9.
Asservire la tv

Alle 16,30 di giovedì 12 aprile 2018 sono seduto a prendere un caffè al bar Officina naturale in via Barberini 59, davanti alla redazione romana del mio giornale, «La Stampa», non ancora trasferita sulla Cristoforo Colombo. Sono nell’ultimo tavolino bianco entrando a sinistra, accanto alla vetrata, e chiacchiero con una persona esperta di sicurezza nazionale; il bar è praticamente vuoto tranne un giovane collaboratore del giornale al bancone, dall’altra parte rispetto a me, quando vedo entrare un terzetto particolare. Matteo Salvini con Giancarlo Giorgetti e Gian Marco Centinaio, i due capigruppo parlamentari della Lega. I tre sono attesi di lì a un’ora al Quirinale, siamo ancora nella prima fase di consultazioni dopo il 4 marzo e la scena è curiosa: il leader della Lega mi vede, è lui che si avvicina al tavolo dove sono seduto, mi saluta con cortesia, e fa: «Volevo solo dirti che con noi della Lega quello che ti è capitato a Ivrea [alla convention di Casaleggio] non ti sarebbe mai successo». A quel punto approfitto per domandare come stanno andando le trattative per la formazione del nuovo governo, e se lui è ottimista sulla possibilità di fare un governo col Movimento. Mi risponde con un sorriso e con parole inequivocabili e, se dovessi dire come mi apparvero allora, sincere: «Sono ottimista, tutti vogliamo farlo». Poco dopo arrivano altri giornalisti, ma ormai Salvini e i suoi due colleghi si stanno incamminando a piedi, attraversando via Barberini, verso il Quirinale, salendo da via San Nicola da Tolentino.

Il leader della Lega, il partito della nuova destra italiana, tiene dunque a smarcarsi dall’autoritarismo dimostrato da Davide Casaleggio una settimana prima in una circostanza rivelatrice, e vuole che si sappia. Ecco cos’era successo: alla seconda convention organizzata dall’Associazione Gianroberto Casaleggio a Ivrea, il 7 aprile 2018, era accaduta una piccola storia sintomo di un’ulteriore involuzione autoritaria nel rapporto tra Movimento e media. Inviato della «Stampa» per seguire la convention e raccontarla, non fui fatto entrare in un luogo aperto al pubblico, e mi fu impedito di fare il mio lavoro, scrivere un innocuo reportage. All’ingresso mancava il mio accredito, mi fu detto all’inizio: una questione che, quando càpita, viene risolta con una semplice telefonata in segreteria di redazione, ma che diventò in quel caso insormontabile. Sentii con le mie orecchie la donna dello staff che era al blocco creato all’ingresso, alla fine di uno stretto corridoio, dire a un suo collega «abbiamo l’ordine di non farlo entrare».

I modi non erano né gentili, né civili. Per puro caso un giornalista dell’«Huffington Post», Pietro Salvatori, era uscito proprio in quel momento dalla sala, sentì la frase che mi era stata detta dallo staff, e dopo non molto tempo la twittò. Avvisai immediatamente la direzione del mio giornale. Per una parte della mattinata tentammo alla «Stampa» di mediare il caso, disinnescarlo, com’era giusto provare a fare in ogni modo: nessuno solleva casi e dà dell’autoritario a qualcuno a cuor leggero. Ci trovammo di fronte a Rocco Casalino che confermava testualmente (io ne fui sorpreso), alla direzione del giornale, quanto avevo già anticipato io, cioè che c’era un’esclusione ad hoc, per «ragioni personali», articoli sgraditi che avevo scritto. Aggiungeva che lui – il potente capo della comunicazione ufficiale del Movimento – non poteva farci niente. Né lui né, fu chiaro, il “capo politico” Luigi Di Maio, che nulla c’entrava, va detto, con quella decisione. Un’entità a loro sovraordinata aveva deciso tutto, come sempre: Davide Casaleggio.

Il figlio di Gianroberto resterà in silenzio tre giorni prima di pubblicare, su Facebook, la rivendicazione. Nel frattempo era circolata una falsa notizia, che avessi un badge contraffatto per entrare. Mi colpì che la scusa, a un tempo ridicola e pericolosa, fosse stata alimentata da un collega, Gianluigi Nuzzi, sul palco della manifestazione; non certo perché sua moglie, Valentina Fontana, è una delle due fondatrici della Visverbi, la società che ha organizzato le due convention 2017 e 2018 della Casaleggio, e nel momento in cui scrivo ha il contratto per fare l’ufficio stampa della srl di Casaleggio. Enrico Mentana, sul palco, fu l’unico a stigmatizzare pubblicamente la mia cacciata. Mi aveva anche cercato, alle 12,30, trovando occupato. Alle 13,30 lo richiamai e mi espresse una solidarietà sincera, dicendomi che se l’avessi chiamato prima mi avrebbe fatto entrare lui. Lo ringraziai, ma io non sarei voluto entrare grazie al favore di un collega potente, per quanto gentile. Parentesi: prima e dopo di me erano entrati giornalisti che avevano un medesimo problema di accredito non pervenuto: con loro la questione fu immediatamente e facilmente risolta dallo staff.

Alcuni altri giornalisti (pochi, per la verità) rilanciarono su Twitter la storia del «badge tarocco» sostenuta da Nuzzi, per esempio Peter Gomez, il direttore del «Fatto Quotidiano» online, che la citò dubitativamente; peraltro, spiegò, lui non era a Ivrea. Alcune ore dopo scrisse: «Non è vero che Iacoboni avesse un pass falso come detto dal palco». Nel frattempo m’era piovuto addosso il solito trattamento social riservato ai giornalisti sgraditi: una dose militare di account scatenati pro-Casaleggio. Di quella patetica giornata mi resta il ricordo gentile di Emilio Carelli, ex direttore del tg di Sky, oggi senatore M5S, che non conoscevo e si trovava accanto a me nel momento esatto in cui fui respinto all’ingresso: vide tutto in diretta e, sia detto per la cronaca, fece di tutto da dentro per farmi entrare, compreso sollecitare i vertici. Alla fine mi ritelefonò, costernatissimo, per dirmi che niente, era tutto inutile.

Il lunedì Nuzzi fece autocritica in un’intervista a Salvatore Merlo sul «Foglio», ammettendo di essersi sbagliato e spiegando all’opinione pubblica che sulla storia del badge era stato informato male: «I giornalisti non si cacciano. A Ivrea non avevo capito cosa era successo. È stata una scelta personale di Davide Casaleggio. Una decisione sua. Sbagliata. E che io non condivido in nessun modo». Tantissimi altri avevano denunciato fin da subito pubblicamente l’accaduto. Impossibile ricordarli tutti. Anche il mio telefono si riempì di messaggi e notifiche social. Come in tutte le situazioni un po’ tese ci fu anche chi provava a farmi sorridere: proprio a Nuzzi era capitata una disavventura simile in Vaticano e allora, l’11 marzo 2013, scrisse: «Il Vaticano mi nega accredito stampa per seguire il Conclave. Scelta oscurantista, altro che trasparenza e libertà di stampa». Pensai sorridendo che le convention della Casaleggio sono ormai il conclave dei nuovi potenti, che dio non mi fulmini.

La storia, nonostante il polverone che ne nacque, resta molto piccola ai miei occhi, non certo paragonabile agli editti bulgari di Silvio Berlusconi contro Enzo Biagi e Michele Santoro. Non ci tornerei neanche, se non fosse stata a modo suo un’altra occasione privilegiata di conoscenza. Un disvelamento ulteriore. Sul sistema-Casaleggio, ma anche sui media, e sul rapporto del Movimento con i giornalisti, in particolar modo con la tv: per lungo tempo un quasi totale dominio, conquistato grazie al metodo di Rocco Casalino, oggi portavoce del presidente del Consiglio, ma soprattutto uomo di fiducia e trait d’union tra Roma e Casaleggio; e grazie alle resistenze di molti media rivelatesi un po’ troppo molli.

Un episodio qui torna illuminante. Avviene in un momento cruciale e permette di raccontare brevemente un personaggio importante, di cui siamo costretti a occuparci perché, a dispetto di ogni apparenza contraria, riveste un ruolo nell’esecuzione: a poche ore dalla formazione del governo Lega-M5S, Casalino si fa riprendere da un collaboratore in un video girato col telefonino mentre manda a Enrico Mentana, direttore del tg di La7, un sms che gli annuncia l’imminente nascita del governo Lega-Movimento: «Lo giro per primo a Mentana, vediamo in diretta che succede». Su La7 in quell’istante c’è Alessandra Sardoni che davanti al Quirinale sta riferendo degli ultimi sviluppi della trattativa, e Casalino, con i suoi collaboratori, fa sarcasmo: «Troppo tempo, Enrico, più veloce. Anche perché non sta dicendo niente, lei». I collaboratori dell’ex partecipante al Grande Fratello – che tanto ha allargato il suo raggio d’azione da quando Rocco Taricone, preveggente, gli spiegava che i suoi erano discorsi populisti e qualunquisti – sghignazzano, si sente chiaramente nel video. A quel punto interviene Mentana, che legge il messaggio in diretta. È una notizia molto importante e sta facendo il suo dovere: Di Maio e Salvini danno il via libera al governo. Casalino sorride soddisfatto con i suoi: «Momento storico». Il video però va in giro. Non è chiaro da chi sia stato fornito, ma è un video girato in quella stanza, e finisce pubblicato online su diversi siti. Una greve esibizione di potenza e iattanza.

Forse qui varrà la pena di spendere due parole per dire in breve chi sia, questo portavoce di Palazzo Chigi ormai temutissimo nella tv italiana, a cui nella nuova stagione Rai verrà concessa la tribuna di Che tempo che fa, la trasmissione di Fabio Fazio su Rai Uno, in prima serata. Nato in Puglia a Ceglie Messapica, cresciuto da emigrante con la famiglia in Germania, laureatosi in ingegneria, diventa noto grazie alla prima edizione del Grande Fratello; quella condotta da Daria Bignardi, contro la quale Casalino si scaglierà brutalmente nel 2014, dicendole: «hai sposato il figlio di un assassino», violento attacco sia a lei, sia a Luca Sofri. Bignardi aveva la sola colpa di aver intervistato in modo gradevole ma non servile Alessandro Di Battista, chiedendogli del padre fascista. La giornalista risponderà civilmente – «non mi ferisce leggere che mio suocero è un assassino, perché non lo è» –, ma quest’altra piccola vicenda mostra a che livello possa spingersi l’uomo che, partito dal cercare di guidare le nomination dentro la casa del Grande Fratello, arriverà a decidere le nomination sui leader M5S da mandare in tv, a portar via il premier Giuseppe Conte quasi di peso dalle conferenze stampa, per evitare troppe domande, e a orientare molte delle dinamiche della propaganda Cinque stelle. Uno dei cardini dell’esperimento di Casaleggio era che ogni uscita, per esempio un post sul blog di Grillo, è un test per vedere fin dove si può arrivare: e quella contro la Bignardi, a modo suo, funziona. Si scatena contro la giornalista un’orda di commenti, spesso sessisti, sui social, e in generale una dose massiccia di insulti.

Ce ne sarebbe già abbastanza per chiedersi se il metodo Casalino non sia in realtà nient’altro che l’estensione alla tv di un metodo Casaleggio; teniamo la domanda aperta. Ma via via si aggiungono particolari, perché queste modalità lasciano sempre più traccia e non c’è praticamente più un solo giornalista che possa tra sé e sé non confermarle. Il «Corriere» racconta che Casalino è abituato a promettere alle trasmissioni tv la presenza del big (poniamo, Di Maio o Di Battista) e a cancellarla dieci minuti prima della messa in onda (la frase che è solito usare è, in effetti, «me lo segno a matita», in modo cioè non indelebile): una tecnica che gli consente di trattare da posizioni di forza e aggressività immediatamente intuibili. E di vincere: quei leader, in tutta la lunga stagione dei nuovi potenti populisti-sovranisti, assicurano grande audience, e dunque Casalino riesce a far passare quasi sempre interviste con poco contraddittorio (eufemismo), a evitare se non dettare gli ospiti sgraditi da non avere in studio, o addirittura, nel caso dei dirigenti più forti, senza altri giornalisti tout court. Colpa naturalmente di troppi giornalisti che glielo concedono. Il monologo diventa il format della stagione; persino, spesso, in quelle che continuano a essere chiamate “conferenze stampa” di Palazzo Chigi, ma dove i giornalisti si sentiranno dire, in qualche occasione, che non si accettano domande. Sono tanti quelli che lo raccontano, e non possono essere smentiti, né vengono smentiti. Il massimo che qualche autore tv si concede è un «eh ma anche altri partiti facevano così». Il Movimento però mostra un surplus di aggressività, e soprattutto pretendeva di essere diverso e di volere un’informazione diversa: volevano invece solo un’informazione più asservita a loro?

Quando incappa in qualche pagina negativa, Casalino vi rimedia di solito con trovate fantasmagoriche, ma spesso funzionanti, o almeno utili a disorientare e creare il caos, o quantomeno un dubbio sulla reale consistenza dei fatti. I fatti, in definitiva, sfumano o non esistono più. «Il Foglio» scopre che sul suo curriculum pubblicato su LinkedIn viene citato un master in business administration conseguito in dodici mesi, nel 2003, alla Shenandoah University, in America. Ma all’università non risulta nessun Rocco Casalino tra gli studenti passati del master. Tra l’altro un anno per business administration è davvero poco, persino per manager con esperienze aziendali di grande livello.

Casalino come ne esce? Dice al «Foglio» che non sa chi abbia aperto quel profilo LinkedIn, è un fake e lo farà chiudere (il profilo in effetti viene chiuso). E però un «master in economia in America» compare anche, più vagamente, nel curriculum presentato da Casalino per candidarsi alle elezioni regionali in Lombardia nel 2012. «È strano, devo chiedere alla Casaleggio questa cosa qua. Ma non è che c’è una manina magica che è intervenuta dopo? Non è che è collegata a te?», risponde il portavoce del premier al giornalista del «Foglio», Luciano Capone. Dove, ovviamente sorridendo della via d’uscita trovata, possiamo però notare che torna la teoria della «manina» e del complotto: la stessa parola, «manina», che Luigi Di Maio nell’ottobre 2018 evocherà in tv da Bruno Vespa per dire che il testo del decreto fiscale «arrivato» al Quirinale è stato manipolato da chissà quale trama oscura. Naturalmente quel testo non era stato manipolato, semplicemente la rappresentante del Movimento al tavolo, Laura Castelli, non si era accorta della norma sullo scudo ai capitali esteri. E soprattutto, in quel momento, il testo non era ancora arrivato al presidente della Repubblica, che fece smentire la cosa in diretta all’ufficio stampa del Quirinale. Ma il Movimento mise comunque sotto accusa gli alti burocrati del ministero.

Tra manine e manine, però, l’influenza di Casalino cresce. E, c’è chi lamenta, anche la sua ingratitudine. Allevato nelle più ortodosse scuderie berlusconiane, in anni avventurosi e cerchie movimentate (alla corte di Lele Mora, più o meno nella stessa turbolenta stagione di Fabrizio Corona), protetto da Emilio Fede, già assunto come inviato a Telenorba da Lamberto Sposini, secondo Fede ha messo un po’ troppo repentinamente da parte questo aiuto del mondo di Silvio Berlusconi. L’ex direttore del Tg4 racconterà al «Fatto Quotidiano»: «Casalino l’ho aiutato, ma non è stato riconoscente». Comunque sia, ciò che conta è che il portavoce del presidente del Consiglio del governo del cambiamento proviene rigidamente, strettamente, da un ambiente tv berlusconiano, sia pure dalle terze file.

Come può, si domandano i suoi critici, uscire sempre indenne da ogni scontro, interno ed esterno, anche dinanzi alle vicende che mettono a nudo cinismo e spregiudicatezza incompatibili col suo ruolo a Palazzo Chigi? Sa qualcosa che lo rende pericoloso, e lo sa far pesare? Nicola Biondo, che fu capo della comunicazione M5S alla Camera, ha raccontato in un’intervista al «Giornale» quello che a suo dire è il «metodo Casalino»: dividere, usare tutte le informazioni raccolte a scopo di regolamenti di conti interni, e farsi appoggiare all’esterno. Quando Biondo tentò di convincere Casaleggio a farne a meno, racconta lui stesso, «Rocco si era messo a piagnucolare al telefono con un direttore di tg, con un rapporto forte con Grillo. E poi con un famoso direttore di quotidiano». Uno scheletro di relazioni che costituirebbe l’ossatura del potere di Casaleggio su tv e giornali d’area. Casalino smentì tutto e annunciò che avrebbe querelato Biondo. Al momento in cui scriviamo nessuna querela è pervenuta al suo ex collega.

Alcuni, anche nel M5S, hanno sostenuto ai giornali che Casalino sa usare le informazioni per battaglie politiche interne. Ilario Lombardo su «La Stampa» – quando venne fuori la storia delle firme false dei Cinque stelle siciliani per presentarsi alle elezioni regionali – scrisse che deputati M5S accusarono Casalino: «Lavora per le Iene coi nostri soldi». Nell’ottobre del 2018 è stato pubblicato sui siti di tre giornali un audio del portavoce della presidenza del Consiglio in cui veniva chiamato da alcuni giornalisti in cerca di informazioni da Palazzo Chigi il giorno dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova. Casalino rispondeva che non dovevano stressargli la vita, perché già gli era saltato il Ferragosto. Corali proteste, richieste di dimissioni da parte di tanti, apertura di un procedimento all’Ordine dei giornalisti. Risposta del premier Conte: conferma totale della fiducia in Casalino.

Pochi giorni prima era apparso un altro audio, in cui Casalino diceva a due giornalisti che il M5S avrebbe impiegato il 2019 a far fuori «quei pezzi di merda» del ministero delle Finanze, rei di remare contro il governo. Anche qui la risposta del premier Conte fu: «Non commento qualcosa che è stato prodotto violando le regole deontologiche e costituzionali. Per il resto confermo la mia fiducia in Casalino».

Casalino in questi anni è andato più volte alla marcia francescana dei Cinque stelle Perugia-Assisi, con Casaleggio e Grillo, esistono foto in cui lui è abbracciato con la maglietta gialla assieme a Pietro Dettori e Beppe Grillo: senonché una volta arrivati a Palazzo Chigi saranno pubblicati i compensi, legittimi ma non francescani, della squadra di comunicazione – e loro hanno sempre fatto campagna contro questo tipo di stipendi. Casalino guadagna 91.696 euro di trattamento di base, più 59.500 di parte accessoria, più 18.360 di indennità di diretta collaborazione, per un totale vicino ai 170mila euro all’anno. Pietro Dettori, il fondamentale uomo delle operazioni sui social, che Casaleggio aveva già stornato dal bilancio della Casaleggio Associati trasferendone i costi prima all’Associazione Rousseau, e poi a Palazzo Chigi (nello staff del vicepremier), guadagna 91.697 euro di base, 30mila di parte accessoria, 9.100 di indennità, per un totale che supera i 130mila euro all’anno. Massimo Bugani, altro personaggio importante per Casaleggio, passato a Palazzo Chigi come vicecapo della segreteria particolare di Di Maio, guadagna 80mila euro all’anno in totale. Il capo della segreteria del vicepremier M5S, l’amico storico di Pomigliano, Dario De Falco, che già lasciò le sue impronte con alcuni post innocui, ma postati sul famigerato e violentissimo «Club Luigi Di Maio» su Facebook – un gruppo Facebook non ufficiale dove sono comparse negli anni demonizzazioni e istigazioni alla violenza contro dirigenti politici avversari, specie del Pd, e contro l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano –, guadagna in tutto 100mila euro all’anno. Stipendi, giova ripeterlo, del tutto legittimi per tutti: e invece per lo meno discutibili, sulla base peraltro dei loro stessi argomenti, per i propagandisti M5S, per anni impegnati in campagne aggressive, sui social e in tv, contro i soldi della casta.

L’idea del Movimento al governo nei confronti dei media si è mostrata sempre più palesemente quella urlata da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Il giorno dell’assoluzione di Virginia Raggi dall’accusa di falso nella nomina di Renato Marra (il fatto, sentenziò il tribunale, c’è ma non costituisce reato), Di Maio griderà: «Giornalisti infimi sciacalli». E Alessandro Di Battista: «Oggi la verità giudiziaria ha dimostrato solo una cosa: che le uniche puttane qui sono proprio loro, questi pennivendoli che non si prostituiscono neppure per necessità, ma solo per viltà. Ma i colpevoli ci sono e vanno temuti. I colpevoli sono quei pennivendoli che da più di due anni le hanno lanciato addosso tonnellate di fango con una violenza inaudita. Sono pennivendoli, soltanto pennivendoli, i giornalisti sono altra cosa».

Si è manifestata, insomma, sempre più evidente la volontà di asservire i giornalisti, blandendoli talvolta, o più spesso minacciandoli, specie quando i sondaggi hanno iniziato a scendere, e l’accordo con la Lega a mostrare le prime crepe. O almeno, come minacce vengono da tanti percepite certe frasi e atteggiamenti della comunicazione del Movimento, per esempio quando Casalino, rivolgendosi a un giornalista del «Foglio», Salvatore Merlo, avvisò quel giornale: «Adesso che “Il Foglio” chiude, che fai? Mi dici a che serve “Il Foglio”? Perché esiste?». La frase, che solo una ammiccante minimizzazione poteva intendere come «una battuta» – «Il Fatto Quotidiano» riferì che questa fu la spiegazione di Casalino –, risulta tra l’altro identica all’apostrofe rivolta da Luigi Di Maio, già vicepremier, quando arrivò in sostanza a compiacersi della fine dei giornali del Gruppo Espresso («Repubblica», «La Stampa» e «L’Espresso»), a suo dire imminente, e degli esuberi di giornalisti. La notizia, avrebbe detto Mark Twain, era grandemente esagerata, ma non la gioia di Di Maio: del tutto affine a quella esposta da Casalino, ancora una volta precursore, al «Foglio».

Non so quanto tutto questo abbia a che fare con i risultati di una classifica pubblicata dall’Index on Censorship nell’inverno 2018, secondo la quale a fine novembre l’Italia era finalmente al top almeno in un ramo: nelle minacce alla libertà di stampa. Su 445 reporter aggrediti e insultati in Europa, 83 sono in Italia (e, dati i 697 incidenti catalogati come intimidazioni, i giornalisti italiani sono risultati quelli più intimiditi, con 133 casi, davanti ai 47 in Romania, 41 in Croazia, 39 in Francia, 36 in Ungheria).

È per questo insieme di ragioni che avrò parlato al telefono con Casalino al massimo tre volte in vita mia, né le mie informazioni sono mai dipese dalle sue “notizie” o dagli sms che gira ai giornalisti amici, ma da tante altre fonti incrociate, e dai whistleblower provenienti dal Movimento che ho intervistato (oggi alcuni sono conosciuti e hanno dato contributi importanti a studiare il fenomeno, altri sono ancora dentro). E avrò risposto in tutto a una manciata di suoi messaggi Whatsapp, sempre quando era lui a scrivermi, non il contrario.

L’ultimo scambio degno di nota avvenne nel 2016; dopo un articolo in cui, per primo, rivelavo l’avvenuta successione dinastico-aziendale in Casaleggio dal padre al figlio, Casalino mi mandò il testo di uno dei tanti esposti fatti dal Movimento contro i giornalisti, che stavolta stavano per fare contro di me. Lo percepii come un messaggio minaccioso, che arrivò peraltro in tarda sera. Nessun politico precedente con cui ho avuto a che fare si era mai spinto a tali atteggiamenti, nonostante quasi tutti abbiano di volta in volta protestato – o fatto protestare qualcun altro – con i miei direttori per articoli sgraditi. Ma siccome avvertimenti non mi sono mai piaciuti da chiunque venissero (figurarsi direttamente sul mio telefonino mentre sono a casa la sera tardi), né mi hanno mai fatto paura, lo scambio si concluse con questa mia secca domanda: «Insultate e fate esposti per zittirmi?». Lui si affrettò a negare. Da allora non si è fatto più vivo. Naturalmente so bene quanto insistentemente protesti per il mio lavoro.

In questo quadro di influenza di Casalino sulla tv italiana, è singolare che arrivi alla guida della tv pubblica italiana una figura – certamente assai più interessante – che abbiamo già incontrato nella rete di relazioni internazionali che preparano il terreno dell’intesa Lega-Movimento: Marcello Foa, che nel recente passato si è però espresso in modi severissimi proprio contro Casalino. «Un personaggio pubblico che gli italiani conoscono più come partecipante al Grande Fratello che come inverosimile portavoce del Movimento», scrisse Foa nel 2014 sul suo blog, vera miniera di posizioni notevoli, benché lievemente controverse, se possiamo usare un eufemismo. Alla nomina di Foa alla guida della Rai, il 21 settembre 2018, il «Guardian» presentò così la notizia, nelle prime tre righe: «Il cda della tv pubblica italiana, la Rai, ha nominato per la seconda volta Marcello Foa, un giornalista euroscettico che ha spesso condiviso storie dimostratesi poi false, come suo presidente».

Non poteva esserci sintesi più tombale della nuova stagione televisiva. Ma perché tanta avversione verso Foa? E come si concilia questa duplice anima per cui il Movimento, accanto a Foa presidente, sceglie poi come amministratore un uomo come Fabrizio Salini, che nessuno ritiene un estremista, e di cui nessuno mette in dubbio la conoscenza della tv? Sembra come se anche sulla Rai si riproponesse un eterno canovaccio, il conflitto nel Movimento: da una parte il tentativo (forse anche da parte di alcuni gruppi di pressione) di piegarlo a un’evoluzione almeno utilizzabile nei giochi di potere; dall’altra il richiamo della foresta delle origini, l’esperimento costruito da Gianroberto Casaleggio, in un orizzonte culturale in fondo simpatetico con il leghismo, il putinismo, e ogni teoria alternativa su piazza. Il tutto in un quadro di competenze così limitate che, per esempio in Rai, si apre una specie di caccia al curriculum per scegliere i direttori dei tg, perché il Movimento non ha, tecnicamente, neanche gli uomini per lottizzare le direzioni dei giornali e le reti. E sarebbe l’occasione, presto abortita, per una quasi involontaria meritocrazia.

Foa naturalmente fa e ha fatto molto per rendersi visibile ed estremo. Sicuramente alcune notizie o interpretazioni da lui diffuse non hanno aiutato a smarcarlo dall’idea di giornalista vicinissimo alla narrativa della Russia, di siti cospirazionisti come «Infowars», e naturalmente a «Sputnik» o a tv come RT, ovviamente al mondo della Lega ma anche all’universo di Davide Casaleggio, attraverso i suoi ex collaboratori e amici Marcello e Pietro Dettori; quest’ultimo in passato ha definito Foa «un amico», parlando con Nicola Biondo (il quale ne rimase piuttosto sorpreso, e me l’ha raccontato). Foa stesso ha descritto così il suo rapporto con Gianroberto Casaleggio: «Mi leggeva e mi citava spesso. Poco prima di morire, il guru dei 5 Stelle volle conoscermi. Fu un incontro molto bello. Due ore che consolidarono una reciproca stima intellettuale». Il presidente della Rai ama presentarsi nelle sue biografie come giornalista «di scuola montanelliana», ma un’esperienza assai significativa e forse più dev’essere stato il non breve soggiorno a Mosca come inviato del «Giornale» di Paolo Berlusconi – quotidiano di cui è stato anche caporedattore degli esteri – prima di diventare direttore generale del gruppo editoriale TiMedia holding e del «Corriere del Ticino», in Svizzera; dove sarà tra gli invitati all’incontro di Steve Bannon con il finanziere Tito Tettamanti, nella stagione post 4 marzo 2018. Bannon che, parlando a Federico Fubini del «Corriere», confiderà, il 22 ottobre 2018: «Salvini e Di Maio insieme non avranno speso [in campagna elettorale] neanche dieci milioni di euro». Ma come fa a saperlo, Bannon? Almeno per il Movimento, questa cifra è ben lontana dall’elenco delle donazioni all’Associazione Rousseau.

Nella Rai di Foa, la Rai Due di Freccero diventa una specie di laboratorio dell’esecuzione, un tavolo operatorio sull’informazione alternativa e sui «fatti alternativi» (tipo quelli teorizzati dalla consigliera di Donald Trump, Kellyanne Conway): Freccero annuncia che sperimenterà anche un programma, L’ottavo blog, dedicato a «una rassegna dell’informazione alternativa, quella che non deve essere divulgata. Lo sapete benissimo, ci sono dei giornali che ritengono queste notizie sempre complottiste, ed è sbagliato». Quello che ci vuole è allora un format sull’«attualità secondo Internet, ossia Internet che diventa mainstream». È lo sdoganamento culturale delle teorie giornalistiche più singolari, se vogliamo usare questo eufemismo. L’elenco dei siti e delle personalità proposte va da siti come «L’Antidiplomatico» (filo-Putin e filo-Assad), «L’intellettuale dissidente», «Il nodo di Gordio», a intellettuali come Enzo Pennetta e Federico Dezzani. Sempre la Rai Due di Freccero celebrerà il ritorno di Grillo in prima serata, un semplice montaggio di vecchi show, che però basterà ad accendere un’aspra polemica (la trasmissione peraltro registrerà un discreto flop nello share). Più discutibile un servizio sul signoraggio bancario andato in onda nel programma Povera patria, e totalmente smontato dalla Società ufficiale degli economisti italiani come falso e disinformante.

Leonardo Bianchi su «Vice» ha fatto una rassegna di testi e notizie condivise sui social da Foa: ne viene fuori il quadro di una personalità originale e fuori dal coro, se non fosse che è leggermente attratta dal complottismo, e dal sovranismo anche nei suoi angoli culturalmente meno raccomandabili. Partito come montanelliano moderato, Foa arriva in Rai che è, culturalmente, putinista convinto e salviniano-casaleggiano. Nel 2016, per dire, Foa sostenne che era in atto un golpe contro Donald Trump. Inesistente. Parlando di vaccini e della «manipolazione nell’informazione sanitaria», sostenne: «Ho parlato con dei medici che ti dicono: iniettare dodici vaccini in un tempo molto ristretto provoca uno choc molto forte nel corpo del bambino, che rischia di danneggiare il suo normale equilibrio». Quando Grillo, a sorpresa, firmerà un appello in difesa della scienza propostogli dal virologo Roberto Burioni – appello naturalmente sottoscritto anche da Matteo Renzi –, sui social si scateneranno insulti e rabbia contro il comico, e la cosa più gentile che gli scriveranno è «traditore».

Foa ritwitta Simone Di Stefano, leader di Casa Pound; dirà poi in Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai che uno può ritwittare anche emotivamente, senza conoscere chi è che sta ritwittando: fatto sta che ritwitta Di Stefano in un tweet in cui quest’ultimo definisce Mattarella «ignobile, blasfemo, anticostituzionale» per aver detto no a Savona al ministero dell’Economia. Si scaglia contro migranti, ong e «grandi giornali»: «Si chiama fabbrica dell’immigrazione, operata dalle Ong. Ma sulla grande stampa non troverete una riga».

Rilancia poi, convinto, la bufala su Hillary Clinton e le cene sataniche. Ritwitta alacremente «Infowars», oggi sospeso persino da Facebook e Twitter. Ritwitta intensamente Francesca Totolo, social media manager e collaboratrice del «Primato Nazionale», la rivista vicina a Casa Pound, una professionista già al centro di molte polemiche per aver contribuito a rendere virali notizie false dal durissimo sapore xenofobo, una per tutte la fake news su Josefa, la migrante salvata al largo della Libia dalla nave della ong Proactiva Open Arms. Sui social circolarono foto e screenshot delle mani di Josefa, con tweet tipo: «Josefa scappa dalla guerra, ma si è pitturata le unghie».

Quando il 31 maggio 2018 uscì l’articolo della «Stampa» sulla ricerca informatica che – come abbiamo visto nel sesto capitolo – individuava una operazione coordinata e un network di account sospetti, di cui non è ancora chiara l’origine (ma presumibilmente italiana), per calunniare e intimidire Sergio Mattarella durante la notte della Repubblica, il 27 maggio 2018, mi fu scagliato contro un tweet proprio dalla Totolo: «Per Jacopo Iacoboni e “La Stampa” quindi l’80 per cento degli account sui social sono “sospetti”. I democraticissimi liberal proprio non riescono a digerire che ormai sono diventati una specie in via di estinzione». Estinzione a parte, qui colpivano due cose: la prima è che la Totolo, ben interconnessa nella galassia della propaganda social sovranista, pro-Lega e spesso pro-M5S, sosteneva che l’80 per cento degli account, secondo i parametri della ricerca da me citati, fossero «sospetti»: il che non è assolutamente vero, o almeno non è un dato riscontrato in nessuna ricerca, neanche le più pessimistiche (ne avevamo citate diverse). E soprattutto, nel tweet collegato Totolo taggava, cioè esplicitamente indirizzava il tweet a una serie di personaggi con varie specificità, forti nel salvinismo, nel sovranismo, nel trumpismo e nella rete alt-right sui social: la leghista del Sud Patrizia Rametta, l’ex collaboratore di Gianroberto Casaleggio Claudio Messora, ossia @byoblu, diversi account salviniani e trumpisti. E, curiosamente, due account che in teoria parrebbero distanti da quelli di questa galassia informale e non ufficiale: quelli di Giampaolo Rossi, poi consigliere di amministrazione della Rai, e di Marcello Foa, il presidente della tv pubblica italiana.

E qui bisogna riflettere su un ultimo punto, cruciale in tutta questa storia: il governo Lega-Movimento è nato grazie alla formula della «benevolenza critica» manifestata da Forza Italia, ed espressa dal capogruppo Paolo Romani in una giornata decisiva in cui Berlusconi ha dato il via libera a Matteo Salvini; allo stesso modo alla presidenza della Rai è stato nominato infine Foa, in seconda votazione, perché dopo un pragmatico tira e molla Silvio Berlusconi ha consentito l’operazione, che altrimenti non si sarebbe potuta fare. Viene spontaneo domandarsi se il Cavaliere abbia ricevuto qualche rassicurazione politica in cambio – fosse anche solo sulle sue tv, o sul 5G – dal «governo del cambiamento» di Lega e M5S. Quanto tempo è passato da quando Grillo lo chiamava «lo psiconano», distogliendo le folle dalla reale natura dell’esperimento di Casaleggio.