13.
L’incidente, l’anti-Europa. Italexit

Durante un seminario del think tank Astrid, il 15 ottobre 2018, l’ex membro del board della Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi, dal palco pronunciò quella verità che molti in Europa sussurravano ma che nessuno fino a quel momento aveva formulato così esplicitamente: il vero deficit implicato dalla manovra economica voluta dal Movimento cinque stelle e dalla Lega non era il celebre 2,4 per cento fissato senza che il ministro dell’Economia Giovanni Tria riuscisse a farci granché, ma si avvicinava al 3,5 per cento. I commenti in sala – di banchieri, politologi, giornalisti, analisti finanziari, alti burocrati non solo in Italia – furono di questo tenore: «Andiamo avanti così e le banche, tempo tre settimane, saranno in crisi di liquidità. Il governo potrebbe essere costretto a porre un tetto di 100-200 euro ai prelievi giornalieri».

La previsione sulla tempistica era fin troppo cupa, ma lo scenario non parve irrealistico a nessuno dei presenti. Le assunzioni di crescita per il 2019 esposte dalla maggioranza di Movimento e Lega (più 1,5 per cento) erano state bocciate da qualunque istituzione, italiana e internazionale, dal Fondo monetario alla Bce, dalla Banca d’Italia all’Ufficio parlamentare di bilancio; tutti, sostanzialmente senza eccezione, orientati a prevedere per il 2019 dell’Italia un più modesto 1 per cento. A inizio 2019 il Fondo monetario internazionale ha ulteriormente abbassato quella previsione a un modesto più 0,6 per cento. Inquietava non solo lo spread tra i btp decennali italiani e i bund tedeschi, in quel periodo salito stabilmente sopra quota 300 (nel momento migliore del governo di Matteo Renzi era sotto i 100, e subito dopo le elezioni italiane, il 5 marzo, era ancora a 136 punti base), ma l’assoluta determinazione mostrata sia dai Cinque stelle sia dalla Lega a proseguire nella politica di scontro con l’Europa, verso la possibilità più che concreta dell’apertura di una procedura d’infrazione della Commissione europea verso l’Italia. Nella prima giornata della quattordicesima emissione di btp nel novembre 2018 venivano raccolti (la miseria di) 481 milioni (la prima giornata della tredicesima emissione, a maggio, si era chiusa a 2,3 miliardi, e quella della dodicesima emissione a 2,2 miliardi). Il popolo non mostrava grande entusiasmo all’idea di investire i propri risparmi nel governo del popolo. Del resto, come nota Silvia Merler per il think tank Bruegel, «questo tipo di repressione finanziaria solidaristica [da parte del governo Movimento-Lega] è difficilmente fattibile, se non attraverso un’implosione sociale». È quello verso cui spinge il Movimento?

Il 19 novembre l’Italia una promessa di Salvini l’aveva già mantenuta: voleva fare come l’Ungheria, e in effetti lo spread dei due paesi era uguale, 321 punti. Lo spettro degli spread a 400 in tempi relativamente brevi, e una conflittualità endemica, quasi la necessità fisiologica, di due forze populiste di alzare costantemente il livello degli scontri faranno il resto nei mesi successivi, verso le elezioni europee. La fotografia dell’Italia di fine 2018 è quella di un paese sull’orlo di un precipizio.

Fatto è che, il 23 ottobre 2018, la Commissione europea – come mai era avvenuto nella storia d’Europa – dovette bocciare formalmente la legge finanziaria proposta dal governo di Giuseppe Conte e fortemente difesa da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, chiedendo sostanziosi cambiamenti al testo. I commenti dei due vicepremier furono di questo tenore. Salvini: «Non bocciano un governo, ma un popolo». Di Maio: «È la prima manovra italiana che non piace alla Ue. Non mi meraviglio: è la prima manovra italiana che viene scritta a Roma e non a Bruxelles!». Con seguito di scenette poco edificanti. Un europarlamentare leghista, alla fine della conferenza stampa del commissario europeo all’Economia, Pierre Moscovici, lo raggiunse al tavolo, gli sfilò i fogli della dichiarazione pubblica, si tolse la scarpa e la sfregò sopra quei fogli. Non parve un gesto destinato a restare immortale come la sfuriata di Nikita Chruščëv con la scarpa in mano; nondimeno Moscovici, lì per lì attonito, commenterà: «All’inizio si sorride e si banalizza perché è ridicolo, poi ci si abitua a una sorda violenza e un giorno ci si risveglia con il fascismo». In Italia ci siamo abituati.

Tutto avveniva all’insegna dello slogan «made in Italy», ormai stabilmente connotato in senso sovranista. È uno dei frutti dell’esperimento di Casaleggio: ogni volta l’asticella viene spostata un centimetro più avanti, con un nuovo scontro, un ulteriore nemico, una dichiarazione incendiaria o scorrettissima, e si osserva l’effetto che fa. Il Movimento ne ha bisogno per restare in vita, come una forma di dipendenza. Se la cosa passa, ossia riceve un feedback positivo, o almeno non negativo, si può andare avanti. In questo quadro lo scontro, «l’incidente» con l’Europa sull’euro e sull’Europa – ma anche l’incidente dentro lo stesso governo, tra Cinque stelle e Lega – è una variabile temuta o, neanche troppo nascostamente, desiderata e fin quasi progettata, dal governo del cambiamento?

La domanda va tenuta aperta, lasciando che a rispondere siano i fatti, e quella particolare variante di fatti rappresentata – in una situazione politico-economica europea e mondiale sempre più interconnessa – dalle parole. Prima che il governo Conte, a metà dicembre 2018, facesse retromarcia nella trattativa con l’Unione europea sul deficit – passando dal 2,4 al 2,04, e insinuando in tanti osservatori il sospetto di aver scelto quel numero nella speranza che qualcuno dei seguaci di Lega e Movimento non si accorgesse del passo indietro del governo sovranista – l’incidente e lo scontro con l’Europa erano stati più volte evocati, se non quasi corteggiati. Entrambi i fronti della maggioranza, non solo la Lega, e il ministro trait d’union tra Lega e Movimento, ossia Paolo Savona, li avevano più e più volte teorizzati. Basta osservare una sequenza che non può essere casuale, ma riflette pensieri e ragionamenti che circolano evidentemente dentro il gabinetto italiano guidato da Giuseppe Conte.

Il 30 settembre 2018 Savona sceglie «Il Fatto Quotidiano» per illustrare la seguente tesi: «L’ideale sarebbe quello di attivare massicci investimenti, nell’ordine dei risparmi in eccesso degli italiani, pari a circa 50 miliardi di euro, presenti da alcuni anni nella nostra economia». Il 9 ottobre Salvini, di fronte a un’altra giornata nera di impennata degli spread e di crescita dei tassi d’interesse, ripete più o meno lo stesso concetto: «Sono convinto che gli italiani siano pronti a darci una mano. La forza dell’Italia, che nessun altro degli amici al tavolo oggi ha, né i francesi, né gli spagnoli, è un risparmio privato che non ha eguali al mondo» (una profonda inquietudine si diffuse circa una presunta volontà del governo, naturalmente mai apertamente dichiarata, di mettere le mani nei conti correnti). Il giorno dopo il viceministro dell’Economia Laura Castelli, del Movimento, dice in tv: «Non si può andare avanti a chiedere unicamente alle banche di sostenere il paese: il cittadino si deve ritenere parte del progetto e dobbiamo chiedergli di crederci». Il 20 ottobre, il giorno dopo il downgrading dei nostri titoli di Stato da parte della principale agenzia di rating internazionale, Moody’s, Luigi Di Maio commenta: «Accolgo il responso [di Moody’s] con un grande sorriso. L’Italia è solida dal punto di vista del risparmio». Di nuovo l’evocazione, abbastanza inquietante, del risparmio degli italiani. Che l’esecuzione stia per diventare, anche, l’esecuzione dei loro soldi in banca?

Due giorni dopo il ministro dell’Economia Giovanni Tria parlava all’Unione europea e Ferdinando Giugliano, commentatore economico di «Bloomberg», riassunse così il senso delle sue parole: «1) L’Italia sa di ignorare le regole ma non importa. 2) Il deficit strutturale non calerà fino al 2022. 3) Il pil crescerà con investimenti e riforme. 4) Gli investitori se ne accorgeranno e lo spread calerà. 5) Se i conti peggiorano, prenderemo misure».

Non è chiaro in quel momento se l’intenzione concorde nel governo di Movimento e Lega sia quella di prendere misure (la posizione, sempre perdente, di Giovanni Tria) o invece di far peggiorare i conti, nell’intenzione non troppo recondita di arrivare a uno scontro frontale con l’Unione, come quello che si manifesta ormai irrimediabilmente il 21 novembre 2018. Due mesi prima, il 14 settembre, Savona aveva dato quello che a molti parve come il preavviso della “tempesta perfetta”, quando mosse critiche sconcertanti al presidente della Bce: «Draghi si è procurato poteri che non avevamo previsto. Fa interventi sui cambi di cui sappiamo molto poco. La mia proposta è che questi poteri vengano messi nello Statuto in modo che poteri e responsabilità coincidano». E dieci giorni più tardi, in un’intervista alla Rai, fu così sferzante che i media stranieri la ripresero con enfasi e preoccupazione. «Bloomberg» titolò: «Il ministro euroscettico agli Affari europei, Paolo Savona, ha detto che l’Italia dovrebbe esser pronta a uno scenario di euro-exit. “Una leadership ben preparata deve essere pronta a tutto”, ha detto Savona in un’intervista alla Rai».

Con la maggioranza Lega-Movimento bisognava essere, letteralmente, «pronti a tutto». Compreso a uno scenario di Italexit, anche se ovviamente non veniva formulata questa espressione, invece assai cara a tutta la galassia social sovranista e pro-maggioranza. Sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», a fine ottobre 2018, il capoeconomista della Bundesbank, Karsten Wendorff, lanciò una proposta terribile (per l’Italia): suggerì che Roma creasse un proprio fondo di salvataggio alimentato da speciali titoli di Stato di solidarietà sottoscritti forzatamente dai risparmiatori con il 20 per cento del proprio patrimonio netto. Di fatto un esproprio che, secondo l’autore tedesco della proposta provocatoria, si ispirava alle tesi di Paolo Savona. Il quale a sua volta ha previsto per l’Italia una crescita del 2 per cento nel 2019 e del 3 nel 2021, ma nel momento in cui scrivo, alla fine del terzo trimestre 2018, la crescita è stata zero. Anche se poi la porta per una ritirata, abbastanza precipitosa, dal sovranismo (e dalla stessa alleanza Movimento-Lega), veniva tenuta sempre aperta, ambiguamente. Il «Corriere della Sera» riferì il 17 novembre 2018 (e non fu smentito) che, in un Consiglio dei ministri, Paolo Savona ammise: «La situazione è grave». Ma non seria, avrebbe forse aggiunto Ennio Flaiano.

Nel libro La tempesta perfetta (1997) Sebastian Junger narra una storia vera, quella di un peschereccio d’altura che, vista la scarsità di pesce nei mari del New England, fa rotta verso il Flemish Cap, una zona ricca di pesce spada, ed effettivamente riempie le stive di una enorme quantità di pescato. Ma due eventi imprevisti mandano in tilt la situazione: la rottura del frigo di bordo e le avvisaglie di una potente tempesta che rischia di scaturire dallo scontro tra un uragano (Grace) e due aree di bassa pressione. La concomitanza delle due circostanze pone i marinai di fronte al dubbio: tornare a casa per la via sicura (Gloucester), ma perdere la notevole quantità di denaro derivante dalla grossa pesca fatta, o tentare la via breve, nell’occhio del ciclone? La fame di denaro spinge i marinai alla seconda opzione, che sarà fatale. Un editoriale della «Stampa» ha paragonato i pesci ai voti, e il peschereccio Andrea Gail al governo Salvini-Casaleggio. O forse il peschereccio è l’Italia tutta, vittima di un’esecuzione capitale pianificata a tavolino, l’esecuzione del Paese, o l’esecuzione preterintenzionale della stessa alleanza tra i due partiti della maggioranza populista-autoritaria.

La tempesta perfetta – o, secondo il lessico di alcuni economisti italiani, «la teoria dell’incidente» più o meno cercato dal governo italiano – non era naturalmente scontata, ma è andata assai vicina all’autoavverarsi. Soltanto una moral suasion esercitata discretamente ma con forza dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha scongiurata, durante la complessa trattativa con l’Europa di fine 2018. Ma tante avvisaglie di aree di bassa pressione, se non proprio di uragani, hanno cominciato a farsi via via più percepibili nell’inverno 2018-2019, anche mettendo semplicemente in fila le realizzazioni, o le mancate promesse, del governo populista. Sia la Lega sia il Movimento hanno fatto di tutto per rispettare le loro principali promesse elettorali, ma dovendole rimandare: la flat tax leghista, che però non è stata più “flat”, anzi, ha preso le sembianze di una doppia, e forse tripla aliquota; la quota 100 per le pensioni; e il reddito di cittadinanza, annunciato per decreto per l’aprile 2019, quindi in piena campagna elettorale, assai depotenziato rispetto alle promesse e con alcune caratteristiche tutte da verificare.

Il Movimento parlava di un «reddito universale», invece riguarderebbe una platea di 5 milioni di persone, con uno stanziamento di 7 miliardi nella manovra. Ma con problemi seri nella sua realizzazione. Secondo l’Istat il 69 per cento del precedente reddito d’inclusione, deliberato dal governo Renzi e varato dal governo Gentiloni, era andato nelle tasche di cittadini del Sud, per certi versi aggravando il divario socio-economico col Nord. Di Maio promise che solo il 53 per cento del reddito che sarebbe stato erogato dal governo del Movimento cinque stelle sarebbe andato al Sud, ma secondo alcune fondate simulazioni, prima della partenza la misura pareva concentrarsi in sostanza in due grosse regioni, Sicilia e Campania, col sospetto di ridursi a una pratica meramente assistenzialistica, guarda caso nelle terre del boom elettorale del Movimento. Il che oggettivamente poneva in forte contrasto le esigenze elettorali leghiste con quelle dei Cinque stelle.

Queste due promesse, quota 100 per le pensioni e reddito di cittadinanza, avevano comunque dato la sensazione – almeno agli elettori più fidelizzati dei due partiti di maggioranza – se non altro di un tentativo di mantenere gli impegni: anche se rimandati rispetto alla legge di bilancio votata a fine 2018. Torneranno buone nella lunga campagna euro-populista verso le elezioni europee della primavera del 2019. A prescindere dal bilancio del loro governo – Italia in recessione con il meno 0,2 per cento certificato dall’Istat nel quarto trimestre 2018 (nel frattempo il presidente Istat verrà sostituito da Lega e Movimento, con il solito via libera anche di Forza Italia), inasprimento del clima sociale, aumento complessivo della pressione fiscale, peggioramento drammatico nei diritti civili –, Lega e Movimento ci arrivano in differente stato di salute. L’anemica manovra finanziaria votata alla Camera nell’ultimo giorno utile dei lavori parlamentari 2018, senza nessuna discussione in aula, senza prospettiva di crescita e con tagli agli investimenti, aiuta la recessione e difficilmente risolverà qualcuno dei problemi dell’Italia. Il governo giallonero, e Conte che esulta per il risultato, lasciano la prima eredità sicura a quelli (chiunque siano) che gli succederanno: le clausole di salvaguardia europee sull’Iva aumentano nel 2020 da 13,7 a 23,1 miliardi, e nel 2021 da 15,6 a 28,7 miliardi. Se non altro però, grazie soprattutto a Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici (che hanno battuto la resistenza del commissario europeo più rigorista, Valdis Dombrovskis), il treno-Italia è stato intercettato e fermato sullo strapiombo.

I Cinque stelle possono allora andare avanti in un’altra arrembante campagna elettorale euroscettica, centrata sulla presenza di Alessandro Di Battista e sugli strumenti principali di propaganda: lo stanziamento di un qualche reddito di cittadinanza, per quanto assai indebolito, proprio in coincidenza con il voto europeo, e il taglio assai reclamizzato di qualche euro dalle buste paga di deputati e senatori. Delle restituzioni spontanee da parte dei parlamentari del Movimento si è invece via via persa traccia per tutto il 2018 sul sito tirendiconto.it, per lunghi mesi non più aggiornato, dal dicembre 2017. L’agenzia Adnkronos scopre che, il 7 agosto 2018, Di Maio e i due capigruppo M5S D’Uva e Patuanelli sono andati davanti al notaio Luca Amato di Roma e hanno costituito un nuovo «Comitato per le rendicontazioni e i rimborsi del Movimento 5 Stelle», nel quale devono confluire tutti i soldi restituiti dai parlamentari al partito. Ma cosa succede se, alla fine, avanzano dei soldi che il Comitato non utilizza? Semplice, l’articolo 16 dell’atto costitutivo del Comitato recita: «Se allo scioglimento del comitato dovessero restare fondi a disposizione, questi verranno devoluti all’Associazione Rousseau» presieduta da Davide Casaleggio, attualmente «con sede in Milano, Via Gerolamo Morone n. 6». Intanto l’Europa stessa diventa per un verso l’alibi delle mancate promesse, e per l’altro lo strumento della campagna duramente euroscettica nella primavera del 2019: del resto, nei mesi precedenti le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, una raffica imbarazzante di risultati negativi, o di ritrattazioni e passi indietro, s’è registrata su quasi tutti i dossier spinosi e le grandiose promesse elettorali, specie quelle economiche, del Movimento cinque stelle. Una breve rassegna può darne una misura.

L’Italia giallonera cala dal ventunesimo al trentatreesimo posto nel Democracy Index pubblicato dall’«Economist» a gennaio del 2019. Migranti respinti, sostegno diffuso all’idea dell’uomo forte, giornalisti intimiditi e cacciati dalle convention, schedature di scienziati impressionano molto analisti, ricercatori, semplici osservatori stranieri. Ciò che qui ormai pare normale, assuefatti al dominio propagandistico giallonero, all’estero non lo è affatto. Non ancora. Di Maio va spargendo previsioni che non sembrano realistiche. Come quando, l’11 gennaio 2019, assicura che «un nuovo boom economico potrebbe rinascere: negli anni Sessanta avemmo le autostrade, ora dobbiamo lavorare alla creazione delle autostrade digitali». In quella stessa mattinata l’Istat pubblica dati disastrosi sulla produzione industriale in Italia durante il governo Movimento-Lega: a novembre del 2018 si è registrato un -2,6 per cento rispetto al novembre dell’anno precedente. Il settore auto, da sempre il sismografo più affidabile sulla tendenza generale del Paese, è in pesantissima recessione: segna un -19,5 per cento rispetto al 2017. Dall’avvento del governo si sono persi – secondo un calcolo del «Foglio» – 627 posti di lavoro al giorno. Il «decreto dignità» produce ottomila disoccupati in più ogni anno. I titoli italiani in borsa sono crollati del 30 per cento. Le imprese sono state gravate da 6 miliardi e 143 milioni di tasse in più. Per la prima volta dal 2014 c’è il segno negativo sulla crescita. A fine 2018 si registra la più negativa raccolta finanziaria sull’emissione di btp dal 2014. La produzione industriale cala. Lo spread dai 130 punti di marzo 2018 sale a 330, per attestarsi a 258 a dicembre. Le principali agenzie di rating declassano rispettivamente rating e outlook dei titoli di Stato italiani. La fuga di capitali e di investimenti dall’Italia viene stimata in almeno 90 miliardi. L’Ufficio parlamentare di bilancio sentenzia che, con la legge di bilancio Lega-Movimento, la pressione fiscale salirà nel 2019 al 42,4, e l’anno successivo al 42,8. Nel 2010 si era attestata al 42.

Di Maio, forse cedendo un po’ all’enfasi, disse che con la manovra il Movimento avrebbe eliminato la povertà. Ma i primi effetti misurabili delle misure economiche dei Cinque stelle non sono stati positivi. Nei primi due mesi del «decreto dignità» in vigore, propagandato come medicina contro la precarietà, s’è registrata una flessione del 13 per cento dei contratti a tempo ad agosto 2018 (23.833 in meno rispetto all’agosto 2017), e del 20 per cento a settembre. Stesso risultato anche nei contratti a tempo indeterminato, scesi da 401.557 (agosto 2017) a 359.943.

Di Maio prometteva, registrato dal «Fatto Quotidiano»: 30 miliardi di risparmi dalla spending review, 40 miliardi dal taglio alle detrazioni, 10-15 miliardi da maggior deficit. La manovra finanziaria che in autunno porta l’Italia in rotta di collisione con la Commissione europea – prima della fortunosa retromarcia della maggioranza – non reca nulla di tutto questo, a parte una sensibile crescita del deficit che abbiamo quantificato qui sopra.

Né le cose sono andate meglio sui dossier. Ilva, gasdotto Tap, Tav, trivellazioni. A Taranto il Movimento prometteva di chiudere tutta l’area delle acciaierie e riconvertire. Grillo arrivò a teorizzare un mega parco archeologico green. Alla prova dei fatti Di Maio siglò un accordo, ragionevole per salvare l’occupazione ma totalmente sulla falsariga di quello che aveva a lungo trattato il ministro precedente Carlo Calenda: sempre insultato dalla propaganda Cinque stelle. Sul no al Tap – il gasdotto dall’Azerbaigian, così osteggiato dal Movimento per blandire e ottenere i consensi no-Tap pugliesi – la campagna elettorale Cinque stelle aveva fatto registrare un exploit fenomenale in Puglia. Alessandro Di Battista, in un comizio in Salento, a San Foca, il 2 aprile 2017, promise memorabile: «Con il governo del M5S il Tap lo blocchiamo in due settimane, in due settimane!». La realtà è andata diversamente. La ministra Lezzi il 15 ottobre 2018 già lasciava intendere la resa: «Il sentiero è molto stretto, faremo verifiche nelle prossime 36 ore». Nessun atto interdittivo è poi arrivato dal governo, e in quelle terre pugliesi gli elettori del Movimento sono a dir poco infuriati, fino a bruciare le bandiere con le facce di Di Maio, Di Battista, la Lezzi stessa.

Altra crisi apparentemente insolubile è il Piemonte. Tutto il Movimento piemontese è stato, col senno di poi, un’attenta capitalizzazione politica di una battaglia specifica e pluridecennale, quella dei no-Tav piemontesi: eppure anche su questo il governo Conte ha faticato a trovare una posizione pragmatica e operativa. Tria ripeteva: «Personalmente spero che [la Tav] si faccia e che il problema si sblocchi, che ci sarà una soluzione anche perché si tratta di grandi collegamenti internazionali», ma il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (celebre, più che per le sue prove di governo, per gaffe imbarazzanti: due su tutte, quella sul tunnel che a suo dire passerebbe sotto il traforo del Brennero, o le foto spensierate su Instagram nei giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova) ha ripetuto un mantra vuoto: «Stiamo facendo un’attenta analisi costi-benefici». Di certo l’elettorato leghista di medi imprenditori piemontesi ha fatto chiaramente arrivare al suo leader Salvini il messaggio che non fare l’opera sarebbe disastroso: non per le presunte penali, ma per gli affari di quel mondo che ha votato in massa Lega. Mentre per il consenso del Movimento sarebbe disastroso farla: secondo Ipsos, a metà novembre tra gli elettori M5S il 45 per cento voleva il blocco dell’opera, ma un altissimo (e sorprendente) 39 voleva invece farla.

Il risultato è che per la prima volta nella storia del consiglio comunale di Torino, tutti i ceti produttivi e i sindacati torinesi – senza nessuna eccezione – accerchiano Chiara Appendino il giorno di fine ottobre 2018 in cui il Comune vota, su proposta dei Cinque stelle, contro l’alta velocità. La sindaca è in quel momento a Dubai, foto plastica di una Torino lasciata al suo destino di decrescita. Il 10 novembre 2018 in trentamila scenderanno in piazza Castello, senza bandiere, ma sostanzialmente contro la sindaca, in un corteo che vede compatti gli industriali e i commercianti torinesi, un tempo così benevoli verso Appendino. Altrettanti – e anzi ancor più, benché provenienti da tutto il Piemonte, e anche da tante altre regioni d’Italia – saranno sempre in piazza Castello un mese dopo, l’8 dicembre, ma contro la Tav. Chi deve scontentare, tra questi due popoli, un Movimento costruito in laboratorio sulla ricerca del consenso di tutti gli opposti?

Il giorno dopo che i Cinque stelle hanno votato compatti, nella giunta per le immunità del Senato, per proteggere Matteo Salvini dalla richiesta di autorizzazione a procedere per il caso della Diciotti, la Lega concede al Movimento una mozione-dilazione che di fatto rinvia alle calende greche l’opera: tutto sarà ridiscusso, ma a data da destinarsi. Il che consente al Movimento di non avere anche il problema-Piemonte nella sua già difficile campagna elettorale per le europee.

Si sono toccate vette persino plateali, nelle promesse tradite dai Cinque stelle nell’esecuzione dell’esperimento di Casaleggio. Difficile dire quale sia stata la più clamorosamente tradita. «Siamo vicini alle banche ma non ci metto un euro degli italiani. Ce ne abbiamo già messi troppi in questi anni», prometteva Di Maio nell’ottobre 2018, ripetendo un mantra quinquennale del Movimento, «niente soldi pubblici alle banche», a lungo servito per attaccare pesantemente l’allora premier Matteo Renzi e il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, soprannominata Maria Etruria dalla propaganda pro-M5S, dal nome della banca di cui era consigliere e poi vicepresidente il padre.

Eppure, la notte del 7 gennaio 2019, il governo Movimento-Lega decreta con una clamorosa inversione a U il salvataggio di Carige, la cassa di Genova, con soldi pubblici e garanzie statali, in coordinamento con l’Unione europea; quella stessa Carige di cui Guido Alpa, mentore giuridico del premier Giuseppe Conte, è stato a lungo consigliere. Prima di ricevere l’incarico da premier, ancora semplice avvocato, Conte scrive un parere per l’applicazione della golden share alla società di tlc Retelit. A dare l’incarico è Raffaele Mincione, azionista della società, e socio di Carige con non poche azioni, il 5,4 per cento: tutto questo configura un conflitto d’interessi tra colui che a breve diventerà premier e le decisioni riguardanti la banca genovese? Palazzo Chigi nega risolutamente. Il finanziere Mincione se la cava così con il «Corriere della Sera»: «Conte non l’ho mai incontrato, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori». Mincione, segnala il «Corriere», ha il doppio passaporto, italiano e britannico, vive a Londra da 35 anni ed è ben introdotto anche lui nella comunità finanziaria britannica.

Altre promesse tradite si sprecano. Luigi Di Maio in un comizio assieme a Di Battista nell’agosto 2017 aveva gridato: «Vi sfido a trovare una proposta di legge a mia prima firma sul condono a Ischia. Il giorno che proporrò un condono a Ischia ditemelo che mi vado a iscrivere al Pd». Non si è iscritto al Pd, benché il Movimento abbia infilato non uno ma due condoni: uno proprio su Ischia, con una norma inserita nel decreto per Genova; due senatori del Movimento, Paola Nugnes e Gregorio De Falco, si sono rifiutati di votarlo e il gruppo Cinque stelle li ha immediatamente sottoposti a un processo orwelliano, che l’ultimo giorno del 2018 porta all’espulsione di De Falco e di altri tre eletti, un senatore e due europarlamentari. La tecnica è sempre la stessa: colpirne qualcuno per educarne qualche decina.

Di solito la procedura si apre facendo partire contro di loro una macchina del discredito, per capire la quale basta ascoltare la frase scagliata addosso a De Falco da Stefano Buffagni, sottosegretario del Movimento, uomo vicinissimo a Davide Casaleggio: «Noi dobbiamo tenere in piedi i conti del Paese, non quelli della famiglia De Falco» (una senatrice Cinque stelle, Elena Fattori, denuncerà «un clima di terrorismo psicologico»). De Falco, una volta cacciato, parlerà di un Movimento «illiberale in cui non c’è democrazia». Buffagni diventa infelicemente famoso anche per un’altra frase, sul reddito di cittadinanza. Per impedire che qualcuno se ne approfitti, dice, oltre a controlli dell’Inps e dei Comuni, saranno utili «anche le segnalazioni che spesso arrivano dal vicino di casa che è invidioso». Una specie di messa a sistema della delazione, secondo molti osservatori, tra cui la politologa Sofia Ventura. Le espulsioni fanno sì che via via il governo Lega-Movimento si trovi a reggersi su una maggioranza più esile a Palazzo Madama. Eppure Di Maio avvisa che se altri parlamentari Cinque stelle non rispetteranno il contratto con la Lega, saranno cacciati anche loro: «Anche a costo di andarcene tutti a casa». Come nel bellissimo film Dovlatov – la storia dello scrittore russo di origini ebraico-armene Sergej Dovlatov, ambientata nella Leningrado dei primi anni Settanta – censure, sussurri, dossieraggi e schedature, interne ed esterne, fanno parte del destino dell’esperimento, a maggior ragione nell’età dell’esecuzione. Si schedano gli scienziati da mandar via per le loro passate appartenenze politiche, come scopre «Repubblica», ma si tengono d’occhio anche i membri del proprio stesso Movimento, eventualmente per cacciarli.

L’altro condono era nel decreto fiscale, una specie di flat tax al 20 per cento per favorire, e premiare, l’emersione di un nero fino a centomila euro, per un massimo di cinque anni: fu precipitosamente e ingloriosamente ritirato, quando il Movimento realizzò che forse ci stava perdendo troppi voti. Tra le pieghe del decreto si annidava anche un terzo condono dimenticato: 117 grandi contribuenti in lite con il fisco per oltre 10 milioni che avrebbero potuto chiudere la lite pagando il 10 per cento. Anche questo, poi cancellato. Ma anche solo averci lungamente pensato pone la domanda: erano queste le celebri misure di equità sociale che tanto sbandierava il Movimento? Non mancherà, nella manovra, una norma assai discussa che consente la definizione agevolata dei debiti tributari per le persone con un basso indicatore Isee: norma che, secondo molti osservatori, aiuta di fatto anche i due padri di Di Maio e Di Battista, configurando un altro pezzo dei tanti conflitti d’interesse in cui si avviluppa il Movimento al governo.

Del resto il ministro Savona aveva commentato in tv su Sky: «Perché non dovremmo fare il condono fiscale? È una redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri». Una tesi che, fosse stata pronunciata all’epoca da Giulio Tremonti, avrebbe provocato girotondi permanenti e cortei antiberlusconiani, ma che nell’Italia sfinita dell’esecuzione affonda quasi nel burro. Anzi, stando a una ricerca Ipsos, il gradimento per il condono fiscale vede percentuali incredibilmente identiche sia tra gli elettori della Lega sia tra quelli del Movimento: 64 per cento a favore, e solo 29 per cento contrari.

Il Movimento – figlio di un esperimento sulle reti costantemente mosso da due motori, sondaggi e analytics sui social network – va avanti con la Lega fino a quando ritiene di non perdere consenso oltre una soglia non più accettabile. L’affievolimento del consenso, che registra in quei mesi, produce via via segni di nervosismo sempre più palesi, scontri più o meno ostentati (per esempio sugli inceneritori), malumori – come i 19 deputati che non vogliono firmare il decreto sicurezza di Salvini –, invettive, e naturalmente operazioni di distrazione di massa, insulti e attacchi ai giornalisti per deviare l’attenzione dai problemi dell’alleanza con la Lega: ma non ancora tale da mutare davvero rotta rispetto all’alleanza di governo. Anche perché nel frattempo ogni nomina e ogni postazione di potere viene equamente spartita tra i due partiti di governo, dalla Rai a Cassa depositi e prestiti, dall’Istat all’Enav, dalla Consob a Fincantieri e Snam.

A metà novembre 2018 un sondaggio Ixè, per la prima volta, parla di un calo sensibile di entrambi i partiti della maggioranza, la Lega al 29,8 per cento e il Movimento giù al 25,9. A cavallo del Natale 2018 il partito di Salvini continua ad apparire in crescita, e i Cinque stelle fermi attorno ai livelli del 2013, non del miracoloso 4 marzo 2018. Ma i voti in uscita sono di elettori Cinque stelle che tornano da dov’erano venuti: a destra, verso Forza Italia e Fratelli d’Italia (in lieve risalita), non verso il Pd (stabile). Anche per questa via si comprende perché era stata così ben digerita un’alleanza con la Lega, che tutti i big Cinque stelle avevano negato e promesso come impossibile, anche solo pochi mesi prima: perché i due elettorati erano già assai sovrapposti e incrociati, benché non identici.

La cosa sarà confermata anche dalle elezioni regionali in Abruzzo, nel febbraio 2019: Sara Marcozzi, candidata M5S alla Regione, prende un deludente 20 per cento, mentre il M5S alle ultime politiche in questa regione aveva ottenuto il 39,8. L’Istituto Cattaneo certifica che, tra gli elettori del Movimento in due città campione, Pescara e Teramo, si registrano tre gruppi. I fedeli, che restano al M5S (38 per cento a Pescara, 29 per cento a Teramo). I disillusi, che passano all’astensione (28 per cento a Pescara, 17 per cento a Teramo). E i traghettati, ossia chi cambia voto. In questa categoria, la fetta prevalente va a destra, alla Lega: il 22 per cento a Pescara, addirittura il 34 per cento a Teramo (esiste anche una fetta, più piccola, che torna al centrosinistra). Questo, peraltro, in una regione dove la Lega non era così forte come altrove. E le elezioni regionali in Sardegna sono un tracollo per il Movimento, che perde 290mila voti assoluti rispetto al 4 marzo 2018, passando da 42 a meno del 10 per cento.

Allearsi con Salvini? Di Battista, il 16 novembre 2017, aveva risposto con questo proclama: «Qualora il M5s dovesse stringere alleanze con partiti responsabili del disastro in Italia io lascerei il Movimento». Beppe Grillo, 23 gennaio 2017: «Salvini, Meloni, mangiate tranquilli. Il M5S non fa alleanze con quelli che da decenni sono complici della distruzione del paese». Luigi Di Maio, in tv da Bruno Vespa, intervistato da Massimo Franco, 19 giugno 2017: «Io sono del Sud, sono di Napoli, non ho nessuna intenzione di far parte di un Movimento che si allea con chi diceva “Vesuvio, lavali col fuoco”. Quello che è stato detto sulle alleanze con la Lega sono semplicemente speculazioni giornalistiche».

Forse era stato più rivelatore – in un’epoca assai precedente alla nascita del Movimento, il lontano 2004 – il video di Rocco Casalino nella famigerata “lezione di giornalismo” a Milano che abbiamo citato in precedenza, in cui tra le altre cose il futuro portavoce di Palazzo Chigi diceva agli studenti: «Quand’io stavo in Puglia e sentivo Bossi parlar male degli extracomunitari dicevo “ma che razzista”, io vengo da una storia di sinistra. Adesso vivo a Milano in una zona dove so che ci sono 450 extracomunitari, che sputano, urlano, fanno a botte, hanno una cultura diversa dalla mia, quando scendo faccio fatica a relazionarmi con loro. E la prima cosa che faccio, adesso coi soldi, qual è? Prendo una casa a Brera, dove gli extracomunitari non ci sono. Perché è molto facile fare il non razzista, ma chi se li subisce poi questi qui, o gli zingari, sono i poveri. Quindi per me, che sono di sinistra e quindi dalla parte dei poveri, paradossalmente Bossi diventa uno interessante». Casalino sostiene che quella lezione fosse una recita. Questa versione non ha convinto molti, quando quel video è riemerso. Il link primario di quel video sparisce. Ma naturalmente ne abbiamo scaricato copia.

Nell’età dell’esecuzione, quando l’intesa del Movimento con la Lega registrerà attriti ed eventualmente scontri, avverrà solo per la supremazia, per eccesso di affinità, perché i due partiti si contendono e rosicchiano lo stesso campo elettorale, la durezza contro i migranti e la battaglia costante e spasmodica contro l’Europa, chi con Marine Le Pen e Jarosław Kaczyński (la Lega di Salvini), chi provandoci disperatamente con i gilet gialli (il Movimento di Casaleggio). Non perché il Movimento possa realmente cambiare la sua natura di strumento, fungibile, di un esperimento. All’inizio del 2019, a conferma del fatto che sull’immigrazione le idee di Salvini non sono dissimili da quelle del Movimento, Di Maio ha negato ancora una volta che il reddito di cittadinanza possa andare anche agli immigrati regolari: «La smentisco – ha detto a una giornalista –. La legge riguarda il reddito di cittadinanza per coloro che sono cittadini italiani».

Nonostante la retromarcia del governo Conte con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sui numeri del deficit fissati dalla manovra, la campagna elettorale per le europee del Movimento e della Lega vede ancora aleggiare pesantemente lo spettro della “tempesta perfetta”. Come se i due partiti della maggioranza si contendessero un totem: lo scalpo di Bruxelles, che nell’inverno 2018 è stato solo rimandato tatticamente – almeno così viene fatto credere a molti loro elettori – ma non archiviato strategicamente. A Di Maio, la casa madre milanese fa dire: «I popoli faranno cambiare clausole di salvaguardia sull’Iva figlie di una contabilità europea». Il vignettista Altan riassume nella sua vignetta di fine anno sull’«Espresso» questo drammatico spirito del tempo: padre e figlio sono al bancone di un negozio, il padre dice: «Mi dia un chilo di caviale. Paga lui, quando cresce». E indica il bambino.

Il giorno del primo discorso di Giuseppe Conte al Parlamento europeo, il 12 febbraio 2019, il leader dei liberali europei, Guy Verhofstadt (curiosamente, quello che due anni prima si stava quasi per alleare con Grillo), pronuncia un atto d’accusa che sembra un’umiliazione da parte dell’intera Europa al premier italiano. «Burattino di Salvini e Di Maio», dice Verhofstadt, e aggiunge che il governo italiano è «odioso» per tutti gli altri governi europei, e agisce «sotto la pressione del Cremlino» (accusa alla quale, incredibilmente, Conte non replica neanche con una confutazione di rito). Anche tutti gli altri leader europei puntano il dito su un’Italia mai sembrata così negletta e marginalizzata. Manfred Weber, del Ppe, accusa: «la recessione è colpa del governo». Udo Bullmann, del gruppo socialista, attacca: «mostrate un volto disumano sui migranti». Philippe Lamberts, dei Verdi, osserva che «i migranti sono ormai capro espiatorio di tutti i mali italiani». Nel dibattito con i capigruppo, Conte, ormai scosso e quasi tramortito, viene difeso solo da Lega, Movimento e un ex Ukip. Nella prima replica, non dice nulla di significativo. Nella seconda, forse a quel punto istruito, risponde di non essere un burattino, e che sono altri a essere al servizio delle lobby. Di fatto, il premier e la sua maggioranza sono andati impreparati e allo sbaraglio – riassume il reporter David Carretta – al primo cruciale appuntamento parlamentare europeo, senza aver minimamente sondato l’umore dei gruppi parlamentari in aula.

Negli anni del Movimento al governo, lo scontro rovinoso – tra i due alleati Cinque stelle e Lega, ma anche lo scontro dell’intero sistema Italia – incombe come un destino, temuto o forse cercato; è un dubbio di fondo che i protagonisti del governo Conte non hanno mai sciolto, semmai costantemente, deliberatamente, alimentato, benché qualcuno – nella maggioranza di governo – sia stato più sincero di altri. Per esempio il presidente della Commissione bilancio della Camera, Claudio Borghi, che il 15 febbraio 2019 svelerà con schiettezza il vero Leitmotiv della campagna elettorale per le europee dei gialloneri: «Penso che questa opportunità sia l’ultima. Se a seguito di queste elezioni ci saranno i soliti mandarini guidati dalla Germania a guidare le politiche economiche, sociali e migratorie, a uso e consumo della Germania e a nostro danno, io dirò di uscirne. O riusciamo a cambiarla o dovremo uscirne». Una proposta di legge di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia (anche lei amatissima da Steve Bannon, con cui si è incontrata a Roma), che chiede la nazionalizzazione della Banca d’Italia, è incardinata in Commissione finanze alla Camera. La presidente della commissione è Carla Ruocco, del Movimento. Relatore della legge è Francesca Anna Ruggiero, anche lei dei Cinque stelle. È un altro passo in direzione di una possibile Italexit? Il sottosegretario all’Economia del Movimento, Alessio Villarosa, è piuttosto eloquente: l’obiettivo «in ottica sovranista è quello di evitare di correre il rischio che la Banca d’Italia, ora di proprietà di banche private, cada in mano straniere».

Del resto, per lunghi mesi le bocciature degli organismi internazionali sono state un balsamo. Le procedure d’infrazione dall’Europa sono sembrate un toccasana, in vista dell’imminente campagna elettorale del 2019 in cui sia Lega sia Movimento puntano a capitalizzare le reti piene di pesci della loro stiva. Che l’Italia sia col frigo rotto poco importa, anche perché il governo Lega-Movimento non esita a chiedere aiuto a fondi sovrani o privati stranieri, dalla Russia alla Cina, passando naturalmente per gli Stati Uniti. Il 25 ottobre resta sintomatica una telefonata tra il presidente americano e il presidente del Consiglio italiano. Non sappiamo cosa gli dica Conte, ma deve presentarsi come una specie di Steve Bannon (o un Viktor Orbán italiano) se Trump riassume così la conversazione: «Ho appena parlato di molte cose col primo ministro italiano Giuseppe Conte, compreso il fatto che l’Italia sta prendendo una posizione molto dura contro l’immigrazione illegale. Io concordo con questa posizione al 100 per cento, e gli Stati Uniti stanno facendo la stessa cosa. Il premier Conte sta lavorando molto duro sull’economia dell’Italia – e avrà successo!».

Sembra che la maggioranza di Salvini e Casaleggio sia sostenuta da amici di una qualche forza e potere. E che, grazie a questo, Salvini e Casaleggio abbiano potuto resistere più del previsto ai tanti – gruppi d’interessi, poteri romani, opportunisti dell’eterno trasformismo trasversale all’italiana – che vorrebbero romanizzare i Cinque stelle, abbracciarli e magari unirli a un Pd ormai alla resa, delineando un bipolarismo italiano dei prossimi anni tutto dentro l’autoritarismo nazionalista: quello tra populisti neri della Lega e populisti gialli del Movimento.