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La notte della Repubblica
L’Italia vive una sua nuova notte della Repubblica, in cui forze oscure soffiano su una protesta violenta e avventurista contro il Quirinale, dalla tarda serata di domenica 27 maggio 2018. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha eccepito sulla nomina, propostagli da due partiti della maggioranza, di Paolo Savona al ministero dell’Economia, motivando la sua scelta – secondo prerogative che gli affida l’articolo 95 della Costituzione – con il fatto che Savona è un euroscettico radicale, che in passato ha spesso discusso di un piano B per uscire dalla moneta comune europea. Mattarella vede a rischio, come spiega in un drammatico discorso serale nello studio alla Vetrata del Quirinale, i risparmi degli italiani, e interviene. Sono da poco passate le otto di sera ma tutto il mondo politico è in agitazione da almeno mezz’ora, da quando la comunicazione ufficiale del Movimento cinque stelle si è affrettata a far sapere, ancora più solerte del solito, con Conte appena salito al Quirinale, che «Mattarella ha posto il veto su Savona». Come se Conte, le sue parole e il suo colloquio con il presidente della Repubblica fossero del tutto ininfluenti.
Alle otto di sera Conte rimette il mandato, ma a quel punto la crisi è avvitata. E – possiamo dire con il senno di poi – la si è incanalata su un binario dentro il quale persino la libertà delle scelte del presidente della Repubblica è sottoposta a una aggressiva, indebita pressione. Inizia un film di due giorni pericolosissimo, che attraversa le segrete più buie della Repubblica – innanzitutto le operazioni di intimidazione coordinata e violenta sui social network – ma vede alacremente attivi nel disegnare uno scenario di panico e confusione diversi attori: trasmissioni tv, leader politici usciti vincenti dalle elezioni, e soggetti che lavorano nell’ombra. Per capire il film di queste quarantott’ore, che risulteranno comunque decisive per far partire il governo presieduto dall’«avvocato del popolo» Giuseppe Conte, bisogna perciò riavvolgere la pellicola, ora per ora. Infilarsi dentro la striscia dei minuti e incrociarli con le informazioni di cui disponiamo, per cercare di capire come sia stato possibile che una decisione del Quirinale, non solo legittima giuridicamente, ma anche moderata e di buon senso, sia stata invece scientemente trasformata da alcuni ambienti politici in un attacco alla democrazia, sul palcoscenico di una feroce, minacciosa propaganda.
Fino a poche ore prima, nel pomeriggio, la situazione sembrava ed era tranquillissima. Certo, complessa dal punto di vista politico, e dagli esiti incerti, ma non esacerbata e violenta: Matteo Salvini e Luigi Di Maio si erano recati al Quirinale, dove erano stati fatti diversi ragionamenti alternativi. Non sembrava ancora che il Movimento cinque stelle (soprattutto) e la Lega (vedremo con quali differenze) volessero trasformare la collocazione di Savona dentro l’esecutivo in una sciarada campale sul corpo della Repubblica. Poco dopo le sei della sera – un’ora dopo Conte salirà al Colle per conferire con il capo dello Stato – i giornalisti si avvicinano a Ivrea a Davide Casaleggio e gli domandano come stiano andando le cose. Il vero capo del Movimento per una volta non si nasconde dietro la maschera del «sono solo un consulente per la piattaforma web». Al termine di uno degli eventi pubblicitari della sua Associazione Rousseau, Casaleggio spiega in tutta serenità il suo moderato ottimismo sulla formazione del governo che in quei minuti vive il suo tornante cruciale: «Sono confidente che le persone che stanno seguendo questo processo, Conte in primo luogo, possano gestire al meglio la situazione. Oggi il tema del governo è in mano a Conte e Mattarella e sono certo che troveranno una giusta soluzione». Sono le 18,15 di domenica, molti ricavano da quelle parole una conferma che le cose non sembrano volgere al peggio. Di certo il figlio di Gianroberto non sta sfoderando ancora l’ascia di guerra, anzi. Esprime parole fiduciose verso il lavoro di Mattarella, abbozza un sorriso largo, cosa non frequentissima per una persona poco empatica. Chi è lì ne ricava la sensazione che le difficoltà romane siano superabili.
Alle 18,20 Sky Tg24 riferisce che Di Maio è salito al Quirinale. Ma poco dopo, brusco, si registra un primo disallineamento in questa storia. La7, citando «fonti autorevoli della Lega», è la prima a riferire che «la situazione è gravissima». Sono le 18,37. La notizia è vera, la situazione si sta effettivamente complicando. Ma è già «gravissima»? Chi è che la racconta così, quando margini – come dimostreremo – ne esistono ancora? E cosa sta facendo in quelle ore la comunicazione del Movimento, gestita dalla Casaleggio?
Poco dopo, alle 19, Giuseppe Conte arriva al Quirinale. Entra da un ingresso secondario. Il colloquio è iniziato praticamente da pochi minuti e, alle 19,15, «fonti autorevoli M5S» già sventolano all’Adnkronos che «sta per saltare tutto». Come se Conte non esistesse. Eppure altre fonti parlamentari raccontano, in quegli stessi istanti all’Ansa, che il premier incaricato tenta con Sergio Mattarella una mediazione finale, la proposta di andare in aula a chiedere la fiducia, con Savona non più indicato al ministero dell’Economia. Strada ovviamente difficilissima – che, peraltro, verrà poi seguita quando tre giorni dopo riprenderà quota la possibilità di un governo Conte. Ma quello su cui bisogna porre l’attenzione è che, mentre Conte sta appena iniziando il faccia a faccia con Mattarella, la comunicazione M5S già lo sta scavalcando e bypassando, alzando al massimo l’asticella dello spasmo pubblico, una vera strategia della tensione comunicativa. Sembra quasi che il confronto tra quello che è pur sempre il premier incaricato e il presidente della Repubblica sia del tutto inutile, e tutta la vera partita si giochi su un altro piano: tv e – vedremo più avanti – social network. Eppure, come sapremo dal Quirinale, Sergio Mattarella ha tentato seriamente, fino in fondo, in quei minuti, di non arrivare a uno scontro.
Invece, quando esce dallo studio alla Vetrata, anche il fluido esecutore, l’avvocato Conte, si lascia un po’ andare nel discorso ai giornalisti. Parla di «piena collaborazione» con i leader di Movimento e Lega, ma non cita mai il presidente della Repubblica. Ossia l’uomo che ha acconsentito al suo tentativo, e non l’ha certo ostacolato, concedendogli la tempistica più favorevole.
Matteo Salvini in quel momento ha lasciato Roma da due ore, dopo aver avuto anche lui un colloquio, pomeridiano, col capo dello Stato. Il leader della Lega è a Terni, davanti al popolo di elettori leghisti e di centrodestra. Nonostante sia un comizio, e le parole siano ovviamente accaldate e molto dure, non si lascia andare. Alza il livello della tensione, ma sa dove fermarsi: «Per il governo che ha in mano il futuro dell’Italia decidono i cittadini italiani, se siamo in democrazia. Se siamo invece in un recinto dove possiamo muoverci però abbiamo la catena [...] perché non si può mettere un ministro che non sta simpatico a Berlino [...], vuol dire che quello [Savona] è il ministro giusto». E dunque, «se il governo deve partire condizionato dalle minacce dell’Europa, il governo con la Lega non parte». Sono le 19,32. Una decina di minuti dopo Salvini pronuncia la frase più forte, ma comunque non una frase da cui non si possa tornare indietro: «Se qualcuno si prenderà la responsabilità di non far nascere un governo, lo vada a spiegare a sessanta milioni di italiani».
Alle 19,58 filtra in via informale dal Quirinale che non c’è stato nessun veto da parte di Mattarella, semmai un «irrigidimento» delle forze politiche. Ed è la verità, come appare inequivocabile riavvolgendo il film passo per passo. Come abbiamo appena visto, da almeno un’ora e venti qualcuno sta parlando – ad alcuni selezionati interlocutori – di situazione gravissima e all’acme della tensione, e sta mandando in giro il messaggio – ormai ampiamente rilanciato nei tg e nelle tv – che sta per saltare tutto. Il corso degli eventi ci dà forti indizi che sia stata la comunicazione del Movimento a imprimere la prima drammatizzazione a questa storia, a colloqui ancora in corso sul Colle. La parola «impeachment» per Mattarella, però, non è ancora risuonata, in quella che si appresta a essere la seconda grave svolta, nella notte della Repubblica.
Il primo a evocarla è un dirigente del Movimento, il capo politico, Luigi Di Maio, su Facebook e poi in tv. Prima parla alla propaganda Cinque stelle, poi alla tv pubblica. Su Facebook, alle 20,14, manda una notifica dove scrive «Quello che è successo è incredibile, collegatevi perché ho qualcosa da dirvi»: otto minuti di video in cui viene annunciata la volontà di avviare la procedura di alto tradimento contro il presidente della Repubblica. Il video fa 250mila condivisioni in pochi minuti. In dodici ore successive, tra propaganda ufficiale e non del Movimento, apparirà su 12 milioni di profili Facebook, con oltre 7 milioni di visualizzazioni – siamo forse ai record delle visualizzazioni politiche in Italia.
Su Twitter scrive invece un altro dirigente, già ampiamente noto sui media per le sue uscite al limite del fantasmatico – su tutte, ricordiamo quando, parlando dello sbarco sulla luna, ha twittato: «Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa». Si tratta di Carlo Sibilia, professione ex tecnico ascensorista, personaggio, attenzione, assai vicino a Roberto Fico, neopresidente della Camera, e a quelli che vengono considerati i parlamentari dell’ala ortodossa del Movimento, quella che si dovrebbe sempre ribellare da un momento all’altro al governismo a tutti i costi di Casaleggio e Di Maio. Insomma, detto altrimenti: nella macchina di propaganda che è il Movimento viene mandato avanti e usato un personaggio spesso folkloristico, sempre nella logica dell’esperimento (vedere l’effetto che fa una certa uscita, sui social e nel circo mediatico e televisivo), ma comunque del tutto intrinseco alla Casaleggio (esattamente come Fico), non certo un eretico, né un vero dissidente, meno che mai un oppositore interno. Sibilia era uno dei cinque membri del direttorio M5S, per capirci, quel direttorio per cui tanto si era battuto Alessandro Di Battista per strapparlo a un Gianroberto Casaleggio già in gravi condizioni di salute. Alle 20,46 di quella sera sempre più tesa, calcolatamente incendiaria, Sibilia twitta: «Non esiste mandare nel caos il paese per motivi ideologici. Credo sia arrivato il momento per l’impeachment a Mattarella. È una strada obbligata e coerente». Post scriptum: stiamo parlando di un uomo che, nel governo che infine nascerà, andrà a ricoprire la casella pesantissima di sottosegretario al ministero degli Interni in quota Movimento.
In quel momento anche Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, come Sibilia, sono nella war room del Movimento cinque stelle nel centro di Roma. Conte è arrivato lì leggermente dopo gli altri, direttamente dal Quirinale. C’è il team di Di Maio, con Vincenzo Spadafora e Dario De Falco. Ci sono soprattutto gli uomini di Casaleggio, Rocco Casalino e Pietro Dettori. Sono loro a spingere per una radicalizzazione del quadro, o la va (accordo pieno con la Lega) o la spacca (far saltare tutto e andare presto a nuove elezioni politiche). Sergio Mattarella, alle otto e venti di sera, è allo studio alla Vetrata, dove sta esponendo agli italiani cosa è successo: «L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane», spiega il presidente della Repubblica in quell’ora drammatica. Cedere di un millimetro significherebbe consegnare anche l’istituzione di garanzia rimasta, il Quirinale, a quello che di lì a poco prenderà le sembianze di un vero e proprio assalto, con modalità di grave violenza ideologica.
Di Maio più tardi alza il telefono e, in diretta su Rai Uno da Fabio Fazio, lancia parole pesantissime contro Mattarella, tutt’altro che da leader moderato: «Se andiamo al voto e vinciamo poi torniamo al Quirinale e ci dicono che non possiamo andare al governo. Per questo dico che bisogna mettere in Stato di accusa il presidente. Bisogna parlamentarizzare tutto anche per evitare reazioni della popolazione». A quel punto l’Operation Infektion, il contagio, chiamiamolo così, è avviato: video Facebook, Twitter, diretta tv da Fazio.
Il primo a capire cosa sta succedendo, tra i leader politici italiani, è Silvio Berlusconi, poco dopo le nove e mezzo di sera. E questa non può non apparire immediatamente come una circostanza importante. Il Cavaliere, che conserva tante leve negli apparati e in pezzi dello Stato nel quale è stato così a lungo al comando, sente di dover intervenire. Qualcuno di cui si fida, il suo vero proconsole nei gangli del potere romano, Gianni Letta, lo informa con preoccupazione che i presunti “bravi ragazzi” stanno provando sul serio l’operazione strategia della tensione, l’impeachment. E così con la sua dichiarazione dà il segnale esplicito, alle truppe alquanto sbandate di Forza Italia, di difendere il Colle.
L’ex Caimano sa di aver avuto un ruolo nella storia del Movimento. Poiché il genere vendeva, abbandonò le sue tv a programmi populisti che hanno tirato la volata alacremente – in nome del dio dell’audience – al gentismo e al populismo, risultati poi la culla del Movimento. Basti un esempio clamoroso: quello di Paolo Del Debbio (mentore di Cristina Belotti, un tempo segretaria di redazione di un suo programma, poi diventata dirigente alla Casaleggio, responsabile comunicazione del gruppo M5S al Parlamento europeo, in ultimo assurta a personaggio importante al ministero dello Sviluppo, nello staff del vicepremier Di Maio). Ma si potrebbe aggiungere, proveniente dal mondo di centrodestra, anche quello di Gianluigi Paragone, l’ex giornalista di simpatie leghiste, direttore della «Padania» che diventerà poi – in un transito del tutto logico e quasi senza soluzione di continuità ideologica – senatore del Movimento vicinissimo a Casaleggio e Di Maio.
Non basta. Berlusconi elogiò la capacità televisiva di Di Maio e Di Battista, si spinse a dire «avercene, di giovani come Di Maio e Di Battista, bucano il video». E sulla Raggi pronunciò la seguente frase: «Persone a me molto vicine me ne hanno parlato un gran bene». Tutti ovviamente pensarono che quelle persone fossero Cesare Previti, il suo avvocato, da cui la Raggi fece la pratica legale, o al limite Pieremilio Sammarco, fratello di Alessandro (quest’ultimo difensore appunto di Previti), nel cui studio la Raggi ancora figurava formalmente all’epoca della sua elezione a sindaco (particolare però omesso dal suo curriculum).
Era la stagione 2015-2016; Berlusconi aveva rotto con Matteo Renzi proprio a causa dell’elezione di Mattarella, che il leader di Forza Italia non aveva scelto, anzi: il Cavaliere e l’allora premier stavano convergendo verso il nome di Giuliano Amato, senonché a Berlusconi – con quanta innocenza e casualità non è dato sapere – capitò di discutere l’opzione Amato parallelamente, al telefono, anche con Massimo D’Alema. Il presidente del Consiglio lo venne a sapere e a quel punto cambiò decisamente strategia, puntando sull’elezione di Sergio Mattarella, con i voti del centrosinistra. Fu, col senno di poi, il vero episodio cruciale in cui Renzi si giocò tutto. La fine del “patto del Nazareno” e, visto a qualche anno di distanza, il vero momento incubatore che lancia il Movimento cinque stelle verso orizzonti di governo, in un vasto e spregiudicato fronte antirenziano trasversale. Berlusconi comincia in quell’anno a usare le sue divisioni – politiche, mediatiche, internettiane, nonché le risorse del gruppo parlamentare di Forza Italia – per picconare il premier e segretario del Pd.
Ma in quel 27 maggio 2018, la notte della Repubblica, il Cavaliere ha ormai visto emergere Salvini come leader di una nuova destra, ed è inquieto. Scorge ormai nei Cinque stelle non più dei simpatici ragazzi telegenici e utilizzabili ma, anzi, il rischio di un’avventura che definisce «pauperista», e che rappresenta un’incognita per i suoi interessi televisivi, pubblicitari, aziendali. Non per forza qualcosa di irrimediabile, dal suo punto di vista sempre pragmatico, ma qualcosa che va gestito, cogestito, indirizzato, reso perlomeno innocuo. E a questo gli servirà, nonostante tutto, il rapporto con Matteo Salvini, il che spiega almeno in parte la «benevolenza critica» con cui Forza Italia (con una formula destinata ai libri di storia non meno delle «convergenze parallele» di Aldo Moro) ha dato il via libera al leader leghista per tentare l’operazione con i Cinque stelle, e riuscirci.
In quel frangente, però, Berlusconi si pronuncia subito a difesa del Colle: «Prendiamo atto con rispetto delle decisioni del presidente della Repubblica. Come sottolineato dal presidente Mattarella, in un momento come questo il primo dovere di tutti è difendere il risparmio degli italiani, salvaguardando le famiglie e le imprese del nostro Paese. Il Movimento cinque stelle che parla di impeachment è come sempre irresponsabile. Forza Italia attende le determinazioni del capo dello Stato, ma ove necessario sarà pronta al voto».
La dichiarazione di Berlusconi compare insieme a quella di un unico altro esponente di spicco di Forza Italia, Renato Brunetta. Anche lui mostra di avere le antenne assai sensibili su ciò che di profondo sta avvenendo nel mondo dei Cinque stelle: «Irresponsabile chi parla di impeachment nei confronti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In questo momento particolarmente delicato, nel mezzo di una lunga crisi politica e istituzionale, occorre tutti stare vicino al Quirinale e attenersi alle sue determinazioni». Proprio Brunetta la cui moglie, Titti Giovannone, nell’ottobre 2016, quando emerse il caso, dichiarò di esser lei la proprietaria di un account Twitter (“Beatrice Di Maio”) che ai tempi del referendum costituzionale risultò essere inserito (con dati matematicamente identici) in una ramificata rete di propaganda, a volte di diffamazione, contro Renzi e pro-M5S. La Giovannone – lo rivelò sul quotidiano «Libero» Franco Bechis, uno degli otto giornalisti italiani indicati da Alessandro Di Battista come liberi – era in una chat Whatsapp con cinquanta militanti Cinque stelle, tra i quali l’assistente parlamentare di un esponente del Movimento. La signora sarà condannata due anni dopo per diffamazione in un processo penale, informano «Il Messaggero» e «Il Fatto Quotidiano». Il marito – che nel 2015 scriveva articoli estremamente duri sull’euro, e nel 2016 aveva partecipato al Cantiere del centrodestra a Parma, dove dal palco parlarono personaggi come Claudio Borghi, Luciano Barra Caracciolo, Ettore Gotti Tedeschi – nella notte della Repubblica è invece uno dei primi che si schierano inequivocamente in difesa di Mattarella.
Persino Matteo Salvini – una delle due gambe del futuro governo – interviene sulla campagna per l’impeachment lanciata dal Movimento solo alcuni minuti dopo. Sono le 21,39 e, da Terni, risponde così a chi gli chiede dell’impeachment: «Di questo non parlo. Sono profondamente incazzato che dopo settimane di lavoro, in mezz’ora ci hanno detto che questo governo non doveva nascere». Un’oretta più tardi, sempre dalla città umbra, risponderà: «Impeachment? Non entro nel merito di questi cavilli. Ci penso da domani. Ma Mattarella non mi rappresenta: ha rappresentato gli interessi di altri paesi, non degli italiani. Siamo una colonia tedesca o francese, siamo un paese occupato finanziariamente dai burocrati di Bruxelles».
Il giorno dopo, in due interviste su «Corriere della Sera» e «Repubblica», che riferiscono quindi parole consegnate ai due giornali la sera prima, Salvini racconta: «Una manifestazione leghista a Roma? Non lo so, ma una cosa certa c’è: ho il telefono strapieno dei messaggi di sindaci, avvocati, medici che mi invitano a farlo. Tutta gente sconcertata per quello che è accaduto. Voglio ragionarci a mente fredda, ci vuole calma. Però questo è senz’altro un attacco alla democrazia che non mi sarei mai aspettato. Ora ci dicano la data per le elezioni o andiamo a Roma». Parla di marcia su Roma – idea, peraltro, non esattamente rassicurante, nel paese che inventò il fascismo. Ma non parla mai di impeachment.
Il giorno prima, quando già circolavano voci di un problema politico sorto sul nome di Savona al ministero dell’Economia, Steve Bannon aveva prontamente suggerito una sua linea: «Contro Savona non direi sia un veto, ma i centri monetari, i mercati dei capitali, hanno fatto capire che non accetterebbero una figura come lui, che è qualcosa di diverso rispetto a quello che c’è stato finora. Lega e Movimento cinque stelle devono andare avanti per la loro strada. Hanno mostrato grande determinazione, sicuramente con loro l’economia può diventare più forte. Direi a Salvini e ai Cinque stelle: “andate avanti”. Siete dei movimenti sovranisti, cercheranno di fermarvi, ma avete vinto un’elezione, dovete fidarvi del vostro giudizio. Se ritengono che Savona sia quello giusto, insistano su di lui».
Alle dieci di sera della notte della Repubblica, Marcello Foa – che, come già detto, poi sarà indicato come presidente della Rai proprio da Salvini, ma con il pieno gradimento dell’universo di Davide Casaleggio – scrive su Twitter: «Tra pochi minuti sarò in diretta televisiva su Russia Today @RT_com per commentare la crisi politica italiana innescata da #Mattarella per il suo rifiuto di mandare alle Camere il #GovernoConte». Foa è tenuto in grande considerazione e spesso intervistato dai russi di RT, la tv ufficiale del Cremlino, che affida a lui la lettura di ciò che sta avvenendo in Italia. E la lettura è che la crisi in Italia è stata «innescata da Mattarella». Poco prima, alle 20,27, ancora prima delle uscite di Di Maio e Sibilia su tv e social network, Foa aveva scritto sempre su Twitter: «Il senso del discorso di Mattarella: io rispondo agli operatori economici e all’Unione europea, non ai cittadini. Ma nella Costituzione non c’è scritto. Disgusto». Il tweet riceve in breve tempo 2955 like diretti e 2103 retweet.
A Fiumicino, in quelle ore convulse, ricompare anche Alessandro Di Battista. L’uomo a cui il casting di Gianroberto Casaleggio aveva affidato la casella narrativa del rivoluzionario alla venezuelana, ma anche il figlio di Vittorio Di Battista, un anziano militante della destra romana così orgoglioso di dichiararsi «fascista» da esser soprannominato dagli amici «Littorio». Il giovane Di Battista sul palco infiamma gli animi della folla romana del Movimento, accorsa sul litorale: «[Il fatto che Mattarella abbia convocato Cottarelli al Quirinale] dimostra che aveva tutto un piano già pronto». Poi introduce una teoria del complotto, che di lì a poco diventerà un Leitmotiv degli attacchi sui social al presidente della Repubblica: «Non so se a Mattarella siano arrivate telefonate da qualche Paese estero».
Di Maio, che nel frattempo lo ha raggiunto sul palco, è preoccupato per qualcos’altro: come trascinare l’alleato, la Lega, in questa iniziativa: «La Lega non può tirarsi indietro su questa azione di responsabilità nei confronti del presidente della Repubblica, sennò dimostra di non voler andare fino in fondo». Quindi, con chiarissima allusione al capo dello Stato, grida: «Leali alla Costituzione, avevo promesso, e non l’ho tradita io stasera questa promessa».
In questa tumultuosa, caotica, e sempre più incendiaria sequenza di fatti, incontri, riunioni, telefonate, trasmissioni tv, happening di piazza, una logica nascosta c’è, ma sfugge in quel momento, se non guardandola dall’alto, ex post. Pochi giorni prima, il mercoledì di quella stessa settimana, nel mondo del Movimento è diventato virale un post su Facebook di Vittorio Di Battista, il papà di Alessandro, indirizzato pubblicamente proprio a Sergio Mattarella. Il post – che di lì a poco verrà cancellato – suona a dir poco minaccioso per il presidente della Repubblica, ritenuto responsabile dello stallo che ancora frena gli arditi del Movimento nella corsa verso Palazzo Chigi: «Lo capisco [Mattarella] e per questo, mi permetto di dargli un consiglio, un consiglio a costo zero. Vada a rileggere le vicende della Bastiglia, ma quelle successive alla presa. Quando il Popolo di Parigi assaltò e distrusse quel gran palazzone, simbolo della perfidia del potere, rimasero gli enormi cumuli di macerie che, vendute successivamente, arricchirono un mastro di provincia. Ecco, il Quirinale è più di una Bastiglia, ha quadri, arazzi, tappeti e statue. Se il popolo incazzato dovesse assaltarlo, altro che mattoni. Arricchirebbe di democrazia questo povero Paese e ridarebbe fiato alle finanze stremate. Forza, mister Allegria, fai il tuo dovere e non avrai seccature». Di Battista senior finirà indagato, secondo l’articolo 278 del codice penale, per offese al prestigio e all’onore del capo dello Stato, ma quel post – con quello che suscita in termini di commenti e gogna social nei luoghi non ufficiali pro-Movimento – è una spia che lì per lì in tanti sottovalutano.
Nella notte di domenica, questo clima già sospeso a mezz’aria da giorni si sta consolidando, come abbiamo visto. Dopo tanto tuonare, piove. Cominciano ad apparire numerosi, troppo numerosi, e troppo concentrati nello stesso arco di tempo, tweet più o meno duri contro il capo dello Stato, che vanno dalla satira pesante («Mattarella ha un würstel al posto del cuore #impeachment») all’insulto («traditore della patria» è il più tenue), alla violenza verbale («Così #Mattarella butta nel cesso il voto di 15 milioni di italiani. Perché secondo lui la sovranità in Italia appartiene alla #UE e alla #Merkel e non al popolo italiano»). In molti casi il confine della minaccia al presidente della Repubblica viene palesemente superato (come quando qualcuno scrive «Don’t Fear The Reaper», «non temere la Grande Mietitrice», cioè la morte, e sotto pubblica una foto di Mattarella in camice ospedaliero e la scritta «do not intubate do not reanimate»). Su Facebook, compaiono commenti di questo tenore: «dovremmo fargli fare la fine del pezzo di merda del fratello». Ne riportiamo solo uno, di una collezione vasta e violenta.
La polizia postale il giorno dopo avvia un monitoraggio, ma quello che accade su Twitter va separato da Facebook, e seguito la notte, in presa diretta. Grazie al lavoro di due informatici, Andrea Stroppa e Daniele di Stefano, che hanno utilizzato un algoritmo per individuare la propaganda digitale (lo impiegarono già – quasi identico – durante il World Economic Forum di Davos 2018), ci è stato possibile seguire il comportamento di tre hashtag, che sfruttano parole chiave politiche lanciate dagli incendiari leader di quella serata: #mattarelladimettiti, #impeachment e #impeachmentmattarella. Non significa, attenzione, che siano quei leader a ordinare di spingere quegli hashtag: stiamo solo definendo una successione temporale di fatti. L’analisi individua 360 account, e viene condotta in tempo reale, dalle ore 21,50 del 27 maggio alle 14,30 del giorno successivo.
Quello che registra il software non lascia spazio a molti dubbi: a valle, si osserva un network di «account sospetti» su Twitter, strutturato e con dinamiche organizzate, che ha prodotto una forte spinta artificiale ai tre hashtag di propaganda (a volte con contenuti pesanti o vere minacce) contro Sergio Mattarella. È avvenuta contro la presidenza della Repubblica – scrivono i due informatici – «un’azione coordinata di digital propaganda, ben studiata in modo da potersi agevolmente nascondere in mezzo agli account legittimi. Non ci sono evidenze che questi account appartengano ufficialmente a partiti politici come Lega Nord e M5S». Né che la campagna provenga dall’estero. «È però allo stesso modo evidente che in Italia esiste una rete in grado di manipolare eventi politici e sociali, con capacità di poter amplificare fenomeni e farli diventare virali». Secondo i due informatici si tratta di un preciso network: il sample analizzato è relativamente piccolo, poiché i criteri per l’inclusione sono stati molto selettivi, potrebbe però essere nei fatti più esteso. Molti account del network sono sotto «limitazione temporanea» da parte di Twitter, o subiscono restrizioni: segno che sono stati oggetto di ripetute segnalazioni, o sono sotto l’attenzione della cybersecurity dell’azienda. In definitiva, per argomenti e stili, mostrano una congiunzione di interessi politici che è poi alla base di alleanze politiche attuali: tra sovranismo, ultranazionalismo, tematiche nazionalsocialiste, umori anti-establishment.
La mattina dopo comincia con una brusca frenata di Matteo Salvini, che imprime il tono e la direzione alla giornata. Il leader della Lega va a Radio Capital e dichiara: «Io le cose le faccio se ho elementi concreti: al momento non li ho, devo vedere, devo studiare». E sulla temuta manifestazione verso la Capitale, spegne tutto: «Nessuno pensa a una marcia su Roma». Le antenne del capo leghista, unite ai warning raccolti da Giancarlo Giorgetti in ambienti diversi, soprattutto di polizia, spingono a questo risveglio molto più prudente. Il Movimento cinque stelle resta indietro, ed è qui che Salvini comincia a costruire il suo dominio, nel futuro rapporto con i Cinque stelle: è più lesto del suo alleato, Davide Casaleggio, nel capire che l’impeachment, oltre che totalmente infondato giuridicamente, è una strada suicida politicamente. E Salvini non è uno che si suicida. Il Movimento semmai sì, è un tool pensato a suo tempo – da Gianroberto Casaleggio – anche per l’eventuale autodistruzione, una volta raggiunto l’obiettivo. Ma qual è l’obiettivo?
Alle 11,43 Manlio Di Stefano – che con Di Battista è il più vicino dei Cinque stelle agli emissari di Mosca, in particolare all’uomo incaricato da Vladimir Putin ai rapporti con i partiti anti-establishment e le destre europee, Sergej Zheleznyak – ancora tuona: «La richiesta di impeachment per il presidente Mattarella la presenteremo appena possibile, in base ai tempi tecnici. Ci stiamo riunendo per decidere». Di Stefano si spinge a rendere palese anche uno dei retropensieri che più circolano in quelle ore nel cervello del Movimento: «Anche se tornassimo al voto cambiando le proporzioni saremmo punto e a capo. Bisogna risolvere il problema della ingerenza di Mattarella nella formazione del governo».
Mentre Giorgia Meloni continua a ripetere, anche a ora di pranzo, che ci sono tutti i presupposti per l’impeachment, Giorgetti è già completamente su un’altra linea. Il braccio destro di Salvini quel giorno si trova a Genova come testimone al processo sulle spese fuori controllo nel consiglio regionale ligure, su richiesta del deputato leghista Edoardo Rixi, uno degli imputati per peculato, e spiega serenamente, davanti a una domanda sull’impeachment: «Sono cose delicate, ne parlo stasera a Roma con Salvini». Appare immediatamente chiarissimo che è un no di fatto. La Lega non si lancia nel suicidio politico perseguito dal presunto moderato Di Maio, probabilmente male indirizzato dai gestori della comunicazione del Movimento provenienti dalla Casaleggio. L’impeachment muore qui, dopo la profonda notte della Repubblica.
Il resto sono appendici, necessarie per dare il tempo a Di Maio (Casaleggio, dietro le quinte, non ha neanche il problema, in quanto non ci ha mai messo la faccia) di gestire uno straccio di ritirata. Nel primo pomeriggio il giovane di Pomigliano d’Arco vede Salvini a Roma. Il leader della Lega gli dice senza giri di parole che la strada dell’attacco a Mattarella è insensata, controproducente, suicida. Di Maio non ha un’opzione di riserva. Incassa. La sua preoccupazione è correre a gestire dal punto di vista della comunicazione questa che rischia di passare come una sua personale Caporetto, e alle 16,41 dichiara alle agenzie: «Noi come Movimento siamo totalmente convinti si debba portare avanti [la procedura di impeachment]. Aspetteremo ancora qualche giorno perché un ulteriore elemento per promuoverlo è che si mandi alle Camere un governo che non ha maggioranza». Poi si affretta a girare un video per il suo canale Facebook. E lì è ancora più evidente che sta perdendo la partita perché, parlando sempre di attivare la procedura prevista dall’articolo 90 della Costituzione contro il capo dello stato, dice: «Se la Lega non fa passi indietro, qui parliamo di una certezza assoluta. Non facciamo questa cosa a cuor leggero. Ero un estimatore di Mattarella ma la scelta di ieri è stata incomprensibile». Dove è chiaro che in politica inserire una opzione subordinata («se la Lega...») indica millimetricamente dove si andrà a cadere: su quella subordinata. Alla fine Di Maio, con toni rochi e mostrando alcuni seri limiti politici, più gravi di quelli culturali, tira dentro sia pure senza nominarlo Ugo Zampetti, il principale consigliere politico del Quirinale: «Più che il presidente andrebbero messi in stato di accusa i suoi consiglieri». Forse qualcuno gli ha raccontato – o se ne è persuaso da solo – di una telefonata tra Giorgetti e Zampetti nella quale, con la massima chiarezza, la Lega ha riferito al Quirinale di non essere minimamente intenzionata a seguire follie sulla messa in stato d’accusa del presidente.
Addetto alla tv, Alessandro Di Battista articola a Otto e mezzo, intervistato da Lilli Gruber, la stessa subordinata di Di Maio: «Se Salvini non chiedesse l’impeachment si dimostrerebbe pavido». Le stesse frasi ritornano identiche su bocche diverse, come se le figure dei due principali leader Cinque stelle, Di Maio e Di Battista, fossero intercambiabili account di un social network, gestito altrove. Entrambi sanno benissimo che l’operazione è morta lì, e ha avuto un unico effetto: lasciare in campo solo Salvini (e Casaleggio), facendo tramontare ogni ruolo di Di Maio. Non che Di Battista, in fondo, ne sia particolarmente dispiaciuto. È possibile che il fallimento di Di Maio sia la campanella che faccia suonare il suo turno.
La sera dopo, arrivato a Napoli per un comizio davanti a una folla di elettori e attivisti Cinque stelle ancora convinti che l’impeachment sia a un passo, Di Maio deve esordire così: «Prendo atto che Salvini non lo vuole fare, e ne risponderà lui come cuor di leone; ma purtroppo non è più sul tavolo perché Salvini non lo vuole fare e ci vuole la maggioranza». È la prima grandiosa sconfitta di Di Maio, che ne inanellerà diverse altre; non di Casaleggio, che l’ha utilizzato come tester e come teaser allo stesso tempo; tanto meno di Salvini, che se ne gioverà. Tocca a Di Maio inventarsi una retromarcia radicale che viene notata da molti, sebbene abbellita e celata dalla propaganda pro-Movimento: «Spero che si vada alle elezioni il prima possibile; ma in una situazione politica molto difficile resta una posizione coerente ma collaborativa con il presidente della Repubblica Mattarella per uscire a risolvere quella che è l’attuale crisi che stiamo vivendo». Ridondanze lessicali che tradiscono il vicolo cieco in cui si è chiuso.
Ciò nonostante, pochi mesi dopo – alla firma dell’accordo con l’Unione europea sulla manovra finanziaria –, Di Maio non si farà scrupolo di sostenere che «il presidente Mattarella è stato fondamentale, come garante della Costituzione, è stato un po’ l’angelo custode del governo, ha sempre seguito con attenzione e in modo imparziale la legge di bilancio e abbiamo evitato la procedura d’infrazione, ce l’abbiamo fatta». Il primattore della stagione dei Cinque stelle al governo, selezionato dall’esperimento di Casaleggio come uno dei due giovani frontmen del Movimento, deve essere pronto a dire, letteralmente, tutto e il contrario di tutto. Una delle caratteristiche che Di Maio condivide con il suo gemello, Alessandro Di Battista.