«Non è fantastico? Un panorama mozzafiato, eh?» Queste erano state le parole dell’agente immobiliare, un annetto prima, quando erano arrivati a questo promontorio roccioso che guardava sulla valle. Perfino in quel momento, una fredda mattinata di dicembre, era stato un vero spettacolo. Adesso, nella calura tersa di un pomeriggio ai primi di settembre, è… be’.

– Cazzo, papà, – dice Gesú, alzando la sua birra verso la vallata. – Questa ciambella t’è venuta proprio con il buco –. La birra è gelida, quasi metallica in gola. Riappizza la canna – mamma mia, questo raccolto! Il loro primo raccolto, be’, di certo non regge il confronto con l’erba del paradiso, ma è comunque «una favola», come dice Morgan – si cala il berretto sugli occhi e si sdraia sulla roccia a pensare. Come diceva sempre papà: se te ne stai in ufficio tutto il tempo rimbambisci. Devi uscire con regolarità, schiarirti il cervello o magari incasinartelo un po’, e lasciare fluire le idee. Il promontorio dove se ne sta sdraiato a guardare verso ovest è il posto dove Gesú viene a fare proprio quello.

L’acqua del Collard Creek scorre a valle sempre piú lontano, giú giú fino alle paludi che contrassegnano l’estremità occidentale della proprietà, a quasi cinque chilometri di distanza. Gli argini del fiume sono costellati di ginepri, piccole e grandi querce, mesquite e cirmi. C’è molta selvaggina nei boschi che digradano verso le paludi: cervi dalla coda bianca, quaglie azzurre, uccelli acquatici, qualche cinghiale selvatico e perfino tacchini. (Claude aveva mostrato loro come si catturavano i tacchini, e adesso ne tenevano alcuni in un recinto vicino alla fattoria. «Sono squisiti», aveva garantito Claude, e tutti gli avevano dato ragione quando aveva arrostito uno di quei colossi in un forno scavato nel terreno e se l’erano pappato sotto le stelle con qualche patata di contorno).

Sulla sinistra in fondo, a formare il confine a sud della proprietà, c’è quello che il piccolo Miles ha sagacemente battezzato «Grande Lago», a forma di braccio piegato, lungo piú di tre chilometri e largo quasi mezzo chilometro nel punto piú ampio, che luccica argentato sotto il sole pomeridiano, con i pesci persici e i grossi pescigatto che fluttuano in quei freddi abissi. Big Bob e Morgan, pescatori provetti, spesso ci vanno alla mattina presto con canne da pesca, mulinelli ed esche. Il Grande Lago è abbastanza grande da poterci fare lo sci nautico, anche se Gesú Cristo non ci ha ancora provato. Ma certi pomeriggi Becky ci va con Pete o Kris, uno dei due si mette al volante del piccolo motoscafo e lei dietro a strillare di gioia, e le risate di Becky e il ronzio della barca arrivano in lontananza attraverso l’aria immota.

A destra, verso nord, c’è un’alta cresta di montagne costellata di pini, attraversata dalla strada che porta su fino a Bruntsville, la cittadina piú vicina, a dieci chilometri di distanza, oppure fino alla statale, dove puoi svoltare a sinistra e andare fino a Austin, ma ci vuole una giornata intera. Ogni tanto vedi le macchine scendere per la collina e accostare, poi il bagliore del sole riflesso da una lente: i teleobiettivi dei paparazzi oppure il binocolo di qualche curiosone, locale o venuto da fuori, che cerca di sbirciare il gruppo dei fricchettoni. Nascoste ai piedi della collina, sotto la catena montuosa, ci sono le case che i nuovi arrivati si stanno costruendo: alcune quasi finite, altre in vari stadi di avanzamento, e il tramestio dei martelli e delle seghe elettriche al lavoro sale fin lassú. Un paio di queste nuove abitazioni dànno sull’altro specchio d’acqua, il Laghetto.

Gesú Cristo si rotola sullo stomaco, con il sole che gli scalda la schiena, la roccia piatta e calda contro gli avambracci mentre si tira su per guardare a est – oltre il tetto del grande ranch, quasi tutto occupato da loro (i «pionieri», come si sono ribattezzati scherzosamente) e poco lontano le prime due case che hanno costruito sotto la guida di Pete, non certo due prodigi di ingegneria, ma a prova di pioggia e di spifferi, con i pannelli solari che luccicano su tutta la superficie del tetto – e scruta la fattoria che si trova a mezzo chilometro di distanza. Lí fervono le attività: un andirivieni di gente, carriole, archi d’acqua cristallina che zampillano dagli idranti e dagli irrigatori. Dietro la fattoria torreggiano le due grandi pale eoliche, che la brezza leggera fa girare piano.

All’inizio Claude era impaurito, ma cavolo, aveva fatto un gran lavoro. Nei primi mesi dell’anno, nel tardo inverno e a inizio primavera, aveva lavorato anche quindici ore al giorno per pianificare e seminare i campi, e tutti avevano dato una mano con gli scavi e il concime. (Il terreno non era malaccio per la zona, aveva detto Claude, ma aveva comunque insistito perché facessero arrivare con i camion decine di migliaia di dollari di compost di alta qualità). Ed ecco qui il risultato di tutto quel lavoro, che spunta da terra in grandi macchie di colore: file verdi di taccole e verze, cavolini di Bruxelles e rape, fagioli dall’occhio e barbabietole. Le macchie gialle delle grosse zucche, i fiori delle zucchine e i peperoni succulenti. Il rosso dei pomodori e dei peperoncini.

Il loro primo raccolto.

Gesú si tira a sedere e si scola la birra, la lattina dorata che si accartoccia facilmente in mano, poi molla un rutto allegro, lí seduto proprio nel bel mezzo di tutto: mille ettari di terra, piú di sei chilometri quadri, nella contea di Texas Hill Country. È tutto loro: se lo sono comprato. Jack Berry della Berry and Franklin li aveva aiutati a chiudere quello che aveva definito «un affaruccio niente male»: seicento dollari all’ettaro, e in omaggio il vecchio ranch diroccato, tutto in legno, con cinque camere da letto.

Un lago pescoso, selvaggina nei boschi e quasi ogni verdura immaginabile che spunta dal terriccio locale. Cazzo, sí, un vero affaruccio.

Quelle fantasticherie vengono interrotte dal ringhio di un motore. Gesú raddrizza la schiena e intravede Kris salire verso di lui lungo la collina polverosa, in sella a una motocicletta verde da cross, sul cui serbatoio c’è scritto «MANGIA LA POLVERE». Scala la collina fino in cima, spegne il motore e appoggia la moto su un fianco, facendo gli ultimi metri a piedi per non riempire Gesú di polvere.

– Ciao, vecchio mio, – dice Kris, sdraiandosi sulla roccia accanto a Gesú. Santo cielo, quel ciccione stava diventando uno stecco. Nel corso dell’estate doveva aver perso quindici chili, tenendosi lontano dalle porcherie dei fast food, al lavoro nel fango con Claude o nei cantieri con Pete, con un’alimentazione corretta e una bella nuotata tutte le mattine.

– Ciao roccia, – dice Gesú, passandogli lo spino. – Come va?

– C’è qualche nuovo arrivo laggiú –. Kris fa un cenno verso il punto in cui la strada privata che scende dalla montagna arriva ai cancelli della proprietà stessa.

– Ah, sí? E di dove sono?

– Una famiglia di Detroit, credo.

– Non sono i primi, no? – C’era parecchia gente arrivata da Detroit. La città era in bancarotta. Che vergogna, pensava Gesú. Era una città cosí rock. Gli MC5, gli Stooges, i White Stripes. E pure un sacco di ottima roba techno.

– Già, se ne sta occupando Becky ma faresti meglio a scendere. Vogliono parlare con te. Il signor Detroit è un pistolero niente male.

– Oh no, di nuovo!

Era già successo qualche altra volta, gente che voleva venire lí e vivere in pace e in armonia con una cazzo di Magnum sotto il cuscino. Certi americani si sentono nudi senza un ferro.

– Ciao, Gesú!

– Ehilà bello!

– Ti va una partitina a football, dopo?

Lui sorride, fa segno di no e batte il cinque mentre segue Kris per l’aia polverosa, dove scorrazzano i bambini. Sabato mattina. Cazzarola, ogni giorno feriale sembra un sabato mattina e ogni sera un venerdí sera. Gesú sente un rullo di tamburo portato dalla brezza: è Morgan, lí sotto nello studio di registrazione che stanno costruendo: prova la batteria, ma non è contento del suono. Avevano cercato di non farsi prendere troppo dalla smania di acquistare chitarre e altri strumenti: Kris aveva scelto un basso Fender Precision nuovo di pacca e Gesú si era regalato una stupenda Les Paul Junior bianca avorio del 1960, uguale a quella di Johnny Thunders. Stanno lavorando duro al demo con le canzoni per il disco di Gesú. (Non senza pressioni e bisticci. Negli ultimi sei mesi Stelfox e il figlio di Dio non hanno fatto altro che litigare su quali dovrebbero essere le due cover imposte dal contratto. A luglio Stelfox è piombato lí in elicottero per sentire a che punto erano e ha solo detto di alzare le parti vocali, tagliare gli assolo di chitarra e accelerare i ritornelli. Poi si è infilato di nuovo in elicottero borbottando che non capiva come mai Gesú vivesse in una sudicia comune da fricchettoni quando in banca aveva milioni di dollari).

– Ciao Becks, – dice Gesú, soppesando la situazione mentre si avvicina al cancello principale: Becky è di spalle, con le braccia conserte (brutto segno) ed è uno schianto in pantaloncini jeans sfrangiati e canottiera verde militare; sta parlando con un piccoletto bianco, con gli occhiali e un cappellino da baseball dei Tigers. Il signor Detroit, pensa Gesú. La moglie, ancora piú minuta di lui, e due figli – un maschio e una femmina, sui dieci anni – gli fanno capannello alle spalle. Appena vede arrivare Gesú, la ragazzina squittisce eccitata. – Sembra diverso che in televisione… – bisbiglia al fratello. Vedendolo, tutta la famiglia sembra irrigidirsi e fargli un sorriso. La celebrità è un pericolo mortale, pensa Gesú. Può giocare dei brutti scherzi al cervello, come diceva quella canzone degli Smiths.

– Ciao ragazzi, qual è il problema?

– Il problema, – dice Becky, – è che il qui presente Terence ha una pistola in valigia.

– Dagliela e basta, – sibila la moglie.

– Mi dispiace, amico, niente armi, – dice Gesú.

– Ma ho appena visto un tizio passare con un fucile.

– Sí, abbiamo dei fucili da caccia, – continua Gesú. – Che puoi benissimo usare se e quando vai a caccia. Però non sono ammesse le armi personali.

– Ma… mi è costata un occhio. Dove andrà a finire?

– Quante volte devo ripeterlo? – comincia Becky, ormai al limite della pazienza.

– Tranquilla, Becks, – dice Gesú, appoggiandole una mano sulla spalla. – Ci penso io. La custodiamo noi in un posto sicuro, e se te ne vuoi andare te la restituiamo.

– Invece dovremmo buttarle tutte in fondo a quel maledetto lago, – dice Becky.

– Mi date una ricevuta? – chiede il tizio, quel Terence.

– Be’, non è esattamente il modo in cui funzionano le cose qui, – ridacchia Gesú.

– Terence… – sibila la moglie.

– Ok, ok. Io… – fruga nello zaino e ne tira fuori una pistola nera dall’aria minacciosa. – Non volevo dare problemi. È solo che non sapevo cosa aspettarmi. Capite?

Kris prende la pistola mentre Gesú gli fa strada attraverso il cancello. – Non hai dato alcun problema, Terence: prego, entrate. Ciao ragazzi… Signora… Io sono Gesú Cristo, anche se qui tutti mi chiamano semplicemente Gesú.

– Lo sappiamo chi sei! – la moglie ride come una ragazzina, tutta in smania. – Io mi chiamo Teresa Brokaw. Questi sono Sean e Clare.

– Gliel’hai proprio fatta vedere, a quel maledetto Stelfox, – dice la piccola Clare.

– In realtà è un bonaccione –. (Gesú ha imparato a mentire).

La famiglia Brokaw segue Gesú e Becks dentro la zona recintata: si guardano intorno con gli occhi fuori delle orbite, si girano di qua e di là. Per l’aria aleggia l’odorino pungente della carne alla griglia, da qualche parte arriva della musica – funk tosto, George Clinton o roba del genere – e gli echi dei martelli e delle motoseghe.

– Se avete fame, – dice Gesú, indicando un barbecue lungo tre metri, – lí c’è una grigliata in corso. Se volete schiacciare un pisolino, trovate delle brande in quei capannoni lungo quel sentiero, vicino al bosco –. Gesú addita un vialetto pavimentato con assi di legno. – È lí che sistemiamo i nuovi arrivi. Ci sono anche le docce, i gabinetti e tutto il resto. Oppure potete piantare una tenda dove vi pare. E, be’, per ora è tutto. Magari piú tardi vi dico il resto. Volete bere qualcosa? Una birra? – Sono arrivati al portico ombreggiato dell’edificio principale. Sdraiato per terra, Bob gioca con le macchinine insieme a Miles.

– Sí, grazie, – dice Terence Brokaw. – Io… io non sapevo cosa aspettarmi. Insomma, avevo letto qualcosa, ma… sembra di stare a un festival rock, no?

– Già, piú o meno… – dice Gesú, mentre infila le mani in un frigo e ne tira fuori un paio di birre ghiacciate e due bibite per i ragazzini. – Però senza i biglietti che costano un occhio, gli hamburger a peso d’oro e la musica che fa schifo. Alla salute –. Brindano facendo schioccare le lattine e si siedono sui gradini di legno.

– L’utopia fatta realtà, eh? – dice Terence, sfilando gli occhiali.

Gesú fa un mugugno. – Ti prego, non chiamarla cosí. Non è un’utopia.

– E allora come la chiameresti?

– Una… comunità, forse. Nel senso originario del termine.

Annuiscono e buttano giú un sorso di birra, mentre guardano la fattoria in alto sulla collina.

– Quante persone ci vivono qui? – chiede la ragazzina.

– Piú o meno duecento, ormai, Clare. Famiglie, single. Di tutto.

– Cavolo, sono grandi quelle pale eoliche, eh? – esclama Terence, facendo un cenno con la lattina.

– Già –. Gesú segue lo sguardo ammirato di Terence verso un paio di scintillanti propulsori a elica. – Abbiamo fatto venire un tizio dal Centro Eolico di Horse Hollow, nella contea di Taylor e Nolan. Dico «abbiamo», ma è stato il vecchio Pete a occuparsene. Ehi, Pete! – Gesú grida a Pete, che sta esaminando delle cianografie stese su una panca all’aria aperta. – Ti presento la famiglia Brokaw, di Detroit.

– Ciao a tutti, – risponde Pete e si avvicina per stringere loro la mano.

– Dicevo… – continua Gesú, – Pete ha fatto venire questo tizio e lui ci ha spiegato come fare, e ci ha perfino trovato questi bestioni di seconda mano. Ci sono costati quasi mezzo milione di dollari, ma quanta energia generano, Pete?

– Quasi un milione di kilowatt annui. Con i pannelli solari per l’acqua calda e tutto il resto, siamo quasi completamente autosufficienti.

– Già, quando funzionano, – dice Becky.

– Sí, all’inizio ci hanno dato qualche rogna, – dice Pete. – Non stoccavano l’energia nel modo corretto, non giravano quando dovevano. Alla fine il tizio ha sistemato un paio di videocamere digitali in cima ai due bestioni, per monitorare la situazione ventiquattr’ore su ventiquattro e capire quando giravano. Le immagini restano memorizzate nel disco rigido alla base delle turbine.

– Ok ok, abbiamo avuto qualche problemino all’inizio, – concede Gesú. – La nostra adorata Becks tende a vedere il bicchiere mezzo vuoto…

– Ma fammi il piacere. Qualcuno qui dovrà pur badare al lato pratico, – lo rintuzza Becky.

– E quindi… – dice Terence, pulendosi il labbro superiore dalla schiuma di birra, – quand’è che c’è la messa?

– La messa? – domanda Gesú.

– Sí, la messa e le preghiere e tutto il resto.

Gesú e Becky scoppiano a ridere.

– Amico, – dice Becky, – se è questo che cercavi, poco ma sicuro sei finito nel posto sbagliato.

A volte ritorno
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