davanti al televisore e infila la cassetta nel videoregistratore. Becky è l’unica del gruppo che guarda la televisione con assiduità. Sa tutto di American Popstar, delle prime due stagioni, delle stelle che ha creato, del meccanismo di eliminazione e di come funziona. A Gesú sembra tutto molto semplice: ti presenti ogni settimana e fai la tua canzoncina, e se piaci a un buon numero di telespettatori allora resti nello show anche la settimana dopo. Insomma, gli tocca anche di vedere quella spazzatura di trasmissione?
– Senti Becks, ma devo proprio sorbirmi tutto…
Lei gli piazza un dito sulle labbra e gli si siede accanto. Una tempesta gracchiante di elettricità statica li fa piombare dritti dritti a metà di una puntata: una ragazza nera, un grossa ragazza nera che canta Respect di Aretha Franklin. A guardarla e basta – un bel culone, un bel faccione, gli occhi chiusi mentre ce la metteva tutta – chiunque avrebbe detto: «Ehi ragazzi, scommetto che quella lí ha voce da vendere». Niente di piú sbagliato. Stava facendo a pezzi Aretha: tonalità sbagliata, parole a vanvera. Era come se stesse cantando una canzone che aveva orecchiato una sola volta, fischiettata da un tizio per la strada una decina d’anni prima. Arriva al ritornello e ulula: – ARRR III PII TII ESS III SII!
– R-E-P-T-S-E-C? – chiede Gesú.
Ora la telecamera inquadra una donna, probabilmente uno dei giudici. Anche lei è nera, di mezza età, un tempo doveva essere una bellezza. Trattiene a fatica il riso, piazzandosi una mano sulla bocca mentre lancia sguardi allarmati a destra e a manca. – Quella è Darcy DeAngelo, – fa Becky. – Lei è molto carina.
Mentre la ragazza attacca la seconda strofa, la telecamera si sposta sulla sinistra di Darcy DeAngelo, fino a inquadrare un tizio bianco, intorno alla sessantina, barbuto e massiccio. Si copre il viso con una mano e sbircia la ragazza da uno spiraglio fra le dita. – Quello è Herb Stutz, – continua Becky. – È un pezzo grosso, tipo un manager. A volte è un po’ stronzetto.
– Ok, – fa Gesú. – Stronzetto, ci sono.
L’immagine ritorna sulla ragazza proprio nel momento in cui la canzone finisce di colpo al grido belluino di «RESPECT!» La ragazza resta lí con la testa rovesciata indietro nel fascio di luce azzurro dei riflettori, crogiolandosi nello scroscio degli applausi, fin troppo calorosi per non essere molto ironici. Adesso la telecamera inquadra un terzo giudice, l’unico che non hanno ancora visto. È piú giovane, tipo trentacinque-trentott’anni, abbronzato e figo in camicia bianca inamidata, i capelli scuri pettinati all’indietro che luccicano sotto i riflettori. Ha un’espressione indecifrabile. – Quello è Steven, – mormora Becky quasi sottovoce, come se il tizio le incutesse timore. Il fatto che non sia necessario dirne il cognome è sintomatico del potere che quell’uomo ha in mano.
– È buono o cattivo? – chiede Gesú. Becky lo guarda e scuote la testa. Nient’altro.
Ora la camera inquadra Herb Stutz, che parla con un pesante accento newyorchese. Cosí pesante che dev’essere nato per forza nel Midwest, pensa Gesú. – Allora, tesoro… Simone, giusto? Stasera ti sei divertita, no? – Simone ridacchia, annuisce con foga, ancora galvanizzata dall’esibizione. – Be’, meglio cosí, conserva questi bei ricordi e portali con te per sempre, perché io credo che non potrai proprio andare avanti nello show.
Simone ha l’aria avvilita, quindi tocca a Darcy DeAngelo. – Simone, perdonami, lo sai che detesto essere d’accordo con Herb, ma io credo che tu non sia ancora pronta, amore. Ma continua a cantare, capito? Devi lavorare molto sulla voce, ma che grinta! Santo cielo, piccola: ce l’hai davvero messa tutta! – Il pubblico batte le mani e apprezza il contentino buonista mentre Simone sorride, sillaba un «grazie» e si asciuga il sudore della fronte, dopodiché la telecamera inquadra finalmente il tizio chiamato Steven. Gesú nota con sorpresa quanto siano scuri i suoi occhi – lo si vede perfino su questo schifo di cassetta, su questo schifo di tv – e quanto gelido sia il suo tono di voce.
– Come no, grazie Darcy, – dice. – Peccato che non abbia molto senso «mettercela tutta» se tutto quel che hai è una pila di merda fumante –. Darcy DeAngelo scuote la testa, il pubblico fa un timido «buuu», Simone fa per dire qualcosa ma quel tale Steven alza una mano. – Per favore… Ti chiami Simone, no? Per favore, Simone: lasciami parlare. Mi è toccato stare ad ascoltarti, il minimo che tu possa fare è ascoltare me per un minuto, che ne dici? Insomma, vorrei dire la mia, se non ti scoccia.
– Va bene. Non ti interrompo, – risponde Simone, già con il broncio. Le braccia conserte.
– Secondo me è un vero insulto… – continua lui, – costringerci a stare seduti qua a sorbirci questo strazio, te ne rendi conto? Insomma, tu cosa fai per vivere? Come lavoro, intendo.
– Lavoro in un fast food a…
– Perfetto, quindi se io entrassi da te e ordinassi quindici hamburger e me ne stessi lí a guardarti mentre li prepari tutti e poi dicessi: «Ops, a dire il vero sono vegetariano», ti incazzeresti non poco con me per averti fatto sprecare del tempo, vero?
– ’scolta, – dice Simone, con un piglio da quartieri bassi. – Io ce lo so che posso…
– Tu non sai un bel niente, ciccina. Niente di niente. Sei uno spreco di spazio –. Il pubblico è indignato. – Levati di torno. Non farmi sprecare altro tempo.
Simone è sull’orlo delle lacrime.
– Complimenti, – sbotta Darcy, indignata, – non ti piace il suo modo di cantare? Bene, ma non c’era bisogno di…
– Per favore, torna a cuccia, Darcy, – la rintuzza Steven. – Le sto facendo un favore. Non ha senso incoraggiarla.
– Non dargli retta, – dice Darcy a Simone.
– No, invece dammi retta, Simone, – continua Steven. – Divertiti a cantare a quei poveri hamburger mentre li friggi, perché non troverai mai un pubblico migliore.
Simone scoppia a piangere.
– Io non assisterò a uno spettacolo simile, – sbotta Darcy, alzandosi.
– Ragazzi, ragazzi: calmatevi… – dice Herb.
– Oh, siamo alle solite, – sospira Steven. – L’uscita di scena di Darcy. Che barba… Ciao ciao, Darcy. Ciao ciao, Simone –. Lui fa ciao con la mano alla ragazza in lacrime che viene scortata fuori – un ciao beffardo, muovendo solo le dita – mentre i boati del pubblico diventano sempre piú forti.
– Mi fai schifo! – grida Simone piangendo a dirotto mentre esce di scena.
– Perfetto, – dice Steven. – La cosa è reciproca. Avanti il prossimo!
– Puoi stoppare? – dice Gesú.
Becky si sporge in avanti e preme il pulsante di pausa, lasciando il fermo immagine su un fotogramma sgranato con la faccia di questo Steven, il sorriso allo stesso tempo crudele e laconico.
– Non capisco una cosa, – dice Gesú.
– Cosa? – domanda Becky.
– Quella ragazza, era… uno strazio, no?
– Sí.
– Cioè, quando ho fatto i provini a New York c’era gente che sapeva cantare meglio di lei ed è stata mandata a casa.
– Quindi?
– Quindi, immagino che quelli lí… – fa un cenno verso la faccia deformata e pixellata di Steven, – oppure qualcuno che lavora per loro l’avessero già sentita cantare prima della trasmissione, no?
– Certo.
– Allora… Perché l’hanno fatta gareggiare, se era cosí tremenda?
Becky guarda Gesú a lungo, contemplando gli occhi di quell’azzurro chiaro – non del tutto chiaro, c’è qualcosa di rossastro nelle sclere dovuto a tutte le canne che girano sull’autobus – i capelli biondi che cadono come raggi di sole, i raggi di sole che entrano dal finestrino alle sue spalle e gli inondano i capelli, come se avesse l’aureola. Già, pensa Becky, e non è la prima volta, questo è il ritratto dell’innocenza. Becky crede che Gesú sia davvero Gesú? Manco per idea. È solo uno che le ha dato una mano senza chiedere niente in cambio. Non ci ha nemmeno provato con lei, anche se l’ha visto agganciare, o meglio essere agganciato da tante altre. Chissà come mai, si chiede sempre Becky.
– Be’, l’hanno fatto per divertimento. Per umiliarla, credo, – dice Becky, sentendosi da schifo soltanto perché capisce quello che lui non riesce ad afferrare.
– Cavolo. Allora quando quel tizio con l’accento inglese… Steven?
– Steven Stelfox.
– Quando ha detto di essere arrabbiato perché lei gli faceva sprecare del tempo, in realtà sapeva già che gliel’avrebbe fatto sprecare…
– Temo proprio di sí.
– Capisco, – fa Gesú. – Quindi fingeva di essere arrabbiato? Quindi è tutta una… messinscena?
– Già. Spettacolo –. Becky si alza per recuperare la cassetta.
– Ma… – ancora non gli è chiaro, – quella ragazza credeva davvero di saper cantare, no?
– Sono in molti a crederlo. Ti va di bere qualcosa?
– Però è possibile che lei non ci stesse con la testa…
– Sono in molti a non starci con la testa.
– Quindi, se capisco bene, mi stai dicendo che oggigiorno il passatempo preferito della gente è guardare delle persone mentalmente instabili che vengono maltrattate e umiliate in televisione?
– Mmm, a quanto pare è proprio cosí. Siamo proprio unici quanto a rincoglionimento, eh? – Becky si incammina lungo il corridoio verso il minibar.
No, pensa Gesú, guardandola: unici non è la parola esatta.
Gli ritorna in mente una storia che gli aveva raccontato tempo fa uno dei dodici ragazzi. Matteo? O era Giovanni? Oppure Luca? Cazzo, che memoria! In ogni caso era stato piú di duemila anni fa, e allora sí che ne trincavano di vino. A ogni modo, uno di loro era in viaggio in qualche provincia romana, e qualcuno l’aveva trascinato a vedere i giochi che si tenevano in una piccola arena improvvisata. I romani adoravano quelle stronzate. C’erano un mucchio di prigionieri – briganti, politici corrotti, roba del genere – costretti a combattere: mingherlini contro energumeni armati fino ai denti, o leoni e altre bestie feroci, roba cosí. E un paio di prigionieri erano disabili. Ritardati, come li chiamavano allora. E li avevano messi a combattere contro un orso. I due non capivano un cazzo di quello che stava succedendo, si aggiravano per l’arena sbavando e ridacchiando finché l’orso non era entrato e li aveva fatti a pezzi, cazzo. Se li era divorati davanti a tutta quella gente. E la gente se la ghignava da matti.
Niente di nuovo sotto il sole, pensa Gesú.