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L’esecutore
Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 Guido Alpa, avvocato e prestigioso giurista genovese, presidente per tanti anni del Consiglio nazionale forense, un elenco infinito di incarichi nel board di importanti società, è assai incuriosito dall’ascesa di un giovane politico fiorentino che ha appena vinto le primarie del Partito democratico, diventandone segretario, e che ormai punta chiaramente a Palazzo Chigi, imbracciando la narrativa della «rottamazione» spesso anche nei confronti del governo in carica presieduto da un altro democratico, Enrico Letta. In quel periodo, e già da alcuni anni, Alpa è il dominus di un avvocato di cinquant’anni di origini pugliesi, Giuseppe Conte, talmente lontano dal momento in cui sarà indicato come candidato premier da Luigi Di Maio (in pieno accordo con Matteo Salvini) da adoperarsi per favorire un incontro di conoscenza, di quelli che si usa fare nel mondo a cavallo tra politica, professioni, studi e imprese, tra l’anziano luminare del diritto e Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze in quei giorni appare a tutti – non occorre un particolare acume nella lettura della fase politica – sulla rampa di lancio verso Palazzo Chigi. E Alpa vorrebbe conoscerlo.
Conte in quegli anni si è trovato in un contatto diretto, assiduo, col mondo renziano. E la via maestra è rappresentata da una delle figure chiave nel renzismo, Maria Elena Boschi, anche lei avvocato, di una generazione più giovane di Conte, la stessa di Alfonso Bonafede (che sarà ministro della Giustizia del governo M5S-Lega), pure lui avvocato a Firenze. La futura ministra delle Riforme, che sarà uno dei bersagli preferiti di una campagna d’odio violentissima della propaganda pro-M5S, è stata assieme a Conte e al futuro vicecapo di gabinetto del ministro Bonafede, Leonardo Pucci, in una commissione d’esame nella scuola delle professioni legali a Firenze. La conoscenza con Bonafede è anch’essa antica, e per nulla ostile alla futura ministra da parte di Bonafede; un contatto che risulterà utile nelle fasi in cui – ciclicamente – Movimento e Pd tenteranno abbozzi di dialogo su questioni politiche specifiche, dagli assetti nelle commissioni parlamentari a quelli fuori dal Parlamento. Quando, almeno a Firenze, comincia ad apparire evidente l’ascesa di Renzi, il giovane avvocato Boschi è una delle poche figure che mettono in piedi il network renziano e la convention della Leopolda; ed è proprio questo filo a distanza tra la Boschi e Conte che consente a quest’ultimo, a un certo punto, di facilitare l’incontro tra Alpa e Renzi.
Dopo alcuni tentativi in cui Conte si adopera per questo colloquio, l’incontro avviene. Cordiale, una chiacchierata con contenuti contingenti e legati agli scenari del potere in quel momento. Alpa si presenta dinanzi al neosegretario del Pd accompagnato proprio da Conte, che nessuno onestamente immaginerebbe futuro premier. È un dialogo di conoscenza che fila via senza che lì per lì nessuno nei media se ne interessi particolarmente. I due, Alpa e Conte, appaiono assai ben disposti verso Renzi in quella stagione, in fondo non così lontana. In quell’occasione Conte resta rispettosamente taciturno. Assiste spettatore al dialogo del suo mentore giuridico con il capo del renzismo: ossia, di lì a poco, il nemico numero uno della Casaleggio e della campagna elettorale di Luigi Di Maio. Renzi racconterà a Gian Antonio Stella: «Ci ricordiamo i grandi complimenti che [Conte] ci faceva quando eravamo al governo noi». «Vuol dire che conoscevate già lo sconosciuto?», chiede Stella. «Sconosciuto? Conserviamo ancora i messaggini di lode per il nostro governo».
L’Italia è un paese in cui reti di relazioni e incroci professionali possono risultare così sorprendenti che alla fine tutti se ne dimenticano e nessuno se ne sorprende. Il quotidiano «la Repubblica», nell’ottobre del 2018, ha sollevato la questione del potenziale conflitto d’interesse esistente tra Conte e Alpa: i due avevano da poco svolto un incarico professionale assieme nel 2002, quando Alpa fu il professore ordinario che giudicò Conte nel concorso universitario vinto dal premier all’Università Vanvitelli di Caserta. Secondo l’articolo 51 del codice di procedura civile, avere una collaborazione professionale con un esaminando è elemento che causa l’incompatibilità per chi esamina. Conte ha risposto con una lettera a «Repubblica» in cui lamentava «falsità e diffamazioni», ma non correggeva l’elemento di fatto, e cioè l’aver svolto – con Alpa, ma fatturando separatamente, sostiene – una difesa comune del garante della privacy, in una causa del 2001 contro la Rai: «Io e il prof. Alpa non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un’associazione tra professionisti [...]. All’epoca dei fatti, Alpa aveva sì uno studio associato, ma a Genova, con altri professionisti. Mentre a Roma siamo stati “coinquilini” utilizzando una segreteria comune».
La lettera a «Repubblica», inviata dal portavoce Rocco Casalino ma firmata direttamente da Conte, viene pubblicata l’8 ottobre 2018. Ma lo stesso giorno, nella pagina a fianco, viene dato ampio spazio a un particolare: nel curriculum ufficiale dell’avvocato Conte (alla voce «Tra i principali incarichi professionali svolti») sta scritto testualmente: «Dal 2002 ha aperto con il professor Alpa un nuovo studio legale, dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare».
Il premier «avvocato del popolo», che firmerà la «manovra del popolo», ha tenuto a connotarsi fin da subito come uomo progressista: lo ha affermato spesso nei giorni cruciali in cui la sua nomination per Palazzo Chigi restava sospesa. Ha detto anche che, prima di diventare il premier dell’esecutivo Lega-Movimento, aveva «un cuore che batte a sinistra». Conte ha poi fatto sapere in giro che gli piacevano le posizioni di Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi nelle primarie Pd del 2013. E «Il Fatto Quotidiano» – nel primo importante ritratto a tutta pagina del neopremier apparso su quel giornale – ha messo nero su bianco, a testimonianza di questa circostanza, che Conte aveva votato Cuperlo alle «ultime elezioni». Un’informazione che aveva l’effetto di bilanciare l’alleanza a destra che il Movimento stava invece costruendo con la Lega. Ma anche qui bastava incrociare queste affermazioni con la realtà per accorgersi facilmente che Cuperlo il 4 marzo non era neanche candidato, e dunque non poteva esser stato votato da Conte.
Conte aveva un rapporto amichevole con Maria Elena Boschi. Sappiamo che la sua posizione sul referendum costituzionale, quello che di fatto ha disarcionato Renzi e sancito la fine della sua parabola di governo, non era affatto contraria. Nulla di male, ma non sembrerebbero sulla carta i requisiti di chi diventerà premier del governo Movimento-Lega. Un governo populista e autoritario secondo molti, «populista e xenofobo» secondo importanti uomini di governo europei – la definizione in questo caso è del commissario europeo all’Economia, il francese Pierre Moscovici. Fino a che punto, conviene ora chiedersi, il governo Lega-Movimento è populista? O, addirittura, sovranista? E cosa ne pensa il suo premier-esecutore, questo avvocato semisconosciuto nella scena pubblica italiana, selezionato quasi con una nomination di stile televisivo, che si presenta alla Camera con «tre parole chiave», ascolto, esecuzione (del contratto) e controllo? E, se esecuzione è, di chi sono gli ordini?
La realtà è che Conte si cala talmente nella parte da arrivare a teorizzare, persino giuridicamente, il sovranismo – non si vuol dire il semplice populismo, ma la sua versione più cara alla Lega e all’universo culturale di Casaleggio. Il 26 settembre 2018, parlando a New York in occasione dell’assemblea dell’Onu, Conte pronuncia due frasi, lievemente diverse nella forma ma molto nella sostanza. Nel discorso ufficiale all’assemblea generale dice: «Quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è esattamente in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e l’esercizio della stessa da parte del popolo». Un’affermazione discutibile, ma non tecnicamente oppugnabile, benché parziale (manca totalmente la seconda parte dell’articolo 1, quella in cui si specifica che la sovranità «appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»).
Senonché la seconda frase, pronunciata in una chiacchierata più informale ma ripresa in numerosi filmati dei presenti davanti ai giornalisti, con l’East River sullo sfondo, è il manifesto teorico più impressionante della metamorfosi da pacato professore di diritto civile allievo di Alpa a premier del governo Lega-Movimento. Conte non evoca più solo la «sovranità», ma parla proprio di «sovranismo», pronunciando questa dichiarazione assai sorprendente per un giurista: «Il sovranismo è nella nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo». In quel momento gli sfugge anche un’espressione surreale e curiosa: «mi interessa, come esponente del governo, incontrare gli investitori stranieri». Ma lui non è «un esponente» del governo – uno che cura l’esecuzione di un contratto giuridico o di un testamento (il testamento ideologico di Casaleggio: far convergere i due movimenti, Cinque stelle e Lega). No, Conte è il presidente del Consiglio e teoricamente è il capo di quel governo che sta eseguendo l’esperimento di Casaleggio, a così tanti anni di distanza da quando se ne fecero le prime prove.
Più volte, del resto, abbiamo sentito Giuseppe Conte parlare di «populismo» e «sovranismo». Quello che negli ambienti istituzionali italiani, anche in alto loco, nel corso degli 88 lunghissimi giorni per formare il governo è stato considerato un personaggio utile a tentare un accettabile compromesso per provare a romanizzare i barbari, a digerire il Movimento, a metabolizzare il 4 marzo e incanalarlo e gestirlo dentro una dinamica tutto sommato accettabile istituzionalmente, si rivela in realtà in tante occasioni un nuovo portavoce dell’esperimento, del tutto permeabile e fungibile alla narrativa populista. Uno che la teorizza: per esempio in una sera di novembre 2018 va in tv da Giovanni Floris, in una delle trasmissioni predilette dal Movimento, e alla domanda su come definirebbe il popolo risponde, perso ormai ogni residuo freno inibitorio: «Il popolo è la somma degli azionisti che sostengono questo governo». Il portavoce, Rocco Casalino, seduto in studio, viene immortalato mentre si concede soddisfatte espressioni facciali.
Tutto, frasi e comportamenti del premier, avviene in effetti sulla base di ragionamenti svolti dal suo team comunicativo, composto da uomini provenienti dalla Casaleggio o da uomini che devono il loro potere quasi assoluto al fatto di essere il trait d’union con Davide Casaleggio, come il portavoce Rocco Casalino (sul cui ruolo e sui cui metodi torneremo) o lo storico capo dei social media alla Casaleggio Associati, Pietro Dettori.
In tante altre occasioni Conte è stato più che esplicito nello sposare e lodare il sovranismo. Per fare solo qualche esempio, il 14 ottobre 2018 afferma che «populismo e sovranismo sono concetti declinati con accezioni negative, usati come strumenti negativi: io personalmente non ne ho una concezione negativa». Il 5 giugno 2018, nel discorso per la fiducia alla Camera, aveva citato l’orazione di Fëdor Dostoevskij del 1880 su Aleksandr Puškin come un discorso sul populismo nel senso contemporaneo. In realtà in quel testo il grande romanziere russo parla di «popolo russo», di «intelligenza del popolo», di «verità del popolo», e di Puškin come grande poeta popolare, ma in maniera del tutto incompatibile con i populismi contemporanei. Peraltro, come ha notato dettagliatamente Anna Zafesova, il riferimento è anche maldestro sul piano lessicale, oltre che concettuale. Conte nell’aula di Montecitorio dice: «E qui traggo ispirazione dalle riflessioni di Dostoevskji tratte dalle pagine di Puškin». Così riportano i video dell’aula e il testo che viene diffuso alle agenzie (ma nello stenografico l’errore è stato corretto: segno che è stato percepito come tale dalla comunicazione ufficiale M5S e vi è stata messa una “toppa”). Le riflessioni di Dostoevskij, infatti, non possono essere «tratte dalle pagine di Puškin»: per l’ovvia ragione che Puškin muore quando Dostoevskji è appena un adolescente.
Questa piccola, inoffensiva curiosità è solo una delle tante che hanno acceso i riflettori sul curriculum e la biografia di questo pugliese di Volturara Appula, il papà impiegato del Comune, la mamma maestra, un uomo che merita l’attenzione da riservare a chi non proviene da famiglie potenti. Quando emerge la sua candidatura, il «New York Times» scopre che alcuni dati indicati nel curriculum dell’avvocato pugliese non tornano, non corrispondono esattamente a come li ha forniti lui. Nel curriculum presentato sul sito della Camera dei deputati nel 2013, quando Conte venne nominato nel Consiglio di giustizia amministrativa (il suo nome era gradito sia ad Alfonso Bonafede, poi guardasigilli grillino nel governo Lega-Movimento, sia a Maria Elena Boschi, cioè al cerchio più ristretto dei renziani), c’è scritto tra le altre cose che Conte «dall’anno 2008 all’anno 2012 ha soggiornato, ogni estate e per periodi non inferiori a un mese, presso la New York University, per perfezionare e aggiornare i suoi studi». Interpellata da Jason Horowitz del «New York Times», una portavoce dell’università, Michelle Tsai, ha dichiarato di non aver trovato presenza o traccia di Conte né come insegnante, né come ricercatore, né come studente. E ha poi spiegato al giornalista che nel caso in cui Conte avesse frequentato corsi molto brevi, della durata di giorni, l’università non conserva documentazione; ma in quel caso non lo si potrebbe definire un «perfezionamento».
Problemi nel reperimento di conferme su altri «perfezionamenti» indicati nel curriculum di Conte ci sono stati anche con l’Università di Cambridge: una fonte interna all’agenzia Reuters ha dichiarato di non aver trovato tracce di studi di Conte. «Il Messaggero» e «Repubblica» hanno chiesto, e ricevuto smentite, sulla circostanza che Conte abbia seguito dei corsi a Pittsburgh e alla Sorbona. Il Movimento cinque stelle ha replicato ufficialmente sostenendo che «nel suo curriculum Giuseppe Conte ha scritto con chiarezza che alla New York University ha perfezionato e aggiornato i suoi studi. Non ha mai citato corsi o master frequentati presso quella università». «Il Fatto Quotidiano», in un articolo che riproponeva anche un tweet in cui si rilanciavano accuse assai velenose contro Horowitz, si schierava in difesa di Conte senza se e senza ma, minimizzando lo scoop del «New York Times»: «Diversi accademici confermano quanto sostenuto dal docente di diritto privato. E spiegano che le posizioni di visiting scholar e visiting professor – così si definiscono gli studiosi che svolgono attività di ricerca presso atenei di altri Paesi – prevedono solo l’accesso alla biblioteca dell’università e non sono formalizzate. È normale quindi che non vengano né registrate [sic] nelle banche dati dell’istituzione».
A differenza di Ted Malloch, la polemica sulle esagerazioni contenute nel curriculum di Conte non frenerà la corsa del professore, in questo caso verso Palazzo Chigi. Ma certe cose che nel mondo anglosassone sono imperdonabili e provocano la fine immediata di qualunque ambizione politica, in Italia sono tollerate, se non addirittura difese, da falangi di propagandisti.
In diverse circostanze, non solo perché lui stesso ha parlato di mera «esecuzione» del contratto, Conte è stato criticato per un atteggiamento troppo sbiadito nell’esercizio della funzione di presidente del Consiglio. Se Matteo Salvini ha conquistato la scena in modi così debordanti, a volte tallonato da uscite altrettanto rumorose – ma quasi sempre tecnicamente più improvvide – di Luigi Di Maio, di Conte si è registrata solo una modesta traccia. Alcuni episodi che lo hanno riguardato sono diventati iconici; e vale la pena provare a raccontarli, sia pure brevemente. Del resto, l’esecuzione non prevede una particolare autonomia di giudizio; anzi, forse può essere utile il contrario, un atteggiamento il più possibile notarile rispetto ai due contraenti del patto, Matteo Salvini e Davide Casaleggio.
In un’altra vicenda, l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto sicurezza tanto caro alla Lega, il premier si fa immortalare, su richiesta di Salvini, mentre lui e il ministro dell’Interno innalzano due fogli bianchi con l’hashtag della riforma, #decretosicurezza. Il presidente del Consiglio appare discretamente imbarazzato, ma non si sottrae a quella scena, che certo non eleva lo standing della presidenza del Consiglio. Mi hanno raccontato che il 9 novembre 2018 Conte stava ricevendo nel suo studio a Palazzo Chigi i due capigruppo parlamentari di Fratelli d’Italia, forse prevedendo fasi turbolente nella maggioranza Lega-Movimento. Il portavoce Casalino avrebbe fatto irruzione senza bussare e, con un gesto che ai due ospiti sembrò autoritario, battendo il dito sull’orologio, avrebbe ricordato al premier che il tempo per l’incontro era scaduto. Conte, con una mitezza apparsa eccessiva ai due capigruppo, avrebbe detto che erano in ritardo per colpa sua, prolungando così l’incontro per altri dieci minuti.
Eppure in altre circostanze Conte mostra una altissima, quasi smodata, considerazione di sé. Forse galvanizzato oltre ogni sensata misura da certi paragoni («Conte ha la stessa inesperienza politica che avevano Monti e Ciampi», ha dichiarato Marco Travaglio a Otto e mezzo, la trasmissione condotta da Lilli Gruber), il premier, offrendo ai giornalisti un piccolo brindisi l’8 agosto 2018, giorno del suo compleanno, si è prodotto in un bizzarro elogio del giurista in politica che preludeva a un autoincensamento. «Alla fine del liceo ero incerto sul da farsi. Ad aprile avevo scelto Ingegneria, in estate ero pronto per Filosofia, a settembre mi sono deciso per Giurisprudenza. Certo, il diritto è faticoso, ma dopo anni e anni uno se ne appropria e diventa uno strumento utile. Perché il diritto innerva di sé l’intera vita politica e sociale. Chi è privo di cultura giuridica può afferrare concetti e obiettivi, ma deve affidarsi al tecnico e ne resta psicologicamente in balia». Stava per caso sopravvalutando il suo ruolo, rispetto a quello di Salvini e Di Maio? «In politica c’è quello che dice: quella cosa si deve fare! C’è un altro che obietta: si può fare o non si può fare? E nell’incertezza, senza un solido parere giuridico, si arriva al Consiglio di Stato, alla Corte Costituzionale». Siamo nei giorni di mezza estate del 2018, quando il governo italiano vanta di aver ottenuto un grande successo in Europa nella ripartizione solidale dei migranti – successo che ovviamente non esiste, come poi dimostreranno altre gravi crisi umanitarie nella gestione di flussi migratori. Fabio Martini coglie quel dettaglio, che tanto dice su un uomo che si sente arrivato e si gonfia il petto, e lo racconta sulla «Stampa».
Oppure, altro episodio rivelatore: il 15 dicembre 2018, dopo una normalissima udienza privata al cospetto di papa Francesco, il premier si autocelebra in un post su Facebook che racconta l’evento. Conte scrive: «Questa mattina ho incontrato Papa Francesco», ma si concede frasi fuori tono: «abbiamo richiamato il rispettivo impegno», «ciascuno nell’ambito delle proprie competenze», «ci siamo confrontati». Come se – forse con la benedizione di padre Pio, di cui è devotissimo, o dei suoi antichi professori cattolici a Villa Nazareth – il presidente del Consiglio si sentisse in fondo, ormai, un primus inter pares, o addirittura cominciasse a persuadersi di essere uno statista.
Una sensazione che alcuni media pomperanno, per la verità, in maniera non innocente; contribuendo a costruire l’immagine di un Conte ormai sulla rampa di lancio politica anche dentro il Movimento, dopo l’accordo con l’Unione europea sulla manovra il 19 dicembre 2018. Ma è uno spin messo in giro abilmente dalla comunicazione ufficiale del Movimento: Conte come il vero, futuro strumento di Davide Casaleggio, mentre Di Battista sarebbe l’arma letale per la campagna elettorale euro-populista alle elezioni europee; con tanti saluti a Luigi Di Maio, la cui immagine viene giudicata ormai troppo appannata.
In quell’occasione Conte, in un’intervista al «Corriere della Sera», mostra l’altra faccia del conflitto che incarna: non quella sovranista ma quella dell’uomo del presunto dialogo. Le domande gliene offrono comoda occasione, e lui è ben lieto di recitare la parte, dopo un accordo con l’Unione europea che è costato 4 miliardi di tagli agli investimenti nella manovra: «Questo [un’uscita dal sistema della moneta unica] non è né sarà mai un obiettivo politico di questo governo. Ma attraversare una procedura di infrazione che avrebbe messo sotto controllo i conti dell’Italia per sette anni, inutile negarlo, avrebbe avuto un costo politico molto elevato, e forse non del tutto prevedibile». Anche nel momento in cui in tanti sembrano volerlo far sembrare più un esecutore di Sergio Mattarella che di Salvini-Casaleggio, Conte invia un messaggio che non dispiace ai sovranisti, con quel «non del tutto prevedibile». Passa anche questo messaggio: oggi è andata così, ma domani non possiamo saperlo. Nell’ipotesi, che a Conte viene fatta balenare via via (non importa se reale o lunare), di poter diventare lui – non Salvini o altri – l’ago della bilancia della stagione populista. E infatti, di lì a poco, il Movimento tenterà l’alleanza europea con i gilet gialli: non proprio dei moderati istituzionali, ma una rivolta piena di elementi gruppettari, e segnata anche dal mito della Frexit, l’uscita della Francia dall’Unione europea. Insomma, Conte può, come Di Maio, essere interprete ed esecutore di spartiti anche opposti. È un Di Maio 2.0 nel momento in cui Di Maio non viene creduto più.
Del resto ne ha fatta di strada, il devoto di padre Pio. Partito da Volturara Appula, a Roma ha costruito un network trasversale di relazioni che spazia tra il mondo dei giuristi-grand commis dello Stato e il Vaticano. Quando il suo nome viene ufficiosamente fatto pervenire sul tavolo di Sergio Mattarella da Di Maio e Salvini, a maggio del 2018, si avviano discreti sondaggi, non solo da parte del consigliere Ugo Zampetti, per avere qualche notizia in più su questo giurista, che il capo dello Stato non conosce personalmente. Si attiva un informale giro di pareri, nessuno dei quali si rivelerà negativo. Viene tenuto in considerazione Giacinto Della Cananea, un altro giurista (allievo di Sabino Cassese) che Di Maio aveva nominato capo di una strana entità, il Comitato per valutare la compatibilità del programma M5S con i programmi degli altri partiti. I commenti provenienti dal mondo di influenti giuristi romani pervengono a Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e docente di Diritto amministrativo a Siena, oltre che condirettore del master in management della Pubblica amministrazione alla Luiss di Roma (dove anche Conte tiene corsi). I rapporti accademici di questo avvocato pugliese sono, insomma, ben coltivati. Chi ha ricevuto il biglietto d’invito alla «Conferenza annuale sul diritto dell’energia. La strategia energetica nazionale: governance e strumenti di attuazione», avrà visto questa lista di relatori: Giuseppe Conte, appunto, Luigi Carbone, consigliere di Stato, Giulio Napolitano, professore di Diritto amministrativo a Tor Vergata e, a presiedere la giornata (all’Auditorium di via Veneto), proprio Bernardo Giorgio Mattarella.
Insomma, Conte ha un profilo pacato e ben inserito, che in quelle giornate resta in piedi e si fa preferire a quello del rumoroso Giulio Sapelli, così pronto a comunicare alle agenzie di stampa di essere in pista, e anzi, lì lì per spiccare il volo verso Palazzo Chigi. Quel che più conta in questi casi, Conte non attiva veti di nessuno sulla sua figura. È talmente poco noto e silente che non fa rumore, si muove abbastanza in sordina, non è osteggiato da influenti colleghi giuristi del Palazzo. Mario Calabresi, all’epoca direttore di «Repubblica», osserva che è singolarissima la circostanza di un uomo che arriva sulla soglia di Palazzo Chigi senza che nessuno abbia mai sentito il suo tono di voce, o sappia se è in grado di parlare in pubblico.
Conte però sa eseguire. E non è uno con la cattiva fama di voler strafare. L’esecuzione potrebbe aver trovato il suo uomo. Una capacità che, forse, è stata affinata fin da ragazzo tra le felpate stanze di Villa Nazareth, il collegio cattolico che aiuta i giovani studenti di famiglie non abbienti a mantenersi (anche Conte ci ha studiato, ma da non residente all’interno della struttura; per essere residenti bisognava che in famiglia entrasse un solo stipendio). Villa Nazareth – fondata nel dopoguerra da monsignor Domenico Tardini, che dopo la morte darà il nome alla Fondazione che gestisce l’istituto – è un luogo simbolo del cattolicesimo democratico italiano. Dietro i suoi cancelli, andando a ritroso, sono transitati negli anni, come professori o come ospiti, Sergio Mattarella, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad Aldo Moro. Il porporato di peso che tiene d’occhio nella sua prima formazione lo studente Conte è Achille Silvestrini, ma nel corso degli anni si fa sempre più stretto il rapporto di affetto di Conte verso monsignor Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano. Un uomo che in più di una occasione – a Roma come a Washington, e all’ambasciata presso la Santa Sede – Luigi Di Maio ha incontrato e consultato, spesso nella massima riservatezza, nel processo di avvicinamento del Movimento cinque stelle alle stanze vaticane, e al governo.
In quella fase, a metà maggio 2018, non sono in pochi, anche nel mondo cattolico romano delle più diverse ispirazioni – non solo quindi nel cattolicesimo democratico di Villa Nazareth –, a interessarsi a quel Movimento così plasmabile, malleabile, apparentemente romanizzabile. Così potenzialmente utile per tramandare l’eterna struttura, immutata, del potere temporale e spirituale della romanità. Certo – lo vedremo in seguito – è assai diverso il cattolicesimo di Parolin da quello, poniamo, del cardinale Raymond Burke, l’ultraconservatore amico di Steve Bannon, l’ex strategist alla Casa Bianca anche lui di casa sia Oltretevere che nella politica italiana post-4 marzo, e in particolare nel Movimento cinque stelle con cui, come sappiamo, Bannon ha dichiarato di aver avuto diversi incontri. Ecco, quale Vaticano sta vincendo con l’insediamento del governo guidato dal premier Giuseppe Conte? Il Vaticano di Parolin o quello di Burke? Chi prevale nel conflitto – che da allora diventerà endemico di questa stagione italiana –, il Conte teorico del sovranismo, allineato agli interessi di Salvini e Casaleggio, o il Conte apprezzato nell’ambiente dei giuristi romani, e nel Vaticano moderato e più «politico», il Conte che a dicembre del 2018 porta a casa – certamente incoraggiato e quasi guidato dalla presidenza della Repubblica – il negoziato con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione, che a un certo punto il suo governo era sembrato quasi cercare?
La figura del premier dell’esecuzione riassume, in sé, tutta l’ambiguità di questo biennio, le ombre e i poteri che si addensano e circondano l’esecuzione, e il fatto che molti – segmenti istituzionali, o pezzi di centrosinistra – siano ancora convinti, o a volte semplicemente fiduciosi, di poter disarticolare il Movimento, e usarlo, assimilarlo, ricondurlo nelle spire sempre avvolgenti della romanità.
E tuttavia, di nuovo: l’esecuzione è esecuzione di cosa, e per conto di chi? Il fine ultimo, l’endgame di questo intreccio così appassionante di storie e relazioni, umane e politiche, resta controverso. Sebbene il governo Lega-Movimento, e la pulsione estremista-sovranista, appaiano resistenti e tenaci, nell’autunno-inverno del 2018-2019, degli spread, del degrado dei rapporti dell’Italia con l’Unione europea e degli editti dei Cinque stelle contro i giornali. Una cosa è certa: non tutto cambia, nel «governo del cambiamento». Molti poteri sono all’opera per resistere immutati, cambiare tutto per non cambiare nulla o, al limite, staccare il Movimento dalla Lega. Altri vogliono invece una sterzata brusca, sovranista e anti-euro, che ha vissuto uno dei suoi momenti fatali in una notte della Repubblica.